sabato 31 agosto 2013

Etiopia: ODORE DI ETIOPIA

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L’odore d’Africa ti accoglie già in aeroporto. E’ un odore penetrante.
L’odore insopportabile dello scarico del tubo di scappamento che entra inevitabilmente in macchina.
L’odore in tutta la casa di zighinì preparato con tanta cura da Amore e Marta.
L’odore intenso dei bambini che ti corrono incontro per iniziare una nuova mattina di giochi.
L’odore di “zoo” dell’ospedale.
L’odore di incenso durante l’interminabile messa ( 2 ore!!!!!)
Il fumo intossicante dalla cucina dell’ospedale dove le mamme imparavano a cucinare.
Il profumo della terra mentre si piantano le piante nel giardino dell’asilo.
Il profumo dei pop corn preparati dagli scout.
L’odore del caffè che ci aspetta il pomeriggio per la merenda con Teresa.
Il profumo dell’estate: Autan n°5
I tanti odori del mercato di Woliso.
Il profumino della pizza preparata gentilmente dai dottori del Cuam.
Il profumo di Lucas appena dopo il bagno. J
Il buon odore delle suore.
Dopo tre settimane questo “odore” non era più solo una presenza ma è anche sulla nostra pelle?
Sarà per questo che il nostro comitato d’accoglienza a Malpensa ha storto il naso quando siamo arrivati?!?!?! :D
Un saluto dal putto e dalle scimmie di Getche. :P

martedì 27 agosto 2013

NICARAGUA- El Güis, tan diferentes como vos

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Un’isola felice e’ un luogo in cui il disabile non e’ il sordo, ma sei tu, ben udente,  che non conosci il linguaggio dei segni

Un’isola felice e’ un luogo in cui il disabile non e’ il ragazzo in sedia a rotelle, ma sei tu che pensi non possa ballare

Un’isola felice e’ un luogo in cui il disabile non e’ il ragazzo che non sa dove andare, ma sei tu che non sai dove vuole andare

Un’isola felice e’ un luogo in cui il disabile non e’ il ragazzo che devi far felice, ma sei tu che non ti sei ancora  accorta che e’ lui a far felice te

Beh, questa isola felice non e’ Utopia, esiste davvero, si chiama El Güis!




El Güis e’ un centro di attenzione specifica in Nueva Vida, un punto di riferimento per le tante persone che lo frequentano quali bambini, ragazzi, famiglie e giovani adulti.


Le attivita’ dedicate a persone affette da disturbi psicomotori comprendono la fisioterapia per i piccolissimi e sostegno alle loro mamme; uno spazio dedicato all’esplorazione dei 5 sensi con i ragazzi piu’ gravi; un laboratorio di tecniche artigianali e uno di psicomotricita’ per giovani adulti. Inoltre svolge il ruolo di centro scolastico per bambini e ragazzi sordo-muti o con déficit cognitivi, che altrimenti non avrebbero la possibilita’ di mettere a frutto le loro potenzialita’ in una scuola Nica, dato che qui le classi sono sempre molto numerose (fino a 50 alunni cada insegnante!!!!!).


Provate ad immaginare la difficolta’ di essere disabile in Italia. Ok, ora provate a pensarlo in luogo in cui le strade sono sterrate e parte integrante della fognatura, i marciapiedi sono in mezzo alle piante, i pulman sfrecciano per la calle… Capite bene che e’ impossibile muoversi con una sedia a rotelle! Inoltre l’importante poverta’ costringe le madri (spesso sole) a lavorare tutto il giorno, costringendo il figlio disabile in casa o addirittura al letto, con conseguenze inimmaginabili per la sua salute.  El Güis e’ l’alternativa, l’unica alternativa qui a Nueva Vida, nonostante  accolga anche persone di Ciudad Sandino e Managua, che possono raggiungere il centro grazie al servizio del recorrido, una navetta che accompagna i ragazzi negli spostamenti da casa al centro. 


Per noi  tre e’ stata una grande sorpresa! Abbiamo potuto immergerci nel mondo della disabilta’ e sperimentare come si possa affrontare con allegria e naturalezza anche in un contesto cosi’ difficile.

E noi…

Io, futura fisioterapista, ho avuto la fortuna di affiancare e poi sostituire Elda, la mitica fisio, che qualche giorno fa ha dato alla luce il suo secondo bambino.

Giulia

Noi ci siamo dedicate alla raccolta di dati sullo stato di nutrizione e crescita dei ragazzi del centro e inoltre abbiamo potuto affiancare i profe in alcune attivita nelle diverse classi.
Eleonora e Laura

Ci sarebbe un mondo da raccontare e questo e’ solo un piccolissimo assaggio! A presto!

lunedì 26 agosto 2013

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A sto giro ciabbiamo pure la foto!!!

- RICETTA DJIBOUTINA -

Ingredienti:
  • 130 bambini di strada, in strada, in attesa
  • 7 cantieristi accaldati, già sudati, anche se appena lavati
  • 4 educatori pazzi e pazienti
  • 1 infermierina francese comica e determinata
  • 1 direttore pacifico e tutto sorriso
  • un campo di terra e pietre bruciato dal sole opprimente
  • musica da tutto il mondo
  • materiale vario (copertoni di macchina, macchina fotografica, corde per saltare, palline palloni palloncini, colori a dita, a piede e a tutte le parti del corpo più una, calcetto balilla dalle stecche imbalsamate da sole sale e tempo ecc ecc)
  • tanta tanta voglia di mettersi in gioco

Procedimento:
Prendi i 7 cantieristi, svegliali a gavettoni di acqua calda e salata, controlla che abbiano delle belle occhiaie, guidali dietro l'angolo di casa, fai attenzione che la videocamera sia accesa e aspetta che 130 sorrisi in corsa si mescolino con i loro abbracci.
All'apertura del grande cancello blu aggiungi un po' d'acqua e sapone quanto basta per la pulizia del dì, accendi la musica a tutto volume, sbatti le ali, muovi le antenne e lasciati prendere dalle loro zampine.


Separa i piccoli o grandi litigi di bastoni e pietre con un sonoro “kalas” e tenta l'impresa di animare un gioco di squadra, non più complicato di un intuitivo “spaarvierooo!”.
Con l'aiuto degli educatori, fai rispettare una linka (=fila) per la dstribuzione sgomitata di palloncini e trucchi creativi.
Scuoti chi ancora riposa in equilibrio precario su alberi, tavoli e vecchi televisori.
Impasta con le mani e gocce di sudore l'unico pasto della giornata, distribuiscilo a bocche affamate e mettilo al sicuro prima che il più forte lo rubi.
Cuoci tutto a temperatura ambiente (basta quella) al dondolio di un'altalena fatta da corde, cartoni e copertoni.
Vola di qua, vola di là....questo è il cantiere della vita.....QUESTA É FELICITÁ!!!

p.s. Occhio a non cuocere troppo i cantieristi, sono già cotti in partenza!!! :))

Libano - Cosa vuol dire essere un rifugiato?

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Vuol dire scappare dalla Siria per salvare la tua vita e quella delle persone più care.

Vuol dire andare al centro Caritas, ritirare lo scatolone con gli aiuti umanitari e portartelo da solo a "casa", anche se pesa tantissimo. Almeno questo lo vuoi fare da solo, vuoi dimostrare che sei ancora capace di darti da fare per la tua famiglia, anche se intorno a te sai che le persone ti vorrebbero aiutare. E queste persone non fanno niente, perché immaginano cosa stai provando e non vogliono ferirti ulteriormente. È come se ci fosse un codice di comportamento. Però a ringraziare ci provi, perché anche tu, tempo fa, hai fatto il volontario come loro.

Vuol dire affittare una casa in un campo profughi palestinese, che esiste da circa 60 anni e pagare una stanza 500 Dollari al mese. Forse gli altri si dimenticano di aver vissuto la stessa condizione che hai vissuto tu, ma, nella disperazione di non avere diritti da 60 anni e di non potersi pagare le cure più costose come la dialisi, senza la quale non potrebbero sopravvivere, lucrano sulla tua di disperazione.

Vuol dire che alcuni aiuti inviati dalle ONG internazionali arrivano scaduti e non possono essere utilizzati, perché è passato troppo tempo da quando sono stati raccolti a quando sono arrivati. Le motivazioni non si conoscono, ma, anche se sei profugo e disperato, i cibi scaduti non li puoi mangiare e nemmeno darli ai tuoi bambini.

Vuol dire che una volontaria viene dai tuo figlio, gli chiede come si chiama in un arabo stentato e cerca di farlo sorridere disegnando. Tu le sorridi e capisci che lei fa quello che può, ma sai che tuo figlio ci metterà un po’ a sorridere di nuovo, perché si trova in un posto che non è casa sua, e non lo sarà per molto tempo.

Vuol dire che il giorno prima sei un ragazzo dagli occhi buoni, studente di ingegneria e il giorno dopo  fai il cameriere in un bar in Libano, perché hai scritto sul tuo profilo Facebook contro il regime. Sai che, se tornassi in patria, saresti arrestato e quindi, sempre con gli stessi occhi buoni, forse perché non hai perso la speranza, cerchi di far passare una bella serata a sette volontari italiani che si vogliono rilassare.


Vuol dire che, nonostante tu non sia più giovane, abbia lavorato una vita e voglia finalmente goderti i frutti del tuo lavoro nella tua terra, sei costretta a scappare dal tuo paese e ad essere accolta in un centro Caritas, perché non sai dove altro andare.
Vuol dire sperare che tutto questo finisca, non tanto per te che la tua vita l'hai già fatta, quanto per i tuoi figli e i tuoi nipoti, perché non debbano vivere quello che tu hai vissuto. 




una ciambella e tornare a casa

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Se è vero che l'anima arriva camminando, la mia si fermerà qui ancora un po', dopo il primo di settembre...

Questo pensavo, di ritorno da un'estenuante giornata a Nueva Vida. Accantono per un momento il Cantiere, i progetti, i problemi del lavoro, Nueva Vida, il senso di impotenza, l'abbiocco sulla 'trece' e cerco di regalarmi un momento per concentrarmi su di me, su come sto in questo momento così confuso, ma anche così importante... 9 giorni al rientro...
In quella, l'autobus si ferma e salgono nell'ordine: una bambina bionda, di 4 anni circa, tenuta per il braccio da una ragazza bellissima, che ipotizzo avere intorno ai 16 anni e una signora sulla sessantina, bella 'hermosa' come le donne di qui, rossetto rosso brillante, il grembiule tipico delle venditrici e in testa un enorme vassoio di plastica. Le prime due si siedono nel sedile davanti a me. La signora abbassa il vassoio, si siede accanto a me e lo appoggia sulle ginocchia, invadendo lo stretto corridoio dell'autobus. Mi guarda, sorride, le restituisco il sorriso. Nel vassoio, coperte da un cellophane, delle belle file di 'donuts' (pronuncia nica, dona), le ciambelle fritte ricoperte di zucchero. Quelle di Homer Simpson, per capirci. Una botta di burro e zucchero da resuscitare un morto, anche se queste non sono ricoperte di cioccolato o glassa colorata, come spesso capita.
Le osservo un attimo parlare tra loro, poi il sedile della ragazza si libera e fa cenno alla signora di spostarsi lì, accanto a lei. La signora però ormai si è sistemata, trovando un incastro (e io con lei) negli stretti sedili del bus, pensati più per dei nani anoressici che per i corpulenti nica o il mio metro e rotti di gambe...
Così le dice di far sedere la bambina e che lei sta bene lì, a fianco a me. 'Vero?'. Certo, le rispondo, ci si accomoda sempre.
Iniziano quindi le domande di rito, cosa faccio in nica, dove lavoro, da quanto sono qui.
Poi la fatidica domanda, 'sei sposata?'. Quando le dico di no mi aspetto la solita faccia perplessa, e invece stavolta la risposta mi sorprende, da una donna nica di quell'età. 'Brava, c'è tempo. Lo dico sempre alle mie figlie, di studiare e non pensare a sposarsi, che poi arrivano i figli ed è troppo tardi'.
Allora comincio io con le domande, quanti figli ha, quanti nipoti. Scopro che la ragazza è l'ultima dei suoi 6 figli, che di anni ne ha 12 (alla faccia dello sviluppo precoce) e la bimba è sua nipote, di un'altra figlia che lavora, perciò loro due la curano. Ora va a vendere le ciambelle a Managua e se la porta dietro, perché si sa, se non ci pensano le donne a mandare avanti la casa...
La signora già mi piace, oltrettutto le ciambelle sono calde e hanno un profumo meraviglioso. Sicuro che ne comprerò una, prima di scendere.
Mi chiede dell'Italia, se è bello, se siamo poveri, se c'è lavoro, quanto costa il biglietto dell'aereo e se ci si può arrivare in bus. Le spiego di no e si corregge, un po' imbarazzata. Certo, è vero, c'è il canale di Panama... Allora le propongo di andare insieme a vendere ciambelle in Italia. Si mette a ridere, dice che prima dovrà venderne tante per mettere insieme i soldi del biglietto!
Poi mi chiede quanto mi fermo ancora in Nicaragua... 'La sua famiglia dev'essere contenta che torna presto'. Sì, e anche io, tanto. Ma è anche difficile, dopo un anno e mezzo. 'Doveva sposarsi un nica, così restava qui!'. Rido, e lei con me.
A questo punto mi chiede come mi chiamo e la mia risposta la lascia a bocca aperta. Io non capisco e da davanti la ragazza esclama 'mamma, si chiama come te!'. Le coincidenze della vita...(?)
E così siamo quasi alla mia fermata, le compro una ciambella a 7 C$ (meno di 25 centesimi di €). Sceglie la più grande, piena di zucchero, sfila un sacchetto di plastica dal grembiule, un nodo e me la passa. Poi il classico balletto per farmi uscire dal posto senza doversi alzare né far cadere il vassoio.

Ci salutiamo, mi benedice e mi augura 'che mi vada bene', alla nica.
È stato un piacere, doña Hélena, e grazie della ciambella.

È quello che mi ci vuole, prima di tornare a casa...

domenica 25 agosto 2013

MOLDOVA: BUNĂ ZIUĂ!

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"Bate palma!", 
una frase imparata con calma
e vedi splendere sul suo viso
un bellissimo sorriso
"...facem cercul mare!!!" 
e andiamo tutti a giocare, 
scenette improvvisate
fanno esplodere risate, 
giochi faticosi 
per rendere i copii gioiosi, 
e dopo i lavoretti, 
nei piatti gli spaghetti 
...almeno speriamo 
abbia cucinato anche un italiano! 
altrimenti poftă bună
i cetrioli porteranno fortuna;


poi, con un sottofondo musicale
prepariamo tutto il materiale,
con il dizionario in mano
un po' di rumeno, un po' di italiano,
cerchiamo di comunicare...
...Marcooo!!! ci vieni ad aiutare??
imparando una parola al giorno
togliamo Marco di torno;

chi è di turno al lavoro sociale?
è ora, bisogna andare!
Raccogliamo rifiuti con i guanti
e li mettiamo in sacconi giganti,
si zappa la terra, si fa tanta fatica
ma si ricevono anche preziosi consigli di vita:
"preferiamo essere indipendenti"
ti confidano vecchietti sorridenti,
dopo il lavoro
le loro parole diventano oro;

sulla strada del ritorno 
non ho più nessuno attorno:
puzzo un tantino,
la doccia la faccio per primo!!
ma tanto lo so
prima dell'una non la farò;

dopo la cena se un biscotto vuoi mangiare
di soppiatto in cucina devi andare
ma attento a non prendere per sbaglio
proprio quello ricoperto di aglio!

Ora in bagno devo andare,
qualcuno mi può accompagnare?
Se ne sta di fuori
con tutti i suoi odori...
Con la torcia in testa,
per favore di guardia resta!
Nel buco però è meglio non guardare,
non sai mai cosa potresti trovare,
e ti potresti spaventare!

Quando scende la sera
un desiderio si avvera
di stelle ce ne sono tante
cadenti ne ho viste non so quante;
sotto un bellissimo cielo stellato
ormai mi sono innamorato...
...della Moldova e dei suoi colori,
della hrişca e dei suoi sapori,
dei paesaggi coi girasoli,
dei bambini sorridenti,
dei vecchietti senza denti;

grazie a chi ho incontrato
un pezzo di cuore lì ho lasciato!




                                                                                                                   
                                                                                                                  Letizia, Stefania, Silvia

sabato 24 agosto 2013

MOLDOVA: "PAUSA DE APA"

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E’ difficile trovare le parole per riassumere il cantiere in Moldova.
E’ stata un’esperienza bellissima.
Riguardo spesso le foto di Marco e rivedo i volti dei volontari italiani e moldavi, i sorrisi dei bambini, i campi sterminati di girasoli a Feteşti e le strade polverose di Roşu.
Ogni immagine mi ricorda un episodio, un racconto.
C’è una foto in particolare che mi piace e su cui ogni volta mi soffermo un po’ di più.







Rappresenta un semplice pozzo, uno dei tanti che puoi incontrare per le strade della Moldova.
Non ha niente di particolare. Però ogni volta che guardo questo pozzo mi vengono in mente tante cose.
Mi viene in mente la sete che avevo quando l’ho visto, proprio quello lì.
Era domenica, il primo giorno per noi in Moldova.
Stavamo andando a piedi sotto il sole da Feteşti al paese vicino per la messa. Faceva caldo e non si arrivava mai…mancavano sempre cinque minuti!
Non abbiamo bevuto da quel pozzo, anzi di acqua del pozzo noi italiani, in due settimane di campo, non ne abbiamo mai bevuta perché non eravamo abituati…e allora solo acqua in bottiglia, quella enorme di 6 litri!
Però dopo il primo giorno, quella sete è rimasta…ma era, per quanto mi riguarda, una sete diversa.
Infatti se penso al pozzo, subito mi viene in mente la quotidiana “pausa de apa” trascorsa all’ombra a bere con tutti i bambini  tra un gioco e l’altro.
Poi mi ricorda anche Parinte Igor che ha progettato di costruirne uno in un posto particolare.
Ci ha raccontato che la “Biserica” nuova, con i suoi tappeti e le sue mille icone dorate, per anni non è stata nient’altro che un cumulo di mattoni a fianco di una vecchia chiesa fatta di legno.
La costruzione della chiesa nuova in mattoni era stata interrotta durante il regime e quella vecchia era stata distrutta. Così per anni Feteşti è rimasta senza un luogo di culto. Solo dopo la caduta del regime e con l’arrivo di Parinte in paese la chiesa è stata finita.
Ora però, dove era situato l’altare della vecchia chiesa, Parinte ha deciso di far costruire un pozzo.
Questa cosa mi molto colpito per il grande significato che racchiude. Credo che dopo tanti anni di astinenza dalla vita spirituale, si senta un po’ il bisogno di andare a ripescare nel passato quella fede dimenticata e mai conosciuta dalle nuove generazioni.
 






Ma tornando alla foto del pozzo, se guardo bene, mi viene in mente anche un po’ Roşu.
Mi ricorda soprattutto una coppia di novantenni incontrati ai lavori sociali.
Siamo arrivati a casa loro e siamo stati accolti da un cane pulcioso che abbaiava a più non posso.
Il giardino era pieno di legna tagliata e accatastata un po’ così, erbacce alte e galline che giravano libere. La casa era decrepita, i muri erano di un azzurro slavato, i vetri delle finestre appannati, la porta stretta e leggermente storta. Ma soprattutto i due nonnini vivevano senza acqua in casa e avevano solo il pozzo fuori in strada.
La moglie ci ha raccontato la loro vita…e che vita! Una storia che ho fatto fatica a seguire per via della mia scarsa conoscenza della geografia e della storia contemporanea. In ogni caso, da quello che ho capito, i due sotto il regime sono stati deportati diverse volte dalla Bielorussia in campi di lavoro in giro per l’Unione Sovietica e poi si sono stabiliti in Moldova. I loro figli e i loro parenti sono tutti morti, rimane solo una nipotina che abita in città e che vedono raramente. Oggi vivono di stenti con quel poco che hanno, senza poter usufruire delle cure mediche di cui avrebbero evidentemente bisogno, visto che si reggono in piedi a malapena.
Al momento di cominciare a lavorare però i due ci ringraziano, ma rifiutano il nostro aiuto. Preferiscono continuare a fare da soli finché ce la fanno, almeno con i piccoli lavoretti hanno la giornata occupata.
E subito ho pensato alla fatica che faranno tutti i giorni per andare al pozzo per prendere l’acqua con le gambe che cedono.
Ma penso anche alla gioia che provano nel farcela ancora a 87 anni, nonostante tutto.
Potrei andare avanti ancora, ma mi fermo qui.

Ma ora mi chiedo: e adesso? Ho tante foto, tante storie, ma cosa mi resterà di questa esperienza?
Sono partito per questo viaggio forse un po’ con la convinzione di venire ad aiutare questa gente.
Effettivamente ho trovato persone “assetate”, molto.
Ma senza fare troppi conti, posso dire con certezza che quello che più ha goduto di questa esperienza sono stato io; ora sono tornato a casa, dissetato e con un pozzo personale a cui attingere che penso mi basterà per parecchio tempo. 

Drum bun a tutti i miei compagni e a chi ho incontrato in questa avventura! 
Luca
 

giovedì 22 agosto 2013

NICARAGUA- Redes, una mano tesa verso il Barrio

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Redes, ovvero reti. Reti di persone, di azioni e di aiuto. Reti di solidarietà.

Qui a Nueva vida è questo Redes de Solidaridad, l’associazione dove noi cantieristi lavoriamo durante la settimana.
In un luogo dove mancano tante cose e dove paradossalmente gli aiuti come le donazioni in stile “grande emergenza” ormai fanno più male che bene alla gente, l’istruzione e la presa di coscienza dei propri diritti assumono un ruolo fondamentale. Redes su questo aspetto è in prima linea, con la sua scuola (sia per la scuola primaria che per il preescolar) e con progetti di sviluppo delle mujeres comercializadoras e delle promotoras, oltre che altre attività assistenziali come l’apoyo nutriciònal a sostegno delle madri di bambini neonati e l’ambulatorio medico a disposizione del barrio.

scena di vita nel barrio
In tutto questo noi volontari troviamo spazio soprattutto nella raccolta di informazioni per l’encuesta (questionario) di quest’anno  e nelle attività manuali e di gioco con i ragazzini della scuola primaria. Così abbiamo l’occasione di vedere il quartiere un po’ più dal suo interno e capire qualcosa della (dis)organizzazione dell’area di Nueva Vida e di quanto sia difficile creare una comunità, anche nel momento del bisogno e innanzi all’evidenza della sua importanza. I vicini continuano ad essere sconosciuti e ladri, anziché risorse, mentre gli aiuti continuano soltanto a “piovere dal cielo”, senza che la popolazione si organizzi per  provare a risolvere i propri problemi (da qui l’importanza del gruppo delle mujeres promotoras di Redes, che si riuniscono per capire le necessità del barrio). 
il Prof Oscar con i suoi ragazzi
Invece, entrando 
in stretto contatto con i giovanissimi del barrio, abbiamo scoperto che spiegare un gioco a un bambino quando è uno scalmanato e non conosce le regole è difficile, ma farlo in spagnolo è peggio! E qui entra in gioco il leggendario Prof Oscar, maestro di educazione fisica della scuola (la sua preparazione è davvero impressionante, dato che ha soli 25 anni!!!), eroe dei ragazzini di Redes. Ci aiuta come mediatore nel spiegare i giochi e, se serve, fa anche il bambino che gioca senza alcuna riserva, per insegnare ai suoi ragazzi che ci si impegna e si fa sul serio sempre, anche quando si sta vincendo o si è in netto svantaggio. E forse i ragazzi e il loro profe insegnano anche a noi qualcosa: l’atteggiamento e il carisma di una scuola e di un’associazione che non si ferma ai cancelli di Redes, ma che col tempo si deve aprire a tutto il barrio, sia ai piccoli che ai grandi!



 Hasta luego!

Francesco, Elena y Anna



martedì 20 agosto 2013

Gibuti:girogirotondocascailmondo

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Hai presente quell'albero secolare, il più veccho di Gibuti, quello che ha 400 anni? Ma sì quello dove i dromedari fanno la siesta e i babbuini dal culetto rosso si cotonano i capelli, capito?

Ecco, bravo. Lì al bivio tieniti a sinistra e inventati una strada tra rocce sassi e faglie continentali. Se continui così alla terza mucca a destra (mi raccomando conta solo quelle con le costole bene in vista, gozzo sul groppone e corna paraboliche) ti aspetta una gazzella per indicarti la via. Capra dopo capra, come d'incanto...bienvenue à Ripta!

Capanne di pietra, cimitero di sassi, cisterna a forma di mastio non utilizzata da 10 anni, pozzo seccato dal vento tempestoso del deserto, scuola vuota e impolverata ferma al suono dell'ultima campanella di giugno. Insomma, solo noi, Clint Eastwood ed Ennio Morricone nelle orecchie.

All'improvviso, la sensazione di essere osservati, cresce piano piano. Tanti piccoli occhi curiosi sbucano da ogni direzione e fanno capolino. Stoppa Ennio, saluta Clint ed eccoti arrivato: un villaggio gibutino sperduto nel deserto e nel tempo. Dall'orizzonte una camicia bianca si avvicina. Passo africano, portamento elegante, come i pantaloni neri che la accompagnano. 

È il mayor, che ti apre le porte di questo piccolo mondo. 

Dispensario, mensa, dormitorio tutto all inclusive, tranne tetti e porte, ancora working in progress. Poi la visita finisce, ed inizia il gioco. Una palla azzurra tra le tue mani è la novità per il primo gruppo di bimbi intmorito ma in avvicinamento. 

Piano piano prende forma il cerchio della vita, e basta girogirotondocascailmondo a mettere in moto la giostra. Tra versi di animali locali e bans improvvisati i sorrisi che accendono il viso svelano la semplice ingenuità di una vita tra pietre e capre.

Ora devi andare. L'ultima gazzella è in partenza. Saluta e fotografa gli ultimi istanti, prendi le tue cose ma non tutto. Alla prima pausa gazzella, voltati. Guarda quella piccola parte azzurra di te, rimbalzare di mano in mano. Saprai che anche domani accenderai i loro sorrisi. 

lunedì 19 agosto 2013

Libano - Fili invisibili

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Tornare a casa dopo un viaggio è difficile. Tornare a casa dopo un'esperienza che ti segna come quella che abbiamo vissuto noi diventa veramente complicato.

Un giorno, tornando dal campo profughi palestinese di Dbayeh, ho trovato la "parola del giorno" e la trovo perfetta anche adesso. La parola è FILO. Questo perché percorrendo le quattro strade all'interno del campo non si potevano non vedere. Fili della corrente, fili per il bucato, fili ovunque. Anche a Rayfoun avevamo i nostri fili: per stendere, quello spinato che limita lo shelter, i fili per le collane e i braccialetti... Alla fine anche noi abbiamo tracciato i nostri fili. Le relazioni che abbiamo instaurato con le donne, con i bambini, con le persone che abbiamo incontrato e con le quali abbiamo condiviso anche solo un sorriso, come per esempio le donne siriane con i loro figli a Beirut, con cui l'incapacità di comunicare era evidente, ma, con un semplice gesto, siamo riuscite a scattare una foto insieme, sono i nostri fili, invisibili agli occhi, ma visibili con i gesti, i sorrisi, con il cuore.



È stato un cantiere particolare. Intenso, profondo, purtroppo breve. Un cantiere dove i fili tra le persone sono così stretti che la felicità e la tristezza degli altri diventano anche le proprie, dove anche un piccolo gesto ti fa sentire accolto, a casa.

Allo shelter ho avuto la possibilità di sperimentare un miscuglio di sensazioni così diverse tra di loro, ma di così profonda intensità che il filo che partiva da me sembrava così corto e poco forte rispetto a tutto. Solo riconoscendo il fatto di essere uguale agli altri, senza pregiudizi e barriere mi sono resa conto che il mio filo è forte solo se ci sono gli altri. Le donne che vivono allo shelter hanno una forza incredibile che traspare da tutto quello che fanno. Una forza che non è facile da descrivere, che accoglie senza paura, che dona senza timore, che combatte per la dignità e per la propria vita e quella dei figli. Ripensando ai giorni passati, rivivo quei momenti insieme di condivisione delle loro vite, ma anche di gioco, risate, balli, della giornata del salone di bellezza e della presentazione dei propri Paesi, la preparazione della pizza… Tra tutti gli esempi di quanto questi fili siano forti ce n'è uno che mi emoziona in modo particolare: l'accoglienza, la gioia, gli abbracci dopo una giornata passata fuori. È stato un momento unico, come se noi fossimo ritornati a casa e loro non aspettassero altro che rivederci.


Posso dire di aver ricevuto tanto, molto di più di quello che avrei mai potuto immaginare. I fili che ho lasciato lì, li porto nel cuore con la speranza che un giorno la vita ci faccia ritrovare. Altri, come quelli con le mie compagne di viaggio, so che li potrò rendere ancora più forti perché abbiamo veramente vissuto un'esperienza incredibile, unica, che ha lasciato qualcosa dentro a ciascuna di noi. Ringrazio tutti per aver avuto la possibilità di vivere questo cantiere… le mie compagne di viaggio, le donne i bambini… tutti. Grazie!
Giulia




domenica 18 agosto 2013

Libano - Un viaggio fatto di persone

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Ho sempre pensato che quello che contraddistingue un viaggio non è tanto il posto in cui si va ma le persone che si incontrano. Dei tanti viaggi che ho fatto non potrò mai dimenticare i volti delle persone e le emozioni che mi hanno dato. Emozioni che rimarranno per sempre impresse nella mia mente e nel mio cuore. Ed per questo che voglio raccontare delle persone che hanno reso anche questo viaggio unico e indimenticabile, iniziando dalle mie compagne.

Martina con la sua cipolla e il suo sguardo indecifrabile.

Denise con le sue mille domande e le sue battute.

 Anna con il viso da diva del cinema e la sua passione per le foto.

 Giulia con la sua insicurezza, che rivedo tanto in me e la sua dolcezza.

 Michela che non ha paura di raccontarsi e di esprimere le sue idee.

Qui allo shelter ci sono altrettante donne di cui parlare e per cui varrebbe la pena di scrivere pagine e pagine. Sono ragazze come me, mogli, madri venute in Libano alla ricerca di una vita migliore o di uno stipendio più alto per poter mantenere i propri figli o in fuga dalla guerra. Si sono ritrovate vittime di un sistema che non le tutela dalle violenze dei datori di lavori, e che non ha siglato l'accordo di Ginevra per i richiedenti asilo.

J. che in momento di sconforto mi ha aperto il suo cuore, mi ha fatto vedere la parte più fragile di sé attraverso le sue lacrime e si è lasciata consolare. Mi ha raccontato della sua famiglia, della sua casa piccolina circondata di alberi, ristrutturata con i soldi del suo lavoro che tanto le mancano. Quando si sente serena le manca ancora di più.

W. con cui ho subito trovato un legame fatto di sguardi e che è riuscita a farmi capire con una serie di battute divertenti la sua condizione allo shelter:  dividere lo stesso letto singolo con una sconosciuta,  utilizzare gli abiti usati perché quelli che aveva sono rimasti a casa della sua "Madame", ossia la sua datrice di lavoro, e non ha più modo di prenderli. Nonostante la sua capacità di ridere su tutte le cose brutte che le sono capitate ha mostrato il suo lato più sensibile (e ha fatto uscire anche il mio quando) con il viso pieno di lacrime ha raccontato di quanto fosse grata a Caritas per averla accolta.

G. che fuma mille sigarette per tenere a bada l'ansia dovuta all'incertezza di non sapere quale futuro ci sarà per lei e per la sua figlia quattordicenne. Mi ha mostrato facendosi capire a gesti che il suo cuore soffre per la figlia costretta a vivere da più 8 mesi nel centro Caritas, senza la possibilità di andare a scuola in attesa di accedere ad un programma di resettlement dell'Onu.

F. e M. madre e figlia con gli stessi occhi azzurri profondi che non possono tornare nel loro paese a causa delle minacce che le hanno costrette alla fuga. Sono nel centro Caritas da circa due anni e non sanno ancora quale sarà il loro destino.

M. che si è scusata per non aver potuto prendere parte ai nostri giochi in modo da poter rispettare il periodo di lutto per la morte del padre. Era in Siria fino a qualche mese fa ed è scappata in Libano dopo che il negozio in cui lavorava é stato bombardato. Non ha potuto essere vicina alla sua famiglia in questo momento di grande dolore perché non ha ancora ricevuto i documenti per poter essere rimpatriata. Si sente in colpa perché pensa che il padre sia morto per la preoccupazione di saperla in Siria durante la guerra.

M. mi ha presa in giro per il fatto che alla mia età non fossi ancora sposata e sosteneva che stessi scegliendo tra due o tre candidati (magari fossi così). Lei di bambini ne ha già due uno suo e uno che é il figlio di una sua amica che è venuta a mancare e del quale lei si è presa cura. Non so esattamente da quanto tempo non li vede.

L. , guerriera dal cuore tenero, tanto schietta e sincera quanto dolce e sensibile. L'ho vista difendere le sue ragioni e piangere per la nostra partenza con la stessa intensità che solo un persona di grande coraggio può avere.

N. lavora in uno degli shelter Caritas, dedica la sua vita a queste ragazze, forse perché per prima ha provato sulla sua pelle cosa significa essere una Migrant Worker in Libano. E' stata un'ispirazione. Fare il lavoro che ami vale più di ogni altra cosa.

E infine i bambini, che volevano sempre essere presi in braccio, che si sono innamorati di forbici e pinzatrici, che si sono addormentati tra le mie braccia e quelle delle mie compagne di viaggio, desiderosi di amore e di attenzione. Alcuni hanno subito le stesse violenze subite dalle madri altri sono vittime ancora più delle madri perché si trovano a vivere in una condizione che non hanno scelto. Ma i bambini riescono sempre a sorprendermi, hanno una marcia in più e riescono a vedere il buono anche dove non c'è.


giovedì 15 agosto 2013

Nicaragua- Le avventure del Cuzuco Armageddon (prima puntata)

4 commenti:
Si parteee! Solo dopo un'accurata scelta della compagnia aerea!

Questo non era esattamente quello che mi aspettavo, ma non fa niente... Aereo a portata di armadillo!

Ok, abbiamo perso l'aereo e dobbiamo andare in hotel, però adesso guido io il taxi!

Dopo un incontro con Mario Draghi in BCE...

...e quattro chiacchere informali con l'ambasciatore indiano...

... riesco a partire coi miei compagni per Miami!!!

Da Miami chiamo a casa... Meglio non far stare in pensiero Mammarmadilla!

Un'occhiata ai documenti di viaggio e via per Managua!

Di già adoro i piatti Nica...

Al cuor non si comanda <3 <3 <3

Prima regola del fight club: non parlare mai del fight club.

Propongo l'amaca come sport nazionale... Chi è con me?

JEEEEEEEEEEP!!! peggio che a Gardaland!!! non sopporto le curve a gomito!

E per concludere, dopo una gita nella foresta tropicale...

... bagno rilassante nel caffè del Mombacho!
















Saluti,
Armageddon

mercoledì 14 agosto 2013

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Nomi etiopi:
"Colui che e' stato donato da Dio al posto del morto"
"Mondo"
"Occhi del mondo"
"Pazienza"
"Pena"
"Pagare"
"Gerusalemme"
"Betlemme" (fratellodi Gerusalemme, non e' uno scherzo!)
"Sion" (non abbiamo capito se cugino degli ultimi due...)

Gibuti: dove rompere il ghiaccio è un gioco da ragazzi

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Ciao. Stiamo bene.Causa difficoltà nel reperire internet e internet che funge male non riesco a postare sul blog.Ti allego file e una foto da postare al nostro posto, ma se avete altri posti dove postarla, noi siamo a posto.

post scriptum:mi sa che posticiperemo il ritorno :)".

Detto fatto, ma la foto si è persa nel cyberspazio gibutiano.


La porta si apre e subito ci investono un'aria fredda e odore di marmocchietto equatoriale. Occhi sgranati, facce da ebeti, bavetta dalla bocca aperta in espressione attonita, sudore che si asciuga sulla pelle morbida, voglia di nascondersi sotto la gonna della mamma o sotto qualsiasi altro nascondiglio, mani alla ricerca di sicurezza che annaspano tra i milioni di peluche, groppo in gola pronto a scoppiare per l'emozione, ogni singolo muscolo del corpo irrigidito dall'imbarazzo ingenuo per la sorpresa dell'INCONTRO...insomma nient'altro che bimbi di fronte a degli sconosciuti. Ma questi bambini siamo noi.

Siamo in un orfanotrofio della città di Djibouti, nel corno d'Africa dove il tempo scorre lento, umidità alle stelle e temperature mai sotto i 45°. A rompere il ghiaccio – che qui si scioglie in pochi secondi - sono stati una ventina di bellissimi bambini, vivaci e pronti a saltarci addosso come fossimo giganti giocattoli animati. Finalmente, grazie al loro primo passo, anche noi siamo riusciti a sbloccarci e, come ogni volta che ci si diverte, il tempo è passato inconsapevolmente tra coccole, abbracci, bolle di sapone, palloncini volanti, strillanti risate contagiose.
Esperienza toccante, e per alcuni nuova, imboccare, cambiare pannolini e metter a nanna queste piccole simpatiche meraviglie.
Momenti carichi di emozioni, destinati a rimanere impressi nella mente di chi li vive.
Se è vero, come canta Battisti, che capire tu non puoi, lasciati emozionare dall''immagine di un bambino che ti tende la mano non per farsi guidare ma per guidarti nel suo mondo fatto di imprevedibilità, stupore e bisogno di affetto.
Però tu chiamale, se vuoi.
E se ce la fai.

p.s.: Anche la “Canzone del SOLE” puoi cantare, qua a Gibuti. A qualsiasi ora del giorno, e della notte."




Libano - Abbraccio di nuvole

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Tra le immagini che affollavano la mente prima della partenza sicuramente c'era quella di un'estate torrida qua in Libano, e anche il terrorismo psicologico dei nostri coordinatori aveva contribuito all'ansia di mettere in valigia i vestiti più leggeri e di munirci di crema solare protezione 50.
Del resto, siamo in Libano,  questo ci si aspettava….
Ma, tra le tante cose che appaiono diverse qui rispetto a quello che la nostra mente ci aveva suggerito, anche i colori e il clima vogliono stupirci. 

Oggi allo shelter siamo avvolti da un'atmosfera molto suggestiva che ci isola, ci abbraccia, quasi a proteggerci.
Tutto è circondato da nuvole grigie, che nascondo il versante opposto della montagna, coprono i paesi arroccati sotto a Rayfoun e chiudono il cielo sopra di noi. È strano guardarsi intorno e non scorgere nulla, girarsi e toccare l'umidità, sentire le nuvole qui accanto a noi, è come se le nuvole chiudessero la protezione dei cancelli e lasciassero spazio solo a noi qua dentro.
Forse a rendere lo spettacolo più suggestivo è l'idea di isolamento che lo accompagna. Qui le donne non possono assolutamente uscire dai cancelli. Sono protette, trovano un rifugio che riesca a restituire loro una piccola parte di quella serenità che hanno perso, provano a ricercare la forza e la determinazione al di fuori da tutto quello che di orribile la società libanese ha loro mostrato, ma sono anche prigioniere.
Tale reclusione sembra una questione molto difficile da accettare e da condividere: tenere "prigioniere" delle donne che hanno come unica colpa quella di aver provato a cercare fortuna in un paese forse non pronto ad accoglierle; anche noi abbiamo faticato a renderci conto di cosa possa significare il lavoro del Migrant Center di Caritas, a dargli una giusta dimensione nella vita di queste ragazze.

La desolazione è uno degli stati d'animo che maggiormente emerge dai loro racconti. Si sentono sospese, trattenute qui a causa anche di tempistiche delle pratiche burocratiche dispersive e lunghe, che si oppongono alla possibilità di soddisfare il motivo per cui hanno raggiunto questo paese.
Stare nello shelter fa sentire queste donne inutili per la loro famiglia lontana, preoccupate dall'idea del fallimento del loro progetto migratorio e bloccate nelle loro aspettative.

Tanta la delusione, che ormai ha preso il posto della rabbia, tanto il dolore che accompagna la malinconia, ma ancora di più è la speranza di tornare a vedere cosa ci sia al di là di queste nuvole e la determinazione che anche nei loro giorni, così come nelle estati libanesi, tornerà la luce, quella limpida della felicità! E proprio alla loro forza, che sembra provenire da una caparbietà che non pensavo potesse davvero esistere,  la sera libanese regala i suoi tramonti…