lunedì 19 settembre 2016

E seguo il ritmo..

Nessun commento:

post datato 24/8/2016

"La settimana scorsa ero in macchina, di sera, e guardavo una splendida e luminosa luna piena alzarsi in cielo dietro le colline della savana. Un attimo era qui, l’attimo dopo era da un’altra parte. Eravamo in movimento, ma non ho capito più in che direzione stessimo andando (ma tranquilli, non guidavo io!).

Mannaggia, è l’ennesima volta che non ci capisco niente!

Eppure la natura mi ha dotato di un discreto senso dell’orientamento! Ricordo ancora la lezione di geografia di terza elementare sui punti cardinali, me la ricordo l’immagine del sussidiario con un omino, di spalle, al centro di una croce per terra: il braccio destro ad est, dove sorge il sole e di conseguenza nord, sud ed ovest dovrebbero essere facilmente riconoscibili.
E vogliamo parlare dei punti di riferimento? Dovrebbe essere facile poi orientarsi avendo dei punti di riferimento. Beh, nelle vaste distese della savana, nelle strade polverose di terra rossa, nella caotica e disordinata Mombasa - che è un’isola e ha due ponti e un traghetto, più una serie di strade fatte di vicoli senza apparente senso – valli a trovare i punti di riferimento. Diciamo che ci ho messo un po’!
qualche sera è anche andata via osservando la luna e domandandoci: “ok, la luna è lì, allora il mare dovrebbe essere da quella parte, ma allora perché il sole sorge di là?!” e neanche google maps aveva la risposta.
Ma poi, li avrò trovati davvero i punti di riferimento? Qui le cose cambiano ad una velocità impressionante. Oggi c’è una struttura che ieri non c’era, domani il negozio a cui andavo sempre potrebbe essere chiuso..

Ecco come spesso mi sono sentita qui: DISORIENTATA, geograficamente e non.

Già per il solo fatto di vivere sotto l’equatore, le stagioni sono invertite rispetto a noi, le stelle sono diverse e la luna cambia posizione (prendete la vostra mano e con pollice e indice formate una C: da noi la luna è una C che guarda a destra e a sinistra.. qui la luna è una C che guarda sopra e sotto.. e quindi che forma una U).  


Insomma, già solo la natura invita a cambiare prospettiva!

Ma il disorientamento è soprattutto associato al perdersi, allo spaesamento..
Poi c'ho pensato e mi sono chiesta: ma è veramente un pericolo perdersi?
Devo ammetterlo: non poche volte mi sono sentita persa qui.
Ma è necessariamente un male? Forse.. no!

Innanzitutto mi piace pensare che non mi perdo mai – (ma come, ho appena detto che mi sono persa più volte?!) – perché preferisco parlare di .. esplorazione!

Spesso mi è capitato di andare a zonzo con amici in città sconosciute, e quando m’incolpavano di averli fatti perdere rispondevo, un po’ da paraculo, “no no, non ci siamo persi, stiamo solo.. esplorando!!” e ripensandoci, molte volte, grazie proprio a queste deviazioni dall’itinerario consigliato, ho scoperto angoli nascosti e bellezze inaspettate, forse anche più vere e reali.

E allora voglia proiettarlo sulla mia vita interiore.
Diciamo che mi è stato insegnato, e forse mi è più utile, vedere questo disorientamento, questo perdersi, come possibilità. La possibilità di esplorare, di esplorarmi. Una possibilità di senso, che mi porta a rivedere i punti di riferimento e le coordinate della vita.
Quante volte mi sono chiesta quest’anno: ma quali sono i miei punti di riferimento (anche lette come “cosa ho fatto finora? cosa ho lasciato a casa ? cosa ritroverò?) e le mie coordinate (lette anche : ma chi sono io? Cosa voglio fare, ma soprattutto, che persona voglio essere? Che tracce voglio seguire e quali voglio lasciare?).  

Forse fa bene rifarsi tutte queste domande per scardinare o riconfermare quelle che sono quelle poche certezze che uno si porta dietro. Forse guardare tutto con un'altra luce ti apre nuove prospettive, belle o meno belle. Forse, per crescere, serve."
qualche porto

Sono rientrata da quasi 20 giorni. Ad accogliermi tante braccia aperte, 
porto sicuro di ogni viaggio.


Abbiamo avuto la formazione, ci siamo rivisti con tutti i civilisti, condiviso esperienze e domande, abbiamo espletato le ultime pratiche burocratiche.
Il servizio civile è dunque concluso.

Invece quelle domande di senso restano aperte e me le tengo lì, perché come per ogni fine di grandi avvenimenti, c'è bisogno di tempo per rimettere insieme i pezzi. E questo tempo bisogna concederselo. 
E' stato un anno complesso il cui senso ancora mi sfugge. O forse è dentro e bisogna solo dargli forma. Ma, appunto, probabilmente non è ancora l'ora. Nel frattempo riprendo il cammino, e va bene così.

Concludo con una licenza poetica. 
Durante le mie letture di quest'anno, c'è stata la frase di un libro che mi ha molto colpito e che forse si dovrebbe ripetere ogni sera. Chi scrive dice: "Epilogo di questa giornata: la vita è buona, in ogni caso".
Bene, mi prendo la libertà di parafrasarla così:
"Epilogo di questa esperienza: il servizio civile è buono, in ogni caso".

Angela

Vabbè, sulla scia degli ultimi post musicali anche io una canzone di fine SCE
Bacii





martedì 13 settembre 2016

Cosa resterà

Nessun commento:
Rientrato a Milano. Come stai? Come è andata? Tutto bene, grazie. Piaciuto? Sì, molto.
Vorrei dire qualcosa di più ma come si fa a riassumere tutto un anno in un colloquio da saluto? Ed è difficile anche in un dialogo non da saluto, ad essere sinceri.
Sorgono domande spontanee su quest’anno, di cosa è stato e, soprattutto, di cosa resterà. Il momento emozionante della partenza, i saluti che al momento sembrano addii ma che, in realtà, sono solo degli arrivederci. Tutti i momenti, le conoscenze, le avventure e disavventure. I momenti belli e quelli difficili, le parole, i gesti, le attenzioni e tutto quello che ne consegue.
Non so darmi una risposta e non so nemmeno quali domande pormi, adesso. È un momento di transizione, un groviglio di emozioni da sciogliere. Cosa resterà di quest’anno?
Difficile immaginarlo e, ancora di più, dirlo. Per questo ho scelto di farmi aiutare da una canzone che ha accompagnato il mio ultimo periodo in Moldova, la quale, in parte, rende molto bene il caos di sensazioni ed emozioni che in questo momento provo. Lascio a lei questo difficile compito…per ora.


 


Cosa resterà – Bassi Maestro 
Metà rapper, metà uomo
cosa resterà della mia storia e di ciò che bramo
vivo parte delle mie giornate immerso dentro uno scenario che mi fa da pavimento e da soffitto stretto dentro me stesso resto ironico
senza un rammarico
tengo gli occhi saldi sopra il monitor
corico sulla mia branda ogni punto di domanda
segno appuntamenti sull'agenda
fiducioso ma inconsapevole
capo famiglia ineccepibile o spregevole all'inverosimile
con la scusa di essere in partenza, saranno ormai dieci anni che accumulano esperienza
faccio a pugni come Rocky per difendere la tesi che gli esami rimasti non sono così pochi
fermo l'immagine per chi dopo di me verrà.

Rit.
Cosa resterà della gente che mi è stata accanto
delle amicizie a cui più tengo
del tempo che ho trascorso
la strada che ho percorso per arrivare a tutto questo
cosa resterà di quello che ho vissuto
di quello che ho creato
delle cose per le quali ho faticato
forse solo poco ma voglio ricordarlo.

Anni come giorni volano
buoni propositi che riaffiorano a contatto col mondo svaniscono
dall'inizio dei novanta, quello che mi sono concesso non sempre è stato per merito di me stesso
mille tentativi
lavori di squadra e progetti da solista tuttora vivi
schermi interminabili e visioni appassionate
la semplice bellezza di Bologna e delle sue serate
nel tentativo di mantenere il resto del mio mondo vivo
chiedi a Garzon se sono un buon amico
mi sono accorto subito constatare che le cose possono cambiare è inutile ed in fondo è stupido
vivo e vegeto, spesso attonito
per ogni attrito provo un senso fisico di scomodo
guardo avanti, provo ad immaginarmi quello che sarà.

Rit.
Cosa resterà della gente che mi è stata accanto
delle amicizie a cui più tengo
del tempo che ho trascorso
la strada che ho percorso per arrivare a tutto questo
cosa resterà di quello che ho vissuto
di quello che ho creato
delle cose per le quali ho faticato
forse solo poco ma voglio ricordarlo.

Mi vedo grande con da parte soddisfazioni e pace
milioni di serate strapagate
costate su una brace
raduno intorno ad un tavolo gli amori di una vita, prima che mi mandi al diavolo
calici di rosso della mia cantina per una foto di gruppo definitiva
le immagini da copertina lasciano posto alla mia alternativa quando deciderò della mia vita
esercizi di stile facce note con un futuro breve ma ricco di prospettive
chi vivrà verrà, vedrà, saprà.

Rit.
Cosa resterà della gente che mi è stata accanto
delle amicizie a cui più tengo
del tempo che ho trascorso
la strada che ho percorso per arrivare a tutto questo
cosa resterà di quello che ho vissuto
di quello che ho creato
delle cose per le quali ho faticato
forse solo poco ma voglio ricordarlo.


domenica 11 settembre 2016

MAROCCO: Da qualche parte del mondo siamo tutti lo straniero di qualcuno

Nessun commento:
Sono passate tre settimane e soltanto ora sono riuscita a riaprire il mio diario di viaggio, fedele compagno della vita nomade vissuta quest’estate in Marocco.
Rileggendo quelle pagine ho notato la presenza di una parola che ritorna più volte, la parola “CASA”.
Parola così comune e così personale al tempo stesso: se dico “casa” ogni uomo può capirmi, ma ognuno penserà ad una cosa diversa.
Di questo ce ne siamo resi conto grazie alle parole delle molte persone incontrate durante il nostro cantiere itinerante e vorrei qui raccontarne qualcuna.

C’era la casa delle Piccole sorelle di Gesù, scelta ed abitata nella caotica Medina di Fez, fianco a fianco con i marocchini più poveri della bellissima città imperiale, dove le sorelle fanno i lavori più umili, gli stessi dei loro vicini di casa e con loro condividono la precarietà del lavoro; dove sono piccola e allo stesso tempo possente voce in grado di dire senza parole che la dignità è dell’uomo a prescindere dalla sua condizione.

C’era la casa delle famiglie marocchine costruita col fango e la paglia dentro una delle Casbah di Midelt, dove nessuno si apparta nel proprio appartamento e nessuno vive isolato dagli altri, dove i vicinati sono famiglie e ci si conosce tutti. Strano per dei cittadini come noi, abituati a case dotate della più moderna tecnologia, il cui principale scopo è quello di tenere le persone fuori grazie ad allarmi e recinzioni.


C’era la casa dei berberi di Tatiouine, villaggio di nomadi stanziatisi sull’altopiano dell’Atlante da soli dieci anni, senza acqua e senza luce, dove il tè alla menta è sempre pronto per chi passa di lì e dove un mucchio di bambini moccolosi al mattino giocavano con noi e alla sera, zappa in mano, lavoravano la terra per far fiorire un deserto che abbiamo conosciuto come verde.


C’era la casa di Barbara, Barbara e Marie, suore francescane adottate dai berberi di Tatiouine, che, prima sotto una tenda e solo da dieci anni sotto un tetto vero, dedicano la loro vita ad amare il Signore, amando immensamente il popolo che abita questo villaggio, di cui ora sono parte essenziale.


C’era la casa della Piccole sorelle di Gesù di Ceuta, posta su una terra che tutti vogliono toccare, per la quale tanti viaggiano mesi e anni, terra contesa e difesa da uomini armati e da filo spianto fatto di lame, piccola europa figlia della grande e del suo cieco egoismo.


C’era la “casa” che Caritas Maroc ha costruito a Rabat, Centro di Accoglienza Migranti, che lavora affinché uomini, donne e bambini subsahariani abbiano, dopo chissà quanto tempo, tutto quello che in ogni casa non dovrebbe mancare mai: cibo, sicurezza, salute, riposo.

C’era la casa dei benedettini di Midelt, monastero che la gente del posto chiama “Casbah Miriem” perché dedicata a Notre Dame de l’Atlas, dove i monaci scandiscono la vita alzando preghiere al Padre di tutti, cristiani e musulmani.

C’era la casa dei migranti di Fez, piccola e sporca tenda fatta di plastica, cartone e desolazione, posta nei pressi della stazione, dove tanti giovani africani sono “lasciati stare senza il permesso di esistere”, colpevoli solo di volere di più dalla vita in cui non hanno deciso di nascere. 
Ho fatto fatica a chiamarla “casa”, ma c’è stato un bellissimo tappeto rosso, dove qualche giovane uomo inginocchiato rivolgeva, orientato verso la Mecca, il suo pensiero al Padre di tutti, che mi fa dire oggi che anche quel buco dimenticato del mondo è sotto lo sguardo di Qualcuno in grado di rendere casa ogni luogo.



In terra maghrebina, lontano dalla mia casa, ho visto molte case e, mai come altrove, mi sono sentita nomade e straniera ed ho intravisto la bellezza del non sentirsi sempre a casa propria, sempre sicuri di sé e padroni del momento.
Mi piace così pensare che non sono l’abitudine o la comodità che fanno di un luogo una casa, ma sono le persone che la abitano, ben più importanti dei mattoni, dei cessi che funzionano o dell’acqua potabile: sono le persone e la possibilità di essere se stessi.

Ciò che non vorrei mai dimenticare è che, ovunque sia la nostra casa e qualunque sia la nostra personale idea di questa, è possibile sentirsi stranieri e allo stesso tempo a casa, perché da qualche parte nel mondo siamo tutti lo straniero di qualcuno e noi stessi possiamo essere casa anche per quel qualcuno.

Caterina

sabato 10 settembre 2016

MAROCCO: Gli agguati del tempo

Nessun commento:

“Ci sono periodi in cui il tempo è una tartaruga sulla sabbia. Altri in cui è un ghepardo nella savana, sempre pronto a divorarti la vita”. (Mio fratello rincorre i dinosauri, Giacomo Mazzariol,
The Simple Interview https://www.youtube.com/watch?v=0v8twxPsszY)



Il tempo prima e durante i cantieri scorre in un modo tutto suo: prima perché non vedi l’ora di partire, conti i giorni, le ore, i minuti ma la data della partenza sembra non arrivare mai; per poi trovarti gli ultimi giorni a compare zaino, scarpe e altre cose che mancano prettamente materiali, perché, invece, con la testa, il cuore, i piedi sei già sulla soglia di casa metà dentro e metà fuori per correre in aeroporto e iniziare questa nuova grande avventura.  

  
Durante, invece, il tempo scorre sempre troppo veloce, come
l’acqua tra le mani; ti ambienti perché cominci a capire come funzionano le cose e già sei lì che devi tornare a casa. Ogni giorno si vive al pieno, si vive al meglio riempiendo ogni parte di te di voci, sguardi, attività, di testimonianze che raccontano una vita intera…
però sembra non bastare mai.











Il problema del passare del tempo è che arriva la fatidica data del ritorno, e questo fa nascere un’altra serie di domande, altri tormentoni che ti canti da solo nella testa: il mio in questi giorni è “vivere in una bolla”.



Ecco la definizione di quello che sto passando da quando sono tornata.
È una bolla che mi circonda completamente, trasparente abbastanza per non inciampare nei miei stessi piedi, spessa per non far né uscire né entrare sensazioni, emozioni che potrebbero intaccarmi. 
Vivo in una bolla perché tornata dal Marocco mi sono dovuta catapultare nuovamente nella vita di tutti i giorni: università, amici, famiglia, treno, libri e la lista potrebbe andare avanti. 
Il mio metodo però non funziona molto bene, ha una falla: ogni tanto si apre un piccolo spiraglio nella mia bolla e i colori, i volti, i paesaggi, le sensazioni e anche qui la lista va avanti (più lunga e composta da punti più belli di quella di prima) entrano nel mio piccolo spazio e così vanno a sostituirla avvolgendomi completamente, quasi da farmi estraniare dalla realtà.
Prima o poi scoppierà del tutto la mia bolla. E la domanda che mi faccio é: sono pronta?  


                                                                                                                                                                                                                                                                                                                        Stefania

giovedì 8 settembre 2016

Tra i cedri le domestiche

Nessun commento:
The_Help_film
The Help è un film del 2009 diretto da Tate Taylor. Ha avuto uno strepitoso successo e solo negli Stati Uniti ha incassato più di 160 milioni di dollari. Anche in Italia è diventato molto popolare anche tra i ragazzi e gli insegnanti. In pochi però sanno che il film è tratto dall’omonimo romanzo di Kathryn Stockett, best seller americano purtroppo trascurato nel nostroPaese. Parla di un’aspirante scrittrice del Mississipi degli anni 60 che decide di raccontare le difficili storie delle domestiche di colore che la circondano, vite dominate da razzismo, umiliazioni e continue ingiustizie.
Prima del mio viaggio di volontariato in Libano non sapevo che The Help fosse prima un libro che un film. L’ho scoperto a Beirut vedendo una ragazza leggerlo. Per lei non è un libro come un altro: le storie descritte non sono molto diverse dalla sua. Anzi per certi aspetti la sua è anche peggiore.
Mi trovo in uno degli shelter di Caritas Libano, un centro di accoglienza per donne lavoratrici migranti. Sono lì per un viaggio di volontariato di Caritas, insieme a un’altra decina di ragazzi. Il centro è essenzialmente costituito dal quinto piano di un palazzone di Beirut, dove al momento vivono un cinquantina di ragazze sui vent’anni. Sono principalmente africane (Etiopia, Burkina Faso, Kenya, Camerun, Madagascar) e asiatiche (Bangladesh, Filippine, Sri Lanka). Sono in Libano perché qui funziona ancora come nel Mississipi degli anni 60. Le famiglie libanesi che se lo possono permettere hanno una domestica che vive con loro e si occupa della pulizia della casa e della gestione dei figli. Secondo le stime, nel Paese sono presenti più di 200.000 lavoratrici immigrate di cui il 70% impiegate come domestiche. Per le strade nelle vetrine dei negozi sono ancora esposte le divise bianche e grigie da donna di servizio.
Nonostante la giovane età, la maggior parte delle migrant workers ha marito e figli che le aspettano. Partono con l’intenzione di restare in Libano per qualche anno e guadagnare i soldi necessari per portare il pane a casa. Portare letteralmente il pane a casa, perché vengono tutte da aree geografiche dove la soglia di povertà è altissima. Lavorare all’estero permette di procurarsi il denaro per sfamare i propri figli o dare una svolta alla propria vita. Una soluzione dignitosa, il primo passo per cambiare strada. Spesso però l’orizzonte si rivela essere decisamente meno roseo del previsto.
Le migrant domestic workers non sono tutelate da nessuna legislazione nazionale. Si affidano ad agenzie (assolutamente legali, perché non esiste nessuna legge contraria) che fanno firmare loro un contratto, tendenzialmente in una lingua sconosciuta, e le mettono in contatto la futura famiglia ospitante. Il padre o la madre della famiglia diventa di fatto il loro proprietario: vige il sistema della sponsorship (kafala), per cui un lavoratore straniero può soggiornare legalmente sul territorio nazionale solo se sponsorizzato dal proprio datore di lavoro libanese. Questo vincola totalmente le lavoratrici alla famiglia. Senza sponsor sono illegali. Sono di loro possesso.
chain-232930_960_720Sta alla famiglia decidere di trattarle come persone o come elettrodomestici.
Quando si sceglie la seconda opzione nessun diritto è tutelato. Sono private di ogni libertà di movimento e comunicazione perchè la prassi prevede che la domestica consegni alla famiglia il passaporto insieme agli altri documenti e al cellulare. Vengono segregate tra le mura domestiche come si chiude l’aspirapolvere nell’armadio. Il pagamento mensile dei salari non viene rispettato: mica si paga una lavatrice! Vengono negate ore e giorni di riposo, senza considerare i bisogni alimentari primari così come non si sfama una lavastoviglie. Vengono abusate psicologicamente e fisicamente perché se il padrone è arrabbiato può urlare dietro alla domestica così come alla tv che non si accende, se è irritato può rompere un piatto così come il braccio della donna di servizio. Nei casi peggiori non mancano gli abusi sessuali. Tanto tra un giocattolo erotico e la domestica cambia solo che la seconda non la devi neanche pagare .
Alle ragazze non rimane che scappare, in un luogo straniero, di cui non conoscono lingua, usi e costumi. Scappano e non devono essere viste dalla polizia perché senza documenti la loro presenza è proibita. Infatti secondo le stime del CLMC (Caritas Lebanon Migrants Center), il 15 – 20% del totale della popolazione detenuta nelle carceri libanesi è costituito da lavoratori migranti illegali. Scappi, ma dove vai? Non puoi andare da nessuna parte senza passaporto.
L’unica soluzione sono i centri Caritas. Nel 2005 il CLMC ha firmato un Memorandum of Understanding con l’ufficio immigrazione della General Security libanese che permette di accogliere in strutture protette le vittime di traffico. In queste strutture le ragazze ricevono assistenza legale e psico-sociale. Vengono seguite da psicologi e affiancate da avvocati per riavere i documenti e i salari non pagati e riuscire a tornare a casa. Funziona.
Il problema è che il processo può durare mesi o anni, senza che le ospiti possano uscire dallo shelter per motivi di sicurezza. L’unica possibilità è aspettare. Quindi aspettano, rinchiuse lì.
E aspettano.
Al quinto piano di un palazzo con le sbarre alle finestre e altre cinquanta donne come te che aspettano, rinchiuse lì.
E aspettano.
hands-698561_960_720Cosa aspettano poi? Un biglietto aereo per tornare dalla famiglia che non vedono né sentono da anni. Per tornare senza tutti quei soldi che speravano, probabilmente. Invece possono riportare in dono umiliazione e vergogna. Un ottimo souvenir. E poi non sanno cosa trovano a casa. Chissà quanto è cresciuto tuo figlio che hai lasciato che aveva due anni e ora ne ha venti. Chissà quanto è bello tuo marito che sta costruendo la vostra casa. Chissà cosa succede ora nella tua terra, se la tua mamma sta bene, se tua sorella si è sposata. Se si ricordano di te. Se il tuo ritorno lo vogliono ancora. Se almeno lo sperano. Se tu potrai dimenticare quello che hai subito. Ti alzi e speri sia quel giorno, ma ancora non lo è se ti addormenti con lo stesso desiderio e la stessa logorante nostalgia. La stessa delusione e la stessa tremenda interminabile pazienza.
Ho conosciuto una ragazza del Kenya che correva. In poche parlano inglese, la maggior parte capisce solo un po’ di arabo o francese.
Lei parla inglese e mi racconta che in Kenya correva a livello agonistico. Era brava, vinceva le gare. Ora non corre, passa le sue giornate in uno shelter seduta su un divano scassato. Non sorride. Non ti guarda negli occhi quasi mai. Ma quando capita ti sembra di caderci dentro, di affogare in una profondità nera di rassegnazione e rabbia. Il mondo l’ha tradita, la vita l’ha delusa. È una delle poche che non prega. Chissà cosa pensa lei di Dio?
Un giorno ho passato del tempo con un’africana di 23 anni che ne dimostrava almeno il doppio. Era triste e piangeva. Mi ha parlato per una buona mezz’ora in arabo senza che io capissi una parola. Ma le bastavo io. Io che non potevo darle neanche una cosa così banale come l’ascolto. Ha pianto tanto e io non potevo fare nulla. Poche volete mi sono sentita così impotente. Avrei voluto poterle offrire qualcosa di più di un lungo abbraccio, qualcosa di meglio delle carezze di una sconosciuta. Le accarezzavo la mano e pensavo che assomigliava tantissimo a quella di mia mamma. Ma lei non era mia mamma e io non ero sua figlia. Sua figlia era in Etiopia. Si è dovuta accontentare di me.
Però a volte ti senti utile. Dieci italiani sono un po’ più interessanti della solita telenovela in una lingua incomprensibile o del solito libro. Sicuramente meglio che guardare nel vuoto. Non saremo stati la soluzione dei loro problemi, ma non hanno pensato alla loro vita almeno per un po’. Ballare zumba, cantare travolgenti canzoni africane, costruire braccialetti, dipingere con le mani sporcandosi tutte può strappare una risata a quelle ventenni che di sorridere non hanno già più la forza.
WP_20160819_19_42_38_Pro
La direttrice dello shelter dice che noi siamo la speranza del mondo.
In realtà detto da lei suona un po’ ridicolo, dato il suo incredibile passato: dopo essere stata un migrant worker in prima persona ha dedicato la sua vita ad assistere le altre ragazze come lei, lontana dal suo Sri Lanka, senza lasciare il suo lavoro neanche durante la guerra o l’intervento di amputazione della gamba destra. Mi sento egoista e sleale ad accettare un complimento del genere da una persona come lei, da lei che è realmente la speranza del mondo. Eppure con la stessa disarmante modestia con cui ricorda la sua vita, ci considera speranza. Chi sono io per essere la sua speranza? Però lei conosce indubbiamente meglio di noi queste ragazze, quindi forse è vero che abbiamo lasciato qualcosa. Davvero si porteranno a casa anche qualche bel ricordo grazie a noi. Metteranno in valigia qualcosa di più piacevole di quattro magliette stinte e un paio di infradito scassate.
Perché prima o poi succede, la fanno davvero la valigia. Magari dopo anni di attesa, ma tornano a casa finalmente. Un giorno una di loro ha ricevuto la notizia del suo rientro in Madagascar. Dopo pianti e abbracci si siede sul suo letto. Le sue amiche sono tutte intorno a lei, in un misto di gioia, sollievo e invidia. Iniziano a truccarla. È meraviglioso questo sciamare di donne che le ronza attorno: chi le fa le unghie, chi le sistema i capelli in mille treccine ordinate, chi le copre il viso di un fondotinta troppo chiaro per la sua carnagione.
Qualcosa di bello lo portano a casa di sicuro, esattamente come noi.

Claudia

https://amelespiegate.wordpress.com/

Italia: Milano, mosaico del mondo

Nessun commento:
“Ciao, tu da dove vieni?”
“Io vengo dal mondo”
Scambio di battute al centro diurno La Piazzetta, domanda prevedibile con una risposta assolutamente inaspettata… questa risposta al momento mi ha fatto sorridere, poi la provocazione è rimasta della mente.


Durante il Cantiere della Solidarietà, forse, sono riuscito a comprendere davvero cosa significa difendere “la Patria”, obiettivo del Servizio Civile, un anno che ormai si sta concludendo.
Qual è la mia patria?
Milano, dove presto il mio servizio?
L’Italia, con tutte le sue bellezze?
L’Europa, verso una comunità (si spera) non solo di facciata?
Nessuna di queste, la mia Patria è l’Umanità, ogni uomo e ogni donna costituiscono la mia Patria… “Io vengo dal mondo”!

Milano, è la mia città, ma è anche la nostra città, è di tutte le persone che per i motivi più disparati hanno messo qui la loro impronta, non solo oggi, ma da sempre… è una città cresciuta come un mosaico, ogni persona è come un tassello, che magari non sa cosa ci faccia qui e si sente fuori posto: perché non accettato, non compreso, sfruttato, non visto… come un tassello nero in mezzo ad una moltitudine di tasselli bianchi!
Questo tassello nero che può essere un povero, uno straniero, un emarginato, un “diverso”, uno che non ha più nulla se non se stesso.

È qui che diventa importante l’ Accoglienza da parte di tutti gli altri tasselli diversi da lui, è NECESSARIA perché questo tassello nero possa essere parte di un progetto che va oltre…che sconfina!
Attenzione a non sfociare nel buonismo del dire “poverino, mi dispiace”, è il modo migliore per creare ancora più distanza.
È necessario prendersene cura (I care), solo così gli altri tasselli possono restituire la dignità al tassello nero, a restituire ad esso il ruolo che davvero è suo in questo mondo, per potersi riscoprire come parte FONDAMENTALE del mosaico...

...la pupilla nera dell’occhio dell’umanità, perché l’umanità (la mia Patria) possa vedere e guardare avanti, migliorandosi ogni giorno!

La diversità è ricchezza!

Daniele



lunedì 5 settembre 2016

Buen Viaje: che sia un andata o un ritorno...

Nessun commento:
È già passata più di una settimana e non ci sembra vero… 
forse sarà colpa del fuso nicaraguense? o forse sarà che la nostra mente non è mai partita… perché alla fine siamo tornati solo “fisicamente” lasciando un pezzo di cuore e di noi a Nueva Vida. 
Tornati a casa, nella nostra quotidianità, nelle nostri vite… non ci sembra più lo stesso! 
E sta accadendo tutto proprio come ci era stato un’pò “predetto”… si torna diversi, cambiati, più vivi, felici ed un’pò tristi, più coraggiosi, più carichi di tutto ciò che questo viaggio ci ha insegnato, accompagnandoci giorno per giorno ed ancora oggi e domani…
Questo non è un viaggio che finisce così con un volo di ritorno… il nostro finale è come dire “la fine di un nuovo inizio!”

Ora con la mente ed i ricordi vivi di questa esperienza al quale è difficile trovare un aggettivo appropriato, perché dire “è stato bello” sembra banale perché rispondere alla domanda “com’è andata?” è più complicato di quel che ci siamo immaginate…
Ora vogliamo condividere per un tempo che possa durare il più a lungo possibile la nostra esperienzaperché possa durare per sempre, perché non venga dimenticata… perché tutti possano viverla anche se non ci sono stati… perché condividendola anche gli altri possano vivere quello che abbiamo visto, sentito, toccato, provato, ascoltato… 
E allora così vi lasciamo il “nostro ricordo felice”… perché scritto possa durare per sempre… 



Anna: Il mio "ricordo felice" ovviamente è solo una piccola parte di un "viaggio" durato ben tre settimane in Nueva Vida.. Era l'ultimo giovedì alla scuola e con tanta fatica siamo riuscite a preparare il “conta cuentas” ovvero la recita animata di un racconto tratto dal libro “Il Delfino” di S. Bambarén.
Quel giorno ero emozionata come una bambina (non recitavo forse da quando avevo 10 anni!) e dedicare questo libro ai bambini di Redes è stato davvero emozionante…  mentre recitavo in spagnolo questo piccolo racconto ho pensato quanto fossimo state brave noi ragazze nell’impegnarci a questo “piccolo spettacolo”, ho pensato a cosa stessero pensando i bimbi ed ai loro incantevoli sorrisi, ho sperato che potesse piacere questa storia, perché possa insegnare loro a inseguire i proprio sogni, a ascoltare il loro cuore e a poter vivere una vita unica y meravillosa! 
E poi a fine spettacolo, trovarsi travolti dagli abbracci di questi bambini, e stare stretti stretti a loro e non volere andarsene più via… e ricevere i loro sorrisi così veri, dolci e sinceri… beh si credo che questo sia stato uno dei momenti più emozionanti… e se chiudo gli occhi mi sembra di sentir ancora le vocine dei bimbi, il loro caldo affetto e la loro presenza… era un attimo di felicità pura tra le mura di una realtà così diversa! 

Fede: Il mio ricordo felice..Più che di un vero e proprio ricordo si tratta di un'immagine che é rimasta impressa nella mia mente, e mi sembra una delle più luminose che conservo di questo mese in Nicaragua. É giovedì, sono quasi le 13, stiamo tornando a Redes dalla spesa, abbiamo tutte le mani piene di scatoloni, sacchetti, borse. Siamo quasi arrivate al cancello quando sentiamo urlare i nostri nomi, e dal fondo della strada vediamo correre verso di noi a perdifiato i soliti sei-sette bambini che venivano per il pomeriggio di biblioteca, con quei bellissimi sorrisi che non cancellerò mai dalla memoria. In un secondo ci sono addosso e ci saltano al collo, ci abbracciano, ci danno baci, ci prendono gli scatoloni e i sacchetti per aiutarci, ci stringono per mano e ci accompagnano dentro Redes, sempre senza smettere un secondo di guardarci, sorridere e stringersi a noi. E in quel momento sparisce tutto quanto, la fame, il caldo pesante, l'odore di Nueva Vida, il senso di impotenza che provavo ogni volta che mi ritrovano davanti agli occhi la povertà del barrio. Rimangono solo quei visini sorridenti, e quell'affetto gratuito che ci donavano ogni volta che ci vedevano. Questo affetto, sono sicura, qualcosa in noi deve averlo cambiato davvero

Sara: Io non so se ho un ricordo felice specifico non saprei determinarlo forse perché la mia felicità non è stata determinata solo da un frammento...
Certe cose che vedi o senti ti rimangono impresse nel cuore e nella mente e staranno lì per sempre! Certe sono proprio difficile da accettare ...ma sicuramente i bambini, i loro sorrisi, il parlare con la gente, i miei compagni di viaggio, la gente di Redes super accogliente, il cibo, le attività preparate la sera al suon di chitarra, Ari e Eli, la stupenda natura che circonda il Nica ma allo stesso tempo i suoi grossi problemi (machismo, abusi, analfabetizzazione....) tutto questo insieme ha caratterizzato il mio momento felice durato per ben 3 settimane! Ma purtroppo come ogni cosa bella prima o poi deve finire… ma so già che questo è solo l'inizio!

Chiara: Il mio non è proprio un ricordo, ma è più una sensazione… Ora che è passata più di una settimana riesco a fare il paragone tra la prima volta che sono arrivata a Nueva Vida e a Redes e quando sono andata via. All’arrivo tutto (a partire dal furgoncino di Napoleon che ci accompagnava, le strade, le abitazioni, le persone etc..) sembrava molto esotico, quasi “pittoresco”. Poi, iniziando ad uscire per le strade del quartiere per svolgere la “encuesta” e prendendo più consapevolezza della realtà locale, tutto questo ha cominciato a diventare brutto e triste: com’è possibile che nel 2016 le persone possano vivere ancora in queste condizioni di estrema povertà, con carenza di igiene etc?
Com’è possibile che dei bambini possano non andare a scuola e passino le giornate in giro da soli (o curando bambini più piccoli) senza che i genitori se ne interessino?
Queste differenze culturali però con il tempo si ammorbidiscono e pian piano sembra tutto più familiare… gli ultimi giorni infatti l’odore di Nueva Vida non era poi più così forte, il quartiere tutto sommato aveva delle sue caratteristiche positive e la gente… I bambini… che dire?!? Credo che questa foto racchiuda meglio delle parole quello che intendo dire: si tratta di un bambino che che torna a casa dopo aver raccolto la spazzatura con i genitori nella discarica di Nueva Vida… Ed ecco che con un semplice scatto si riesce a tirar fuori quanto di positivo c’è in una situazione tragica!

Questi sono solo frangenti di un ricordo che è rimasto con noi, di sensazioni, considerazioni post-cantiere che vorremmo far durare per sempre… e così sarà! 

Ci manchi Nueva Vida!

sabato 3 settembre 2016

Moldova: al di là di qualsiasi confine

Nessun commento:

Il mondo dell'uomo è pieno di confini. Lo abbiamo costruito noi così. Abbiamo voluto noi i confini che separassero gli stati. E così sono cominciate le guerre per ingrandire i propri confini, per allargarsi e diventare più potenti.
Il confine delimita, circonda il mio spazio e lo separa dal tuo. Se invadi il mio spazio, mi sento schiacciare, mi sento oltraggiato.

Eppure non è sempre così. Posso anche lasciarmi invadere, senza arrendermi, senza spaventarmi, semplicemente aprendo i miei confini per Accogliere l'altro.
La Moldova è stato un po' questo lasciarmi invadere da quanto vivevo, da quanto vedevo, da quanto respiravo, da quanto assaporavo, andando oltre qualsiasi confine. Sconfinando, appunto (per usare un termine che sia in tema).
Già, perché la Moldova mi ha aiutato a “Sconfinare”, prima di tutto, i miei confini mentali. Ho dovuto mettermi in gioco con tutta me stessa, tentando di andare oltre le mie “paturnie” ed è così che mi sono riscoperta. Io, l'eterna indecisa che prima di fare qualsiasi passo nella vita, passa ore, giorni a domandarsi: “Farò bene? É la scelta giusta? Ma se faccio il contrario? Beh, potrei fare anche così, in effetti...”, ho lasciato che la Moldova mi prendesse alla sprovvista.
Come si può rifiutare il frutto appena raccolto dall'albero che i bambini ti offrono con le loro manine sporche di terra e un gigante sorriso sdentato?
Ho imparato a non farmi troppe domande, ad accettare il dono e a mangiare il frutto insieme, grata a loro per essersi messi in punta di piedi e aver colto quel frutto per me. Non importavano più le raccomandazioni da parte di tutti prima di partire “Stai attenta all'acqua, alla frutta, ecc...”, quello che contava era il gesto che qualcuno aveva fatto per me. E quello che ne è derivato è stata profonda Gratitudine.

La Moldova è stata infatti, prima di tutto, Condivisione. O forse sarebbe meglio dire, Mettere in Comunione ciò che si aveva e quello che si era con l'altro, chiunque esso fosse. Dalla banale crema contro insetti e macchie strane che potevano comparire sulla nostra pelle alle preoccupazioni reciproche e alle emozioni che, giorno per giorno, ci siamo trovati a vivere.
In Moldova ognuno ha rinunciato al suo spazio ma senza troppi sforzi o rimpianti. Nessuno ha costruito muri o barriere per delimitare il proprio materasso nell'aula della scuola sovietica che ci ospitava. Eravamo una grande famiglia di venti persone, italiane e moldave, che tutti i giorni viveva la propria quotidianità fatta di lavoro, giochi, pasti, docce, pulizia. Ed è stata proprio in questa quotidianità, vissuta giorno per giorno, che è racchiusa la “magia moldava.”
La lingua non è mai stata un problema, c'erano i gesti.
Il cibo non è mai stato un problema, si univa la tradizione moldava a quella italiana, ci si veniva incontro, ognuno metteva in comunione con l'altro quanto sapeva e quanto poteva ed era così che ci si impegnava per preparare i pasti per tutti.
Le differenze c'erano ma stava a noi decidere se farle diventare un problema oppure andare oltre, Sconfinare, appunto. Abbiamo sempre optato per la seconda possibilità. Dopotutto siamo sempre noi a scegliere come vedere le cose.

Inoltre, prima di partire c'erano arrivate voci che i volontari moldavi sarebbero stati un po' “tamarri”, come la musica che ascoltano. Io mi immaginavo già impegnata a costruire dei tappi per evitare di tornare sorda. Invece, come è finita? É finita che siamo atterrate lunedì sera in Italia e la prima cosa che ho fatto martedì mattina è stata scaricare quelle canzoni moldave che hanno fatto da colonna sonora al nostro cantiere, facendoci emozionare, facendoci ballare fino allo sfinimento e unendoci sempre di più. Anche questo è stato un modo per Sconfinare: andare oltre qualsiasi aspettativa e pregiudizio, lasciandoci coinvolgere dai balli e dall'energia dei volontari moldavi.

La Moldova è stata Concretezza. La Concretezza del contatto fisico con i bambini e le ragazze disabili dell'internat: centinaia di ragazze e donne che ricercavano, costantemente, un abbraccio, una carezza, una semplice contatto, quasi a verificare se fossimo davvero lì con loro, e noi eravamo lì, forse un po' impreparate ma disposte ad Accoglierle e a Donare quanto potevamo, secondo le nostre capacità e i nostri limiti; la Concretezza dei calli sulle mani dopo aver vangato un pomeriggio intero il pezzetto di giardino dell'anziana signora; la Concretezza dell'umiltà della casa della signora alla quale abbiamo portato il pranzo; la Concretezza della terra polverosa e sassosa sulla quale abbiamo strisciato decine e decine di volte per giocare a “Sarpele”, senza tirarci indietro; la Concretezza del pane delizioso che, affamati, noi volontari strappavamo con le mani, dopo una lunga giornata; la concretezza del fuoco attorno al quale abbiamo cantato e ballato le danze moldave gli ultimi giorni ad Ucrainca…

Una delle cose più concrete che custodisco gelosamente nella “scatola dei ricordi moldavi” è il piccolo martello giocattolo che il piccolo M. mi ha regalato l'ultimo giorno, prima di salutarci. La mattina, appena M. arrivava con i sui “fratellini” dell'internat, mi cercava con lo sguardo e mi correva incontro. L'ultimo giorno ha fatto lo stesso e poi ha tirato fuori dalla tasca il piccolo martelletto grigio. Come ogni giorno, in rumeno, mi ha raccontato qualcosa che io non sono riuscita a capire ma lui era abituato, ormai i nostri discorsi erano sempre così, io lo ascoltavo e poi sorridevo. A lui andava bene anche così. Poi mi ha donato il piccolo martello, più prezioso di un diamante. Ancora una volta sono stata presa alla sprovvista, senza difese, senza confini mi sono trovata ad Accogliere.

La Moldova è stata anche Stupore.
 
Mi sono stupita del suo cielo stellato.
Mi sono stupita della Semplicità con cui si può vivere ancora nel 2016.
Mi sono stupita davanti a due parole sussurrate nell'orecchio da una bambina inferma, imprigionata in un corpo che la condanna alla sedia a rotelle.
Mi sono stupita dei piccoli gesti di attenzione e cura tra tutti noi volontari. Era importante che stessimo bene e per questo avevamo sempre a cuore la salute dell'altro.
Mi sono stupita dell'Accoglienza dei parinte e delle loro famiglie che ci sono sempre stati vicini, cercando di farci sentire a casa.
Soprattutto, però, mi sono stupita delle Relazioni che si sono create. Mi sono davvero resa conto che se c'è una cosa per la quale vale la pena spendersi, nella vita, sono proprio le Relazioni. Vale la pena non risparmiarsi, non farsi fermare dalla paura o dall'idea che “tanto tra una settimana devo già salutare tutti”. Non importa la quantità di tempo, ma la sua qualità e questo la Moldova me lo ha fatto toccare con mano, e con il cuore, soprattutto.
É stato il piccolo M., il bambino dalle ciabattine blu e i piedini impolverati ma dal viso dolce e vispo, ad insegnarmi che quando si AMA non esistono confini.
Grazie a lui, a tutti i bambini e a tutti i volontari che abbiamo incontrato, ho scoperto il senso dello “Sconfinare”. O almeno, il senso che, ora, questa parola ha per me.

Martina


venerdì 2 settembre 2016

Marocco: SCONFINARE DENTRO E FUORI DI SE' _ Parole di un diario di bordo

2 commenti:




SCONFINARE per TROVARE                                                                                  4.08.2016
SCONFINARE per SCOPRIRSI
SCONFINARE verso GLI ALTRI
SCONFINARE senza LINEE
Un viaggio attraverso le affascinanti terre del Marocco, il cuore aperto per ricevere il mondo e lasciarsi sconvolgere.
Così il 31.07.2016 si parte destinazione Tanger



I miei compagni di viaggio; persone che mi piace definire colorate, sorriso sulle labbra e quel luccichio negli occhi di chi ha sogni da inseguire.
Non sarà un caso ma come loro anche la nostra prima “casa” dove dormiremo per tre notti ha un aspetto colorato.

E’ nella storica Tangeri con le sue sfaccettature a metà tra antico e nuovo che iniziamo a immergerci nella cultura araba senza lasciarci intimorire da ciò che può sembrarci diverso.
Inizia qui la nostra settimana MIGRANTE; inizia tra le vie della medina, le bancarelle del souq, i colorati djellaba, il profumo di spezie e thè alla menta, il sapore di cous-cous e tajin e le parole di alcune prime testimonianze.



E’ così che Inma, responsabile del TAM (accoglienza migranti Tangeri), ci introduce la realtà di coloro che partono e arrivano a Tangeri, Ceuta o Melilla pronti a rischiare il tutto per sconfinare, determinati a varcare le soglie dell’Europa.


Non sarà di certo una linea, un filo spinato che divide un confine e che può ferirti la pelle e non solo, ma neppure la violenza delle guardie, l’indifferenza di molti o l’ingiustizia di chi redige diritti senza poi rispettarli a fermare la determinazione di uomini e donne pronte a partire verso una vita migliore,
Questi centri li accolgono, sono persone prima che migranti e si investe con loro su loro stessi, si accompagnano nel cammino per dar loro un futuro migliore e tutto ciò in un clima di integrazione.

LINEE…
 Ed è nel viaggio verso Ceuta che inizio a sentire forte e scorgere le prime linee;
·        Una lunga linea è la strada tortuosa che ci porta verso il confine

·        E’ una linea gli 8 km di filo spinato che circonda quella terra di mezzo e terra di nessuno, forse Africa, forse Europa.

·        E’ una linea, la striscia di mare, quella dello stretto di Gibilterra che tanti migranti provano a percorrere per arrivare in Europa; acqua madre a cui troppe volte ritornano i suoi figli.

·        E’ una linea, un filo sottile di contraddizioni; un’Europa che pende come un funambolo tra l’essere colpevole, finanziando la costruzione di nuovi muri e contemporaneamente nuovi centri d’accoglienza per migranti; ironico no?

·        E’ una linea il confine di Ceuta, apparente pace, questo è quello che scorgiamo dall’alto, seduti su un muretto di uno squallido parcheggio, pur sapendo che i boschi che ci attorniano sono pieni di persone che vivono così, tra le linee di rami e radici di alberi pronti a pensare alla prossima fuga, alla prossima marcia di quel paio di giorni senza cibo, riposo e acqua per l’ennesimo tentativo di oltrepassare quel filo: “UNA FORZA NELLA VITA E UNA FEDE TANTO GRANDE LI ACCOMPAGNA

 
                                                           
·        Ma le linee più difficili da tagliare, le più aguzze da superare sono quelle che stanno dentro di noi, linee di indifferenza, ostacoli che limitano noi stessi.

Ma c’è chi queste linee le abbatte tutte, come le piccole sorelle di Gesù che con il loro impegno di carità, vivendo con le minoranze sono arrivate nel cuore di Ceuta a difendere in silenzio coloro che soffrono di più: “QUANDO TOCCHI CON MANO UNA REALTA’ ECCO CHE ALLORA NON PUOI PIU’ SFUGGIRNE”, ecco che allora varcare quella linea dell’indifferenza diventa ancora più scomodo, ma c’è chi come loro non si lascia paralizzare da ciò che non conosce.



“CIAO” = IO TI RICONOSCO COME PERSONA
Ecco come accolgono uomini e donne – “Quando si sfiora e si entra nel mondo dell’altro non si sa mai dove porterà.”
Accogliere l’altro, e sono proprio persone come Gloria, Luigina, Monica (responsabile del CAM a Rabat); donne che hanno fatto dell’aiuto verso l’altro la propria missione di vita: “PER AMARE ANCHE QUELLO CHE NON POSSIAMO ACCETTARE, PER AMARE QUELLO CHE NON E’ AMABILE, ANCHE QUELLO CHE PARE RIFIUTARSI ALL’AMORE, POICHE’ DIETRO OGNI VOLTO, SOTTO OGNI CUORE C’E’ UNA GRANDE SETE D’AMORE, LA SOLA CERTEZZA CHE NON TEME CONFRONTI, LA SOLA CHE BASTA PER IMPEGNARCI PERDUTAMENTE”
Vite diverse donate per gli altri!

8.08.2016

Ed è lungo il viaggio verso Midelt, attraverso i tornanti e i paesaggi bruciati dal sole che tiro le fila su cosa è stato essere migrante, perché migrante lo sono anch’ io in questa terra straniera:
·        Migrare è essermi sentita spaesata inizialmente, una lingua, un insieme di suoni sconosciuti: come fare a comunicare? Come fare a farmi capire?

·        Migrare per me è essere osservata e osservare; curiosità! Forse a volte un po’ di diffidenza.

·        Migrare per me è superare le mie linee, i miei limiti, scoprirsi un po’ di più

·        Migrare per me è non riuscire a trovare parole di fronte a tanta confusione e ingiustizia e rimanere senza parole di fronte alla meraviglia e Bellezza di altri; antitesi DISARMANTE!

·        Migrare è ricevere una carezza sulla spalla da una mano da un colore diverso dal mio; è ricevere un benvenuto da occhi sorridenti

·        Migrare è condivisione con i miei compagni di viaggio

·        Migrare è sconfinare per ritrovarsi, quando i conflitti dentro e fuori di te sono insostenibili per rimanere fermo

·        Migrare è un sogno, un piccolo passo verso ciò che inseguo

·        Migrare è un diritto; “LIBERTA’ DI MIGRARE, DIRITTO DI RESTARE, COME ANDATA, COME RITORNO, COME ANDATA SENZA RITORNO, COME ANDATA CON RITORNO


[...]

Un cantiere particolare questo è stato, un cantiere itinerante, un cantiere fatto di molte parole e pensieri, un cantiere fra la gente.
Un cantiere che mi ha lasciato una voglia di far di più, di mettere le mani più a fondo, ancora e ancora.
Non ci sono limiti nello sconfinare e le strade sono di fronte a me, sta a me scegliere come percorrerle, sta a me mettermi in viaggio verso la mia meta.
E se anche in viaggio ci sono già, tantissimo ho ancora da viaggiare…



Volevo dedicare queste lunghe parole ai miei compagni di viaggio.
Ad ognuno di voi ho associato un piccolo ingrediente del viaggio che voglio dedicarvi:


Michi – Le Spezie:
 Bella, di una bellezza straniera, unica, come le spezie il cui profumo ricordano paesi lontani.
 Attenta nei confronti dell’altro e del diverso e con la tua tenacia e forza aggiungi quel pizzico indispensabile nel gruppo.



Franci – pallone da calcio:
E’ così che subito ti sei fatta riconoscere, scambiando un paio di palleggi con dei bambini a Tangeri al tramonto, da lì si inizia a scorgere la tua energia devastante, la tua dote nell’entrare nel mondo dell’altro abbattendo ogni muro… a volte le parole non servono.
Diretta; travolge e si lascia travolgere e sconvolgere




Sere – vento:
E’ dopo la compieta della prima sera a Midelt che usciamo all’aperto e siamo abbracciati da un venticello.
Ecco che in quel momento ho associato quel vento ai tuoi pensieri, che avvolgono i tuoi profondi occhi verdi nel momento in cui si perdono nel vuoto, quei pensieri preziosi che hai condiviso con me e con noi e che hanno arricchito ogni nostra riflessione,


Stef- colori del Marocco:
E’ così Stef che ti vedo, una persona colorata, sorridente, che sa scorgere il bello e l’allegro della vita e lo trasmette agli altri.
Dolcezza verso di me e tenerezza con i bimbi, che difatti ti hanno amata fin da subito.

 
  
Cate- incisioni:
Come le numerose incisioni e disegni che abbiamo trovato intagliate nelle mosche o su qualche parete, precise e armoniose, come la precisione che ti caratterizza e che nel complesso crea un’immagine armoniosa, raffinata… Saggezza; come le incisioni che ricordano la mano sapiente del tempo.

Fefa-bazar:
E’ nei bazar, durante le contrattazioni che esce l’anima più chiacchierina e sociale della Fefa. Perché la nostra Fefa è così, sempre sorridente come quei venditori che ti invitano nel proprio negozio, è così che ti interessi dell’altro facendo trapelare la tua gioia nella vita.
Come in un bazar in te si respira l’aria di mondo e di ricchezza; come lo sono le tue risorse, i tuoi interessi e te stessa.


Dade – pane:
Ho pensato inizialmente ad associarti al profumo del burro, ma sicuramente il pane si addice di più, quell’elemento che fa sempre sentire a casa e che per primo viene spezzato e condiviso; ecco che Dade sai accogliere, ci fai sentire a casa e condividi con noi la tua esperienza e te stesso.
PRESENTE… come quel pezzo di pane che non manca mai dal nostro tavolo


Don Luca- parole:
Parole cha abbiamo letto e abbiamo condiviso, ecco che proprio con esse ogni giorno ci accompagni con un pensiero, una riflessione, una battuta, mai banale… Parole vere che vivi nel quotidiano, e questo viverle giorno per giorno le rendono forti e incisive, lasciandoci trapelare quello spiraglio della tua profondità.


Simo- cuoio:
Il colore del cuoio ti caratterizza, come anche la passione che hai per esso. Come con il cuoio ecco che ti piace sporcarti le mani, ti piace non rimanere indifferente ma interessarti del mondo.


Richi- strada:
Ultimo, non per meno importanza, anzi, la nostra guida che ci ha sempre accompagnato lungo le moltissime strade che abbiamo percorso, guida nei nostri momenti di riflessione e condivisione.
… Strada… è dove macini e macini passi, nel mondo, dentro di te, non smettendo di camminare, non saziandoti mai, alla ricerca sempre di qualcosa di nuovo e profondo… trovando sempre spazio per l’altro, per chi è a bordo strada o per chi viaggia con te.


Per finire; tante sono state le volte in cui sono stata in silenzio, strano per me, non è mio solito non far sentire la mia voce; ma in questo viaggio ho ascoltato tanto, ho sentito, senza riuscire troppe volte a trovare quelle parole che volevo dire.
A volte non mi è facile formulare bene i miei pensieri, ma dopo tanti momenti di condivisione e di vivere quotidiano volevo lasciarvi qualcosina in più di me come voi lo avete lasciato in me.

Bea