domenica 11 settembre 2016

MAROCCO: Da qualche parte del mondo siamo tutti lo straniero di qualcuno

Sono passate tre settimane e soltanto ora sono riuscita a riaprire il mio diario di viaggio, fedele compagno della vita nomade vissuta quest’estate in Marocco.
Rileggendo quelle pagine ho notato la presenza di una parola che ritorna più volte, la parola “CASA”.
Parola così comune e così personale al tempo stesso: se dico “casa” ogni uomo può capirmi, ma ognuno penserà ad una cosa diversa.
Di questo ce ne siamo resi conto grazie alle parole delle molte persone incontrate durante il nostro cantiere itinerante e vorrei qui raccontarne qualcuna.

C’era la casa delle Piccole sorelle di Gesù, scelta ed abitata nella caotica Medina di Fez, fianco a fianco con i marocchini più poveri della bellissima città imperiale, dove le sorelle fanno i lavori più umili, gli stessi dei loro vicini di casa e con loro condividono la precarietà del lavoro; dove sono piccola e allo stesso tempo possente voce in grado di dire senza parole che la dignità è dell’uomo a prescindere dalla sua condizione.

C’era la casa delle famiglie marocchine costruita col fango e la paglia dentro una delle Casbah di Midelt, dove nessuno si apparta nel proprio appartamento e nessuno vive isolato dagli altri, dove i vicinati sono famiglie e ci si conosce tutti. Strano per dei cittadini come noi, abituati a case dotate della più moderna tecnologia, il cui principale scopo è quello di tenere le persone fuori grazie ad allarmi e recinzioni.


C’era la casa dei berberi di Tatiouine, villaggio di nomadi stanziatisi sull’altopiano dell’Atlante da soli dieci anni, senza acqua e senza luce, dove il tè alla menta è sempre pronto per chi passa di lì e dove un mucchio di bambini moccolosi al mattino giocavano con noi e alla sera, zappa in mano, lavoravano la terra per far fiorire un deserto che abbiamo conosciuto come verde.


C’era la casa di Barbara, Barbara e Marie, suore francescane adottate dai berberi di Tatiouine, che, prima sotto una tenda e solo da dieci anni sotto un tetto vero, dedicano la loro vita ad amare il Signore, amando immensamente il popolo che abita questo villaggio, di cui ora sono parte essenziale.


C’era la casa della Piccole sorelle di Gesù di Ceuta, posta su una terra che tutti vogliono toccare, per la quale tanti viaggiano mesi e anni, terra contesa e difesa da uomini armati e da filo spianto fatto di lame, piccola europa figlia della grande e del suo cieco egoismo.


C’era la “casa” che Caritas Maroc ha costruito a Rabat, Centro di Accoglienza Migranti, che lavora affinché uomini, donne e bambini subsahariani abbiano, dopo chissà quanto tempo, tutto quello che in ogni casa non dovrebbe mancare mai: cibo, sicurezza, salute, riposo.

C’era la casa dei benedettini di Midelt, monastero che la gente del posto chiama “Casbah Miriem” perché dedicata a Notre Dame de l’Atlas, dove i monaci scandiscono la vita alzando preghiere al Padre di tutti, cristiani e musulmani.

C’era la casa dei migranti di Fez, piccola e sporca tenda fatta di plastica, cartone e desolazione, posta nei pressi della stazione, dove tanti giovani africani sono “lasciati stare senza il permesso di esistere”, colpevoli solo di volere di più dalla vita in cui non hanno deciso di nascere. 
Ho fatto fatica a chiamarla “casa”, ma c’è stato un bellissimo tappeto rosso, dove qualche giovane uomo inginocchiato rivolgeva, orientato verso la Mecca, il suo pensiero al Padre di tutti, che mi fa dire oggi che anche quel buco dimenticato del mondo è sotto lo sguardo di Qualcuno in grado di rendere casa ogni luogo.



In terra maghrebina, lontano dalla mia casa, ho visto molte case e, mai come altrove, mi sono sentita nomade e straniera ed ho intravisto la bellezza del non sentirsi sempre a casa propria, sempre sicuri di sé e padroni del momento.
Mi piace così pensare che non sono l’abitudine o la comodità che fanno di un luogo una casa, ma sono le persone che la abitano, ben più importanti dei mattoni, dei cessi che funzionano o dell’acqua potabile: sono le persone e la possibilità di essere se stessi.

Ciò che non vorrei mai dimenticare è che, ovunque sia la nostra casa e qualunque sia la nostra personale idea di questa, è possibile sentirsi stranieri e allo stesso tempo a casa, perché da qualche parte nel mondo siamo tutti lo straniero di qualcuno e noi stessi possiamo essere casa anche per quel qualcuno.

Caterina

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