Sono passate tre settimane e soltanto ora sono riuscita a
riaprire il mio diario di viaggio, fedele compagno della vita nomade vissuta
quest’estate in Marocco.
Rileggendo quelle pagine ho notato la presenza di una parola
che ritorna più volte, la parola “CASA”.
Parola così comune e così personale al tempo stesso: se dico
“casa” ogni uomo può capirmi, ma ognuno penserà ad una cosa diversa.
Di questo ce ne siamo resi conto grazie alle parole delle
molte persone incontrate durante il nostro cantiere itinerante e vorrei qui
raccontarne qualcuna.
C’era la casa delle Piccole sorelle di Gesù, scelta ed abitata
nella caotica Medina di Fez, fianco a fianco con i marocchini più poveri della
bellissima città imperiale, dove le sorelle fanno i lavori più umili, gli
stessi dei loro vicini di casa e con loro condividono la precarietà del lavoro;
dove sono piccola e allo stesso tempo possente voce in grado di dire senza
parole che la dignità è dell’uomo a prescindere dalla sua condizione.
C’era la casa delle famiglie marocchine costruita col fango e la
paglia dentro una delle Casbah di Midelt, dove nessuno si apparta nel proprio
appartamento e nessuno vive isolato dagli altri, dove i vicinati sono famiglie
e ci si conosce tutti. Strano per dei cittadini come noi, abituati a case
dotate della più moderna tecnologia, il cui principale scopo è quello di tenere
le persone fuori grazie ad allarmi e recinzioni.
C’era la casa dei berberi di Tatiouine, villaggio di nomadi
stanziatisi sull’altopiano dell’Atlante da soli dieci anni, senza acqua e senza
luce, dove il tè alla menta è sempre pronto per chi passa di lì e dove un
mucchio di bambini moccolosi al mattino giocavano con noi e alla sera, zappa in
mano, lavoravano la terra per far fiorire un deserto che abbiamo conosciuto
come verde.
C’era la casa di Barbara, Barbara e Marie, suore francescane
adottate dai berberi di Tatiouine, che, prima sotto una tenda e solo da dieci
anni sotto un tetto vero, dedicano la loro vita ad amare il Signore, amando
immensamente il popolo che abita questo villaggio, di cui ora sono parte
essenziale.
C’era la casa della Piccole sorelle di Gesù di Ceuta, posta su
una terra che tutti vogliono toccare, per la quale tanti viaggiano mesi e anni,
terra contesa e difesa da uomini armati e da filo spianto fatto di lame,
piccola europa figlia della grande e del suo cieco egoismo.
C’era la “casa” che Caritas Maroc ha costruito a Rabat, Centro
di Accoglienza Migranti, che lavora affinché uomini, donne e bambini
subsahariani abbiano, dopo chissà quanto tempo, tutto quello che in ogni casa
non dovrebbe mancare mai: cibo, sicurezza, salute, riposo.
C’era la casa dei benedettini di Midelt, monastero che la
gente del posto chiama “Casbah Miriem” perché dedicata a Notre Dame de l’Atlas,
dove i monaci scandiscono la vita alzando preghiere al Padre di tutti, cristiani
e musulmani.
C’era la casa dei migranti di Fez, piccola e sporca tenda
fatta di plastica, cartone e desolazione, posta nei pressi della stazione, dove
tanti giovani africani sono “lasciati stare senza il permesso di esistere”,
colpevoli solo di volere di più dalla vita in cui non hanno deciso di nascere.
Ho fatto fatica a chiamarla “casa”, ma c’è stato un bellissimo tappeto rosso,
dove qualche giovane uomo inginocchiato rivolgeva, orientato verso la Mecca, il
suo pensiero al Padre di tutti, che mi fa dire oggi che anche quel buco
dimenticato del mondo è sotto lo sguardo di Qualcuno in grado di rendere casa
ogni luogo.
In terra maghrebina, lontano dalla mia casa, ho visto molte
case e, mai come altrove, mi sono sentita nomade e straniera ed ho intravisto
la bellezza del non sentirsi sempre a casa propria, sempre sicuri di sé e
padroni del momento.
Mi piace così pensare che non sono l’abitudine o la comodità
che fanno di un luogo una casa, ma sono le persone che la abitano, ben più
importanti dei mattoni, dei cessi che funzionano o dell’acqua potabile: sono le
persone e la possibilità di essere se stessi.
Ciò che non vorrei mai dimenticare è che, ovunque sia la
nostra casa e qualunque sia la nostra personale idea di questa, è possibile
sentirsi stranieri e allo stesso tempo a casa, perché da qualche parte nel
mondo siamo tutti lo straniero di qualcuno e noi stessi possiamo essere casa anche
per quel qualcuno.
Caterina
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