lunedì 19 novembre 2018

Haiti. Scorci di vita nella Cite

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E’ mattina, un profumo di soffritto e fritto entra dalle finestre mischiato a quello di sapone, di fresco, di panni stesi sul terrazzo sotto al sole. Mille voci risuonano per strada: donne che vendono portando in testa grossi catini carichi di tutto, avocado, banane, oggetti di plastica, vestiti, bambini che corrono, spintonandosi e giocando, entrano nelle innumerevoli scuole dell’Impasse Normand dove vivo. Sul ponte che collega Citè Okai con Citè Jeremi, di fianco la ravina, le signore hanno già allestito i loro banchetti: teli stesi a terra, canaste di frutta, fagioli, pane. Nei vicoletti sempre più stretti di Citè Jeremi le donne vendono il carbone, combustibile base per la cucina haitiana. Cani e caprette girano indisturbati, maiali ingrassano nella ravina rovistando e mangiando la spazzatura che lì viene gettata ogni giorno.
Camminando per i corridoi si incrociano molti ragazzi, niente divise, niente scuola per loro, solo lavoro. Camminano con passo svelto, portano carriole stracariche, taniche di acqua, scatoloni. Sono i restavek, bambini provenienti dalla provincia affidati (o meglio venduti) a famiglie cittadine nella speranza di un futuro migliore, o nell’esigenza di avere una bocca in meno da sfamare.
Sono molti i ragazzi che non vanno a scuola. Non posso fare a meno di stupirmi: un conto è leggere un rapporto dove si indica che ad Haiti l’80% della popolazione è analfabeta e solo il 50% dei bambini in età scolare vanno a scuola (dati UNICEF), un conto è vederlo. Perché quando lo vedi non puoi più mentire a te stesso. E’ lì, cristallino, brutalmente visibile.
Brutalmente. Ecco una parola chiave. Perchè purtroppo dove c’è povertà e ignoranza, spesso c’è brutalità. Non trovo altre parole per definire l’episodio a cui ho assistito l’altro giorno: un bambino afferrato, immobilizzato a terra da degli uomini che gli hanno poi assestato due belle cinghiate sulla schiena. La colpa? Aver camminato in mezzo alla strada, non essersi spostato al passaggio della macchina. Forse gli avevano urlato qualcosa e lui ha risposto male, forse aveva anche fatto qualcos’altro, non so, non l’ho visto. Quello che ho visto erano le impronte delle mani,bianche di terra, sulle braccia e sulle gambe, il segno rosso della cinghia e gli occhi di un bambino sotto shock.
Come in Perù, qui il livello di violenza “tollerato” o giudicato “normale” è molto differente rispetto alla nostra concezione europea. Molto più elevato. Nelle scuole si usa il bastone, i genitori usano le mani, le cinghie, tutto quello che hanno a portata di mano. Vedendo però come crescono questi ragazzi non posso fare a meno di chiedermi: “ma ne vale la pena? Questo metodo mica funziona…”. I ragazzi crescono in strada, troppo calde le case, troppo affollate, troppo attaccate l’una all’altra. La promiscuità è la diretta conseguenza, così come la violenza, strettamente collegata alla frustrazione, alla stanchezza, alla disperazione. Il risultato però non è l’educazione, bensì la creazione di un rancore interno che viene covato dei ragazzi, si accumula e cresce fin quando, in un momento di esasperazione, esplode. Un’esplosione violenta, che spesso porta conseguenze anche pesanti, strascichi gravi.
Mi chiedo se ci sia una via d’uscita. C’è una scappatoia? Esiste il modo per risollevarsi, per uscire da questa povertà che distrugge la vita? Non lo so, non posso saperlo. Io ho avuto la fortuna di essere nata “nel lato giusto (sigh) del mondo”. Mai come adesso è chiara questa cosa, mai come adesso capisco di non capire, di non poter capire.

Dal blog: https://percorrendolastradadellavita.wordpress.com/ 

sabato 3 novembre 2018

[Serbia] Chi sono i migranti? Persone da amare.

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Chi sono i migranti? Se ti dicessi persone come me e te non sarei sincero. Ho scoperto infatti che il migrante, pur assomigliandoci molto, è certamente diverso da noi: egli conosce il senso profondo della libertà, perché di essa è stato privato, e desidera ardentemente riconquistarla.

Nel campo di Krnjaca i bambini giocano tra le baracche, senza regole precise. Molto spesso scoppiano liti per un gioco conteso o per futili motivi, volano schiaffi e spintoni; un bambino scappa piangendo mentre l'altro riprende a giocare. Sono un po' selvatici i bambini di Krnjaca, sono simili a cuccioli che imparano a vivere facendosi spazio come possono, anche con le mani quando serve. Non si può certo dar loro la colpa, in fin dei conti molti non sono mai andati a scuola, mentre gli altri hanno ricevuto un'istruzione raffazzonata e discontinua, del tutto insufficiente perché la vita del campo non cancellasse quel minimo di educazione e di senso civico che tutti noi abbiamo imparato durante gli anni della scuola materna e di quella elementare.

I ragazzi sono il gruppo predominante. Tantissimi arrivano dall'Afghanistan, molti altri dal Pakistan, e poi dall'Iran, dal Ghana, dal Libano e persino dalla Cina.

Loro, al contrario dei bambini, sono di un'educazione e di una compostezza disarmanti. Molti parlano bene inglese, spesso meglio di noi, e danno prova di una curiosità e di una voglia di confidarsi che facilitano l'incontro. Scopriamo così che alcuni hanno iniziato un percorso di studi nel loro paese e ora vorrebbero continuarlo, spesso hanno un sogno nel cassetto, voglia di vivere, energia, forza fisica e mentale da spendere ma, al momento, sono chiusi in una striscia di terra, in un intervallo pallido di spazio e tempo dove ogni giorno sembra uguale all'altro, un tempo sprecato per una generazione che sembra persa.

Quasi tutti vogliono raggiungere l'Europa e ci provano di continuo, quando il tempo e le energie lo consentono. Pochissimi passano il confine, i più sono ricacciati indietro o scappano per non essere presi dalla polizia che, non si sa mai, può sempre decidere di tenerli per qualche giorno in questura, senza cibo né acqua, per far perdere loro la voglia di provarci ancora.

Liberi di proseguire, queste persone, non lo sono proprio. Così come liberi non erano nei loro paesi dai quali sono stati costretti a scappare per poter salvare la pelle, magari dopo aver visto la propria famiglia uccisa dai talebani o i compagni di scuola massacrati in qualche attentato terroristico. Molti ragazzi erano di buona famiglia e l'intelligenza delle loro domande esistenziali ci lascia l'amaro di non saper rispondere. Poche sono le persone fuggite per la povertà ma, mi chiedo, perché si dovrebbe far distinzione fra migrante economico o politico visto che la fame non lascia liberi e fa morti come la guerra.

Caro lettore, vorrei poter condividere con te la risposta, ora chiara per me, alla mia domanda iniziale ma mi rendo conto che la mia penna è limitata e non può trasmettere l'incontro che è avvenuto anche se continuassi a scrivere per altre cento pagine: sto pensando a volti che hanno nomi precisi e sentimenti e vocazioni proprie. 

Spero allora che ciò che non riesce ad esprimere la parola possa essere compreso dal cuore.

Chi sono i migranti? Persone da amare.

Stefano Polli

[Serbia] Questo, semplicemente, è ingiusto.

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“Li odio tutti, sono delle bestie, senza offese per gli animali che sono molto più civili e puliti”.

L’ultima settimana al campo si percepivano strappi strani fra la notte e il giorno. Di giorno capitava di sedersi vicino a un ragazzo qualunque e di sentirsi raccontare dei fratelli morti a scuola in un attentato, del papà minacciato dai talebani, della mamma con i fratellini piccoli di cui non si hanno più notizie, delle botte che avevano ricevuto il giorno prima, o la settimana prima, solo per aver tentato di oltrepassare un confine. Storie raccontate sempre con una voce calma, quasi leggera, in cui la sofferenza trapelava appena da qualche accenno. Non hanno mai chiesto il mio aiuto o la mia pietà. 
Poi alla sera noi volontari tornavamo a casa, si accendeva il cellulare, e si iniziavano a controllare le notizie provenienti dall’Italia. Nel nostro Paese erano i giorni del caso Diciotti. Una sera ho iniziato a scorrere i commenti sotto le notizie principali. Non avrei mai dovuto farlo. Non c’era solo l’affermazione che ho riportato in apertura: c’era una marea di offese, di insulti, di epiteti animaleschi con cui si aggredivano tutti i clandestini. Solo che non erano più dei semplici, generici migranti che sentivo attaccati: erano quei migranti. Quel ragazzo educato e triste, che non sapeva più nulla di sua mamma. Quello che mi offriva sempre la sedia quando entravo in una stanza. Quello con un sorriso smagliante, che era un asso della pallavolo. Quello che, una volta che mi ero fatta un leggero graffio alle ginocchia, è corso in camera a recuperare una salvietta per me. Quel ragazzo ventenne, rispettoso, dal cuore buono, che ogni volta che partiva chiedeva di pregare per lui il nostro Dio, perché avrebbe fatto lo stesso col suo. Quelli che, al di là dei gesti di cura, di bontà e di intelligenza che possono aver avuto per noi, al di là di tutti i loro meriti, erano comunque, con ogni evidenza, degli esseri umani, con tutto il bagaglio che questa affermazione comporta. Loro. Degli animali. Degli oggetti di puro disprezzo, buoni solo per buttarci addosso la polvere delle nostre scarpe. Delle cose che possono morire in silenzio, perché, per qualche motivo, valgono meno di noi.
Quando ho letto quelle notizie, così a bruciapelo, così poco tempo dopo aver parlato direttamente con loro, ho sentito salirmi in gola un magone furioso, una rabbia, un bisogno disperato di difenderli almeno dagli insulti e dagli sfottò che non avevano fatto nulla per meritare, di mostrare chi stavano coinvolgendo in quella bile indiscriminata. Se solo potessimo metterli insieme ad un tavolo, l’italiano e l’afghano, uno di fronte all’altro. Se facessero una sola partita di pallavolo insieme, forse si ricorderebbero che l’altro è un uomo, che sa sorridere, che sa persino voler bene a qualcuno.
Stando in Italia viene quasi spontaneo collocare, mese dopo mese, sempre più postille, eccezioni, limitazioni, “se” e “ma” alla questione accoglienza. Per quanto uno sia vaccinato contro il razzismo, aperto all’incontro con l’altro, culturalmente sensibile al mondo, è come se il fluire costante delle notizie rischiasse a volte di spingerci ad essere gradualmente sempre più cauti, più trattenuti dalla complessità insita nella questione. E la questione, senz’altro, è complessa. Ma se Krnjača mi è servito, con questa immersione tra figure umane, di contatto diretto fra occhi e linguaggi, è stato soprattutto a dare una sterzata improvvisa al discorso, un controbilanciamento nella direzione opposta: no, alla fine non è così complesso. Questi ragazzi partono da un Paese ancora in guerra, che solo per sfregio si può considerare pacificato, dalla morte, dagli attentati, dall’insicurezza, dalla chiusura delle loro scuole, dalla povertà; e per poterlo fare sono costretti ad attraversare dieci frontiere, mettendoci anni, spendendo i loro risparmi, consegnandosi nelle mani di criminali, rischiando di essere picchiati, truffati, respinti, e anche di morire. Non c’è davvero nulla di complesso in questo. Questo, semplicemente, è ingiusto. Complesso può essere organizzare l’accoglienza, immaginare un sistema che produca integrazione; più complesso ancora, sradicare le cause di un esodo di massa, come quello che sta avvenendo fra i giovani di Iran e Afghanistan. Ma difficile non è sentire che quel centinaio di ragazzi, che mentre scrivo sono ancora lì a consumare il loro tempo nel nulla, non dovrebbero essere lì, non dovrebbero essere percepiti come dei criminali a prescindere, e dovrebbero avere, molto più della mia compassione, il diritto ad un percorso diverso.

Ilaria De Regis

martedì 30 ottobre 2018

Sbarcata sull'isola di Cristoforo Colombo

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Già è passato quasi un mese dal mio arrivo ad Haiti. Sembra ieri, sembra il secolo scorso.
La partenza, come sempre non è stata facile: saluti, abbracci, progetti, timori, preoccupazioni. Il salto nel vuoto. Prendere un aereo, lasciare la propria vita, il proprio Paese, la comodità di ciò che si conosce. 
Atterro, dopo circa 36 ore di viaggio e due scali all'aeroporto internazionale di Port-au-Prince. Ad attendermi agli arrivi Suor Luisa, la mia capa per il prossimo anno. 
Non perdiamo tempo e subito andiamo a Kay Chal, la scuola/centro di aggregazione giovanile in cui lavorerò. Il centro è grande, nuovo, colorato. Il quartiere, situato nella zona di Delmas 31 è uno dei quartieri popolari della città. Non il peggiore, sicuramente non tra i migliori. Una ravina, una specie di fiumiciattolo, in relatà una discarica a cielo aperto, divide due quartieri: da un lato citè Okay, dall'altra citè Jeremy.
Si potrebbe pensare che non sia stato il migliore degli inizi, eppure in questo panorama si scorge una bellezza di sottofondo: un sorriso, una canzone sparata a tutto volume, i bambini che giocano rincorrendosi. C'è molto da scoprire, c'è molto da apprezzare, se non ci si ferma all'apparenza.
Attraversando un corridoio strettissimo, della misura di una cariola, tra le case raggiungiamo, dopo una camminata di circa 10 minuti la Comunità delle Piccole Sorelle di Charles de Focauld. Casa.
Passo le prime due settimane sull'isola visitando alcune realtà con cui Caritas collabora: in particolare la casa della Papa Giovanni XXIII, Kay Beniamino (un altro CAG) a Port-au-Prince, la parrocchia di Mare Rouge, a nord. 
Uscire dalla città significa fare un viaggio di moltissimi chilometri: improvvisamente non sei più nelle Antille, in America Centrale. Ti ritrovi in qualche paese africano non bene definito. Usi, costumi, abitazioni, tutto mi fa pensare all'Africa. Scopro così un paese decisamente diverso da quello che mi aspettavo, non per questo meno bello, anzi! Direi che è stata una bella sorpresa. 
Il Paese è molto povero, la gente spesso non vive, sopravvive. Le case spesso sono poco più che catapecchie, mangiano una volta al giorno, quando va bene. Le speranze e le prospettive di un miglioramento futuro sono molto scarse, se non il prendere e partire: Cile, USA, fuori da quest'isola. Eppure la gente vive, vive ogni secondo al massimo. L'ospitalità è molto sentita e ti puoi ritrovare a sorseggiare un cocco appena colto chiacchierando con persone sconosciute. 
Inoltre la bellezza della natura di questo Paese è indescrivibile. Visito Mole St. Nicola, dove Cristoforo Colombo toccò terra, convinto di aver raggiunto le Indie. Un mare cristallino, una spiaggia bianca, deserta: il paradiso terrestre. Poco lontano dalla costa un relitto di una nave, la tradizione vuole che sia la carcassa di una delle tre caravelle. 
Ho anche la fortuna di visitare la costa sud dell'isola, verso Okay. Per la prima volta vedo la barriera corallina... Potrei passare le ore con la testa in acqua a seguire, importunando, i pesciolini che, veloci, scappano a rifugiarsi fra i coralli. 
Sono ad Haiti da  quasi un mese, comincio a comprendere il creolo, la lingua del Paese, comincio piano piano a riconoscere alcuni segni, alcuni aspetti della cultura. Mi sono abituata agli sguardi stupiti delle persone quando cammino per strada, ai bambini che urlano blanch quando mi incontrano. Si dice che chi ben comincia è a metà dell'opera, per ora, non posso che essere soddisfatta e contenta della decisione di ripartire. 

lunedì 22 ottobre 2018

Thailandia: l'esperienza di Giorgia, casco bianco di Caritas Italiana

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Ottobre 2017 - Ottobre 2018 LA MIA ESPERIENZA DI SERVIZIO CIVILE con Caritas Italiana
DOVE: Thap Lamu - Provincia di Phang Nga - Thailandia

Giorgia Romanelli, volontaria originaria della Diocesi di Milano, ha appena terminato l'esperienza di servizio civile all'estero, inserita in un progetto "Caschi Bianchi" promosso da Caritas Italiana.
Caritas Ambrosiana, a seguito del terribile Tsunami del 2004, ha sostenuto per diversi anni le organizzazioni locali, sia attraverso il finanziamento di progetti, sia attraverso l'invio di volontari durante il periodo estivo ("Cantieri della solidarietà").
Pubblichiamo volentieri un video-racconto del suo anno di servizio e la traduzione in italiano dei testi descrittivi che accompagnano le immagini presenti nel filmato.



Il villaggio di Thap Lamu è abitato da immigrati birmani; la maggior parte di loro vive in povertà e ha problemi con documenti, droga, prostituzione e sfruttamento.
È in questo contesto che nasce il Learning Centre, creato grazie alla volontà degli abitanti birmani per garantire un’educazione scolastica ai bambini del villaggio. Bambini che altrimenti, a causa di problemi finanziari o mancanza di documenti, non possono permettersi di frequentare la scuola governativa thailandese.
Il Centro di Apprendimento è sostenuto dal Disac (Azione Sociale Diocesana della diocesi di Suratthani), da Caritas Italiana e da donazioni private. Supporti che garantiscono il pagamento degli insegnanti, vengono utilizzati per sistemare le carenze strutturali e per l’acquisto del materiale scolastico utile agli studenti.
Le materie insegnate presso il Centro di Apprendimento sono il birmano, il thailandese, l’inglese e la matematica. Anche l'insegnamento della religione ha un grande valore. Il metodo di insegnamento utilizza principalmente tecniche mnemoniche, che non tengono conto delle peculiarità individuali e si avvale di punizioni corporali basandosi sul potere autoritario.
Le debolezze strutturali richiedono una manutenzione continua, gli spazi sono limitati per il gran numero di studenti (circa 60) e i soldi non sono sufficienti a pagare più di un insegnante. 
Il preside del Centro Didattico lavora come volontario. 
Sono circa 60 i bambini, di età compresa tra 3 e 15 anni,iscritti al Centro di Apprendimento. Provenendo da famiglie povere e spesso problematiche, vengono poco spronati e spesso crescono con modelli violenti e disfunzionali
Molti bambini hanno comportamenti violenti, livello di attenzione basso e difficoltà nel relazionarsi positivamente. Spesso l'unica modalità di comunicazione conosciuta dai bambini è la punizione violenta e fisica. Modalità che non solo gli adulti di riferimento utilizzano nella relazione con i bambini, ma che i bambini stanno imparando a utilizzare tra loro
Per tutte le ragioni sopra menzionate, la necessità di fissare nuovi obiettivi, di lavorare su diversi aspetti della vita dei bambini, cercando di fornire nuovi modelli, nuove esperienze, stimolare abilità che altrimenti rischiano di rimanere latenti e creare nuove modalità di relazione pacifiche e collaborative.
La possibilità data da Caritas di avere a disposizione un fondo per attuare un progetto che vada a lavorare su questi obiettivi, ha dato origine a idee.
L'idea della Pet Therapy nasce dalla possibilità di avere un ampio spazio disponibile e dalla funzione mediativa e stimolante che gli animali possono avere, con effetti positivi sui bambini.

LA PET THERAPY

Questi interventi funzionano grazie al rapporto instaurato tra un animale domestico ed un utente: una sintonia complessa e delicata che stimola l'attivazione emotiva e favorisce l'apertura a nuove esperienze, nuovi modi di comunicare, nuovi interessi. L'animale non giudica, non rifiuta, si dona totalmente, stimola i sorrisi, aiuta la socializzazione, aumenta l'autostima e non ha pregiudizi. In sua compagnia il battito cardiaco diminuisce così come le ansie e le paure. Inoltre, favorisce la piena espressione delle persone, che tra umani di solito si riduce al solo linguaggio verbale.
Interagire con un animale può significare per un bambino sviluppare processi di apprendimento più rapidi e imparare a prendersi cura di qualcuno diverso da lui. Una buona opportunità di crescita, perché l'animale ha un grande valore emotivo per lui: accarezzare e coccolare provoca un piacevole contatto fisico e stimola la creatività e la capacità di osservare.
L'esperienza è stata accolta molto positivamente da bambini che non avevano mai avuto l'opportunità di prendersi cura di un animale. I bambini erano molto felici dell'idea di prendersi cura dei conigli, abbiamo progettato insieme il recinto, che sarebbe stato usato per ospitare i conigli nel cortile della scuola, e l'abbiamo costruito insieme. Attività che consente di sviluppare abilità di programmazione, cooperazione e sviluppo delle abilità manuali. I bambini si sono presi cura dei conigli, avendo cura di fornire il cibo, pulire la gabbia, portarli dalla casa delle insegnanti a scuola.
Un riscontro molto positivo sul progetto di Pet Therapy deriva dall'essere stato in grado di coinvolgere molto intensamente un bambino con una storia familiare molto travagliata e disfunzionale, con difficoltà relazionali, aggressività repressa, comportamento violento e manifesta necessità di attenzione. La relazione con i conigli ha ripetutamente permesso di tranquillizzare l’aggressività del bambino, aiutandolo a recuperare la calma. 
Il progetto di Pet Therapy ha funzionato come mediazione tra me e i bambini e ha permesso loro di trovare un passatempo visitando i conigli a casa nostra al di fuori dell'orario scolastico.
Gli aspetti negativi dell'esperienza riguardano principalmente le difficoltà incontrate durante la stagione delle piogge, durante la quale i conigli non potevano essere portati nel cortile della scuola. Persino lo spazio riservato a loro in casa, durante la stagione delle piogge era esposto all'acqua e questo ha impedito ai bambini di prendersi cura degli animali in modo continuativo. Ciò ha causato una perdita di interesse da parte dei bambini nei confronti dei conigli.

Credo che l'esperienza della Pet Therapy sia stata sicuramente positiva per i bambini; e che, insieme ad altre attività implementate durante l'anno, abbia portato i bambini a crescere e maturare. Penso che uno degli aspetti positivi sia stato il mantenere l'attenzione sul fornire ai bambini nuovi stimoli, nuovi modelli rispetto a metodi di comunicazione e relazionali funzionali.
Il progetto Pet Therapy è stato senza dubbio un progetto a termine che non avrà continuità. 
Ritengo però che possa essere utile continuare a perseguire gli obiettivi su cui puntava, utilizzando anche diversi metodi e risorse.

“Per insegnare bisogna emozionare. Molti però pensano ancora che se ti diverti non impari”
(Maria Montessori)

Giorgia Romanelli,
casco bianco 2017-2018 in Thailandia, Caritas Italiana

lunedì 24 settembre 2018

Fuoripista inaspettato: il Libano.

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Durante il corso della vita potresti ritrovarti a dover inseguire [anziché seguire] il percorso che ti eri configurato. Quando questa cosa succede ti rendi conto che la vita le studia tutte pur di portarti fuori strada e riposizionarti sulla giusta direzione. Capita a me, anche con questo Cantiere.

L'istinto diceva Libano, la testa Sud America.

Bisognerebbe imparare a fidarsi di più dell'istinto perché per lo meno per quanto mi riguarda, le cose più belle capitate durante questa estate -in particolar modo questo viaggio e il suo conseguente ritorno- gliele devo tutte.

Tre settimane, otto ragazze, quattro coordinatori.
Destinazione: Beirut.

Un cantiere di città, così la definisco io. Un centro storico ed una corniche nuovi -praticamente intatti- in costante e continua evoluzione; una città immensa, fatta di cemento su cemento (strade, ponti, palazzoni), automobili e cartelloni pubblicitari.



Due cose mi colpiscono: l'incuria e la densità abitativa per km² [a dir la verità questo aspetto si ridimensiona di parecchio dopo aver vissuto Shatila, il campo formale palestinese collocato ai margini della città e nascosto da un muro].
Una sola invece mi disorienta: Beirut non attribuisce significato a quello che noi definiamo 'Memoria Storica'. I libanesi preferiscono abbattere e poi ricostruire pur di cancellare i segni di che cosa è stata la guerra. Piuttosto che ricordare sceglie di privarsi della sua identità non capendo che, più continua ad aspirare all'occidente, più si svuota, più si perde.

Dalla città-cantiere al cantiere vero e proprio, quello fatto di persone -donne migranti o rifugiate, per violenza domestica o per guerra; etiopi, siriane, irachene o palestinesi- e di bambini, grandi e piccoli. Negli shelter -comunità d'accoglienza gestite da Caritas- ai campi profughi formali -Shatila ad esempio, gestiti dall'Unrwa- o informali -come quello di Tel Abbas, gestito da volontari italiani di Operazione Colomba.

In ognuno di questi posti abbiamo visto e vissuto storie; ci siamo fermati ad ascoltare e poi a riflettere. Abbiamo cercato di capire che cosa significa la parola guerra guardando negli occhi le persone che da questa sono fuggiti -per non morire- [Da Tel Abbas la Siria dista soltanto 5 km.] abbinandola poi al concetto di casa che, così come per i siriani o i palestinesi, fa sempre rima con ospitalità e cordialità, e per questo motivo -non importa quanto io possieda o non possieda- tu, oggi, perché sei qui, vieni prima di me.



Ma soprattutto abbiamo cercato di portare un po' di leggerezza e di spensieratezza nei vissuti di tutte le persone che abbiamo incontrato, improvvisandoci per l'occasione esperte di qualsiasi cosa: dall'handcraft allo yoga passando per la cucina ed il canto.
I momenti migliori però rimangono quelli in lingua araba, perché non puoi sempre rispondere che l'arabo non lo capisci, il tuo grado di maturità sta' anche in questo, nell'assecondare comunque lo sfogo di una donna nella sua lingua...la bellezza viene dopo, quando sul suo volto vedi il sollievo e nella tua testa speri di non aver acconsentito al disastro del secolo =) !
E poi ci sono i bambini. Con loro è tutto più facile in primis la lingua, in un attimo si comunica in italiano e tu dall'altra parte riscopri quanto divertenti possano essere quelle quattro insignificanti parole che una volta ben assimilate continueranno a ripeterti all'infinito: "Marcondirondirondello!!".
Ahhh, quanti bei sorrisi abbiamo visto su quei volti: anche alle 7 del mattino, quando ti piacerebbe continuare a dormire un altro po' ma il "Bishbaaaaaah" di Shilane è peggio di una sveglia puntata alle h 5!

E potrei continuare a scriverne di questo Libano, di tutti i posti visitati, del mare bianco, dei 50 gradi di Tripoli, dell'hummus e de 'l'agliata' etc etc...ma è giusto anche fermarsi e lasciare a cuore e testa il loro ricordo. La bellezza del ritorno è soprattutto questa Non dimenticare di ... Facendo qualcosa per, un po' come quella cosa del Costruiamo ponti e non muri.

Chiudo con la citazione d'apertura di Valerio Nicolosi al suo libro (R)esistenze [una bella scoperta del Ritorno]:
"Da ognuno secondo le proprie capacità, a ognuno secondo i propri bisogni." K. Marx
Un sentito ringraziamento alle mie compagne di viaggio e coordinatori: senza di Voi non sarebbe stato bello e vero così come è stato. 




 #sentitilibanadi
Mary L. 




lunedì 17 settembre 2018

Nairobi e le sue mille realtà

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Di solito mi risulta semplice raccontare un qualcosa che mi ha colpito ed emozionato; al contrario questa volta qualcosa è cambiato e non riesco a trovare le parole più giuste per esprimere come mi sono sentita e come mi sento ora.
Sapevo che mi sarebbe servito del tempo, al mio rientro, per riuscire a descrivere cosa avessi visto e cosa avessi provato… Ma non pensavo che ogni ricordo mi sarebbe apparso anche in quei momenti più insoliti: magari stai ridendo e scherzando e ad un tratto senza motivo, rivedi difronte a te quei bambini, in mezzo ad un ammasso di sporcizia che rovistano cercando qualsiasi cosa; o camminando per strada ti ritrovi ad accarezzare un piccolo cagnolino e ripensi a tutti quelli randagi che proteggevano quei bambini di strada; o sei sul treno e a fianco a te osservi un gruppo di ragazzi di colore e ti vengono in mente le intere giornate con i tuoi amici di Cafasso a chiacchierare e a ridere; o ancora più semplicemente ti alzi la mattina, sei a casa da sola, c’è silenzio e sono proprio i silenzi che ti riportano a quel mondo a quella vita vissuta per sole tre settimane.
Quello che ho capito è che per un po’ sarà sempre così, si cercherà di ritornare con la mente a quelle situazioni, si cercherà di riviverle e si riproveranno le stesse emozioni perché forse quel mondo ti ha trasmesso cosi tanto che dimenticare sarebbe solo uno spreco.
Sto cercando di immaginarmi ogni giorno trascorso in quella realtà, a ogni testimonianza e incontro ma a dire la verità ho un grande confusione!
Da una parte ricordo le serate insieme ai miei compagni a cantare, a ballare, a giocare a carte.
Ricordo il piccolo safari in bicicletta, forse un po’ deludente per aver visto pochi animali, ma come si fa a non divertirsi quando si è affiancati da persone così fantastiche?!
Ricordo Karura Forest con i ragazzi di Cafasso in cui non eravamo più noi volontari e loro ex detenuti ma un unico gruppo di amici.
Ricordo la prima volta che sono entrata a Kamiti (quartiere carcerario) e quella sensazione che non saprei nemmeno descrivere, di sollievo, come se avessi già capito che quella sarebbe stata la mia casa per tre settimane.
Ricordo il giorno in cui abbiamo “visitato” Napenda Kuishi, è stata una grande, bella sorpresa, forse il giorno che mi ha fatto ricredere su tanti pensieri e che più di tutti mi ha aperto gli occhi. Napenda Kuishi è una piccola comunità, gestita da Padre Maurizio con dei ragazzi che stanno affrontando un percorso rieducativo di un anno e quel giorno non era previsto che rimanessimo a lungo, in realtà per sfortuna/fortuna il pulmino si è guastato e con molta naturalezza, senza pensarci due volte abbiamo deciso di giocare con questi ragazzi. Purtroppo mi è difficile spiegare cosa realmente mi ha entusiasmato e cambiato, forse le parole di Padre Maurizio, forse la sua grande dedizione, forse la sua voglia di cambiare le cose ma soprattutto credo che siano stati quei ragazzi con i loro abbracci, con la loro spontaneità e con la loro dolcezza… a far sì che quel giorno, sia diventato un BEL giorno.

Ora arriva la parte più difficile.
Dall’altra parte ricordo le storie dei ragazzi in carcere, le loro fatiche e le difficoltà nel riuscire ad adattarsi a quella realtà. Ricordo Korogocho dalla messa animata, piena di balli e canti che per qualche istante ti faceva dimenticare di essere in una discarica ma che poi le folate di odori ti riportavano alla realtà in cui ti trovavi.
Ricordo la giornata con Simone e i bambini di strada, ricordo perfettamente i loro disegni, molto diversi da quelli di un semplice bambino italiano; ricordo l’odore della colla e del cherosene... Ricordo lo “sbiascicare” dei bambini che ne facevano uso... Ricordo l’odore pungente dei loro abiti… Ricordo il luogo dove vivevano, sotto un cavalcavia… E infine di quella giornata ricordo soprattutto i bambini della comunità che ci hanno accompagnato al campo per giocare e il loro silenzio alla visione di tutti gli altri ragazzi di strada e chissà magari quale tempo prima potevano essere proprio loro nelle stesse identiche condizioni.
Ricordo le prime volte quando siamo entrati nel carcere minorile maschile, l’ansia e l’imbarazzo per alcune domande inappropriate da parte dei ragazzi.
Ricordo la grande difficoltà nel parlare della mia storia o della mia vita, dei miei banali problemi, al contrario di loro cresciuti troppo in fretta a causa di situazioni o circostanze impensabili.
E ricordo la delusione di quando siamo arrivati all’entrata del carcere femminile, erano giorni che speravamo di entrare per poterle conoscere ma per motivazioni a noi sconosciute non è stato possibile ottenere questo incontro.
L’ingiustizia, l’indifferenza, l’ineguaglianza, il razzismo era e sono alla portata del giorno.
In realtà i giorni in cui mi sono sentita veramente angosciata sono stati pochi rispetto ai sorrisi, agli abbracci, agli scherzi, alle situazioni di conoscenza ma quei momenti sono stati incisivi e lo saranno forse per sempre.

Mi piacerebbe spendere ancora qualche parola per i protagonisti della mia esperienza:

i ragazzi di Cafasso.

Cafasso è una comunità nel quartiere carcerario in cui ragazzi decidono volontariamente di farne parte dopo aver scontato 4 mesi della vita nel carcere minorile di Kamiti. Come ho già detto loro sono stati la nostra famiglia e Cafasso la nostra casa per 3 settimane quindi meritano un grande ringraziamento.



La prima settimana ammetto che personalmente non è stato facile relazionarsi ma il tempo ha cambiato ogni cosa. Sicuramente siamo entrati a far parte delle loro vite come un uragano, probabilmente, per il poco tempo che avevamo a disposizione. Siamo arrivati in dieci bianchi, cosa quasi assurda per loro e già dal secondo giorno eravamo lì, a lavorare, a parlare, a giocare e forse pretendevamo un legame che aveva bisogno di tempo per poter crescere.
Dalla seconda settimana c’è stato un grande cambiamento. Era d’obbligo riuscire a vedere i ragazzi almeno una volta al giorno; giocavamo senza farci problemi, calcio, pallavolo, giochi inventati al momento oppure semplicemente ci sedevamo in un angolo e imparavamo a fare i braccialetti o ancora si parlava di quello che ci passava per la testa. Loro si sono aperti tanto, ci hanno raccontato le loro storie, ma allo stesso tempo ci riempivano di domande così che non eravamo più noi ad intrattenerli ma erano loro che avevano voglia di conoscerci.
La loro preoccupazione maggiore, che iniziava a farsi sentire negli ultimi giorni, era che col tempo potessimo dimenticarli ma in realtà ciò, non potrà mai succedere.

Ringrazio il mio gruppo perché forse è scontato e banale ma senza di loro non sarei riuscita a superare tante difficoltà e non avrei potuto conoscere persone così speciali, ognuno con il proprio carattere, diverso ma conciliabile con tutti gli altri.  
Ringrazio Alice e Giacomo, coloro che hanno intrapreso il percorso di servizio civile, per la loro grande ospitalità, per il loro coraggio, per la loro voglia di mettersi in gioco, per aver organizzato le nostre tre settimane e li auguro un grosso in bocca al lupo per la fine del servizio.
Infine ringrazio la Caritas e i suoi membri perché danno la possibilità di vivere queste esperienze che ti fanno crescere e ti aprono al mondo.

Un abbraccio forte a tutti.

Francesca.



Ho svuotato la valigia ma la testa non ancora

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Ore 17:17, salgo sul treno per tornare dall'università. Cammino in cerca di un posto e lo trovo. Mi siedo. Di fianco a me una ragazza, ha tante treccina, vestiti colorati e ciabatte africane ricoperte di perline. 
Ecco di colpo il cuore mi si stringe e tutti i sintomi affiorano. Vi chiederete, i sintomi di che cosa? Del mal d'Africa.
Ho sempre sentito parlare del mal d'Africa ma non ci ho mai creduto. 
Pensavo 'come si può provare nostalgia per un posto che non ti appartiene?'
E invece no, l'Africa ti entra dentro, si prende tutto: testa, occhi, olfatto, pensieri, udito, anima, cuore. Si prende tutto e ti stravolge. 
Hai sempre avuto una tua visione del mondo? Tranquilla, quando tornerai non sarà più la stessa.
L'Africa ti cambia, un cambiamento brusco, repentino. Fa tutto senza che tu te ne accorga. 
La mattina ti svegli con la nostalgia dei sorrisi spontanei, degli occhioni grandi che ti guardano per andare a giocare, delle manine che ti afferrano come a dire 'ora sei mia', dei canti, dei balli, dei saluti, degli abbracci...

Quando sei per strada percepisci una strana sensazione, ti senti quasi a disagio perché cerchi gli sguardi di benvenuto, cerchi le strade sgarrupate, i matatu colorati, i tuktuk, i baracchini che vendono chips di manioca, mani che si agitano in segno di saluto e invece trovi solo persone con musi lunghi che camminano affannati a testa bassa, strade grigie e ordinate, persone che si lamentano per banalità e vetrine scintillanti. 

Tutte le cose che prima ti sembravano le più importanti, ora non lo sono più. 
Tutte le volte che ti stai per arrabbiare ti fermi a pensare e ti chiedi 'ma ne vale davvero la pena?' 
Tutte le cose che prima ti sembravano scontate ora le vedi sotto un'altra luce, ne riesci a percepire l'importanza. Impari ad apprezzare le piccole cose come lo svegliarsi la mattina e avere l'acqua in casa, poter fare una doccia calda, avere una cameretta tutta tua, avere un frigo pieno di cibo, prendere il treno e avere la strabenedetta fortuna di andare a scuola e studiare. Perché sì, noi ci lamentiamo degli esami, delle lezioni, ma ci sono ragazzi che farebbero carte false per andare a scuola. 
Nasce quindi in te un desiderio di fare le cose fatte bene, di studiare bene, di fare i compiti bene, di ascoltare bene, di mangiare bene senza sprecare nulla, di fare tutto bene perché sei fortunata, perché tu puoi studiare, perché tu hai un frigo sempre pieno, perché tu sei nata in un paese dove puoi avere tutto (o quasi) e quindi hai l'obbligo di fare le cose fatte bene. Ti senti in dovere di fare tutto bene.

L'Africa ti insegna a vivere con il tempo e non a vivere per il tempo. Impari che se una cosa non arriva subito, se hai fede arriverà. Impari a credere nel destino, a prendere le cose così come vengono. Impari che il bicchiere non è mai mezzo vuoto ma è sempre mezzo pieno o pieno e anche se è vuoto, non preoccuparti, c'è sempre una visione positiva. 
Ti insegna la pazienza, il riconoscimento, il rispetto per i tempi altrui. Ti insegna che cos’è la dignità.


Ormai sono passate quasi tre settimane dal mio ritorno in patria, le canzoni africane sono diventate la colonna sonora delle mie giornate, e le foto dei miei bambini e dei miei ragazzi hanno invaso camera mia. I ricordi incominciano a sfumare, ma le sensazioni, alcuni odori e suoni sono indelebili. A volte succede che la testa parta e vada in Africa o che la nostalgia mi invada all’improvviso, mentre sono impegnata a fare tutt’altro. Poi però penso che non devo farmi sopraffare da queste sensazioni ma cercare di assimilarle, elaborarle e farle diventare il mio punto di forza. Devo cercare di prendere tutti gli insegnamenti e il bene che ho ricevuto da questo magnifico continente e moltiplicarlo perché come mi disse una mia amica:
il ritorno porta addosso mal di testa e mal d’anima, porta un po’ di questi sorrisi, di quei canti e di quei balli, di ciò che hai visto e imparato anche qui da noi’

Ora vi saluto che sono giunta alla mia fermata. 
Nakutamani Afrika.

Federica

giovedì 13 settembre 2018

Moldova - Bosnia: racconto di un'esperienza

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Le emozioni e le impressioni di Dorina (volontaria sedicenne dell’associazione Misiunea Socială "Diaconia", Moldova) circa le due settimane di avventura e scoperta della Bosnia Erzegovina.

Otto volontari moldavi hanno avuto la possibilità di vivere due settimane di scambio in Bosnia ospiti delle associazioni locali Youth for Peace e Ivan Pavao II, due realtà impegnate nel dialogo interreligioso e nella ricostruzione post conflitto
Per questi otto volontari l`esperienza ha rappresentato diversi primi e nuovi incontri e scoperte: prima volta in un paese straniero, primo approccio con diversi credi religiosi... 
La complessità del paese con la sua storia, le testimonianze ascoltate, i luoghi visitati ed il volontariato svolto con i migranti e i ragazzi dell’orfanotrofio a Banja Luka hanno contribuito a rendere ”l’esperienza sconvolgente” come dice la stessa Dorina nell’articolo sotto riportato.


Un'esperienza sconvolgente, che in pratica ci ha cambiati tutti. La semplicità, la bellezza, le emozioni provate, le persone diverse incontrate, il divertimento, il dramma della guerra che abbiamo conosciuto, queste parole non riescono a descrivere quello che abbiamo vissuto nel corso della nostra esperienza in Bosnia e Herzegovina. 

Religione, una parola così semplice ma che allo stesso tempo racchiude così tanti significati, luoghi religiosi affascinanti e sorprendenti, diversi gli uni dagli altri, persone appartenenti a credi differenti ma alla fine, non conta, perchè accomunate tutte dalla fede in un solo Dio.

Uno stato non molto grande, ma con una storia ricca di avvenimenti, tra cui una tragica guerra  di cui le persone si ricordano ancora e capita che lo facciano attraverso l'ironia e l'umorismo nero.
Uomini con una storia bella e piena di eventi che riescono a guardare al futuro nonostante il passato doloroso. 

Oltre agli abitanti della Bosnia ho avuto l'opportunità di incontrare persone provenienti da altri paesi tra cui alcuni rifugiati a cui abbiamo distribuito un pranzo caldo e un bicchiere di thè svolgendo volontariato con una mensa moblie. In questa occasione  ho conosciuto per esempio un ragazzo cinese, Maks, che sta facendo il giro il mondo e che, giunto a Sarajevo, ha deciso di rendersi utile alla mensa mobile. Ciascun giorno, ciascun luogo visitato durante queste settimane ha arricchito le nostri menti e colmato le nostre lacune con molte nuove informazioni.
Durante il servizio alla mensa abbiamo chiaccherato con altri volontari meravigliosi che nonostante non  parlassero bene inglese cercavano di fare per il possibile per riuscire a comunicare con noi.
Abbiamo visitato città quali Mostar, Jaice, Banja Luka ed alcuni musei come, ad esempio, il War Childhood Museum. Mostar, famosa per il suo ponte incantevole ricostruito dopo la fine del conflitto, sotto al quale scorre un fiume che attraversa la citta’ e la città di Jaice con la sua cascata. 
Il Child War Museum ci ha emozionati con i ricordi dei bambini cresciuti durante il periodo della guerra che vengono presentati con una piccola descrizione dell'oggetto e del proprietario, descrizione che spesso non mi ha fatto trattenere le lacrime.

In queste due settimane abbiamo avuto l’opportunità di avvicinarci a molte persone, tra cui i bimbi e i ragazzi dell’orfanotrofio di Banja Luka, gli anziani del centro diurno Drevnii davvero difficili da battere a carte, vista la loro astuzia! 
Negozi, parchi, ristoranti, passeggiate, mercati… Abbiamo visitato così tanti luoghi...entusiasmo e curiosità ci hanno sempre accompagnati, Qualcuno è anche riuscito ad imparare un po’ di inglese e assieme siamo riusciti ad oltrepassare le paure che avevamo all’inizio e abbiamo scoperto cosa significhi essere una vera squadra, magari  piccola ma unita e forse siamo riusciti ad essere piu’ di una squadra… Siamo diventati una famiglia. 
Grazie di cuore a chi ci ha dato l’opportunità di vivere quest’esperienza perchè ci ha permesso di aprire il nostro sguardo e di cambiare prospettive rispetto a tanti aspetti e abbiamo imparato davvero tanto, diventando persone piu’ consapevoli e mature. Neanche il divertimento è mancato…  Dal primo all’ultimo giorno! Siamo stati accolti con amore, abbracci, parole e regali che ci siamo scambiati a vicenda
Ci mettiamo la firma che in futuro non ci faremo assolutamente scappare la possibilità di vivere un’esperienza di questo genere e siamo pronti per accoglierne una nuova in qualsiasi momento!
Nuove idee, progetti ed eventi… La voglia e il desiderio di impegnarci e di aiutare sono cresciute dentro di noi… dentro a quegli 8 piccoli esploratori circondati da persone meravigliose e piene di bellezza. 
Vogliamo ringraziare le persone che ci hanno accompagnato in quest’avventura: la nostra coordinatrice Nadia e le volontarie italiane Lisa Thibault, Faustina Yeboah, Diana Cossi!! 

Grazie Caritas!

Il bene, alla fine, torna sempre indietro e la fatica viene sempre ripagata!

mercoledì 12 settembre 2018

Il vero tesoro del Libano

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Viaggio sulle tracce del Lebanon Mountain Trail, il primo sentiero di montagna ad attraversare il Libano da nord a sud.



Il Libano nasconde un tesoro, incastonato tra la costa mediterranea ricoperta di edifici ad ovest e i verdi campi della valle della Beqaa ad est. È un tesoro fatto di profonde valli, montagne dai pendii lievi e dalle cime per lo più arrotondate, frutteti ricoperti di fiori in primavera e carichi di frutta d’estate, foreste sempreverdi di pini, abeti e rari cedri, monasteri e luoghi di culto,  villaggi più o meno sperduti e gente ospitale. Uno scrigno pieno di bellezza ed ancora incontaminato, in una terra che, se lo sguardo si limita alla fascia costiera dove le più grandi città sorgono, Beirut in primis tutta protesa verso il mare, sembra aver subito pesantemente gli effetti più nefasti della modernizzazione: edilizia selvaggia, cementificazione, inquinamento dell’aria e delle acque, traffico selvaggio, plastica ovunque. Un tesoro che si può scoprire solo zaino in spalla, se ci si lascia alle spalle l’autostrada sempre ingorgata che collega le città della costa da nord a sud e ci si inoltra in una delle tante valli che tagliano le montagne in direzione ovest-est, un tesoro che si può conoscere a fondo solo se si è disposti ad abbandonare i tempi frenetici della città ed adottare i tempi lenti ma costanti del passo di montagna.  






L’idea stessa del Libano, d'altronde, viene dalla montagna. Il Monte Libano è il cuore del paese, ne costituisce l’essenza profonda, almeno geograficamente e storicamente. Laban erano le montagne che si stagliavano al cielo a pochi chilometri dalla costa mediterranea, montagne ricche di fiumi, acqua e neve durante l’inverno. “Laban” perché questa parola, usata oggi in arabo per riferirsi allo yogurt, veicolava  l’idea di bianchezza e perciò bene descriveva quelle cime ricoperte di neve, la loro unicità in una regione povera d’acqua. Laban è diventato Lubnan, ed ha dato il nome alla catena montuosa stessa, il Monte Libano. Proprio da una parte di questa regione montagnosa, secoli dopo, nacque la prima idea di Libano, quando nel 1861 le potenze europee decisero che un’entità autonoma doveva essere creata all'interno dell’impero Ottomano in pieno declino per proteggere le comunità cristiane che vivevano nell'aerea. Con l’inizio del mandato francese, sessantanni dopo, il “piccolo Libano” essenzialmente montuoso fu allargato notevolmente, inglobando i territori circostanti e le comunità che vi vivevano. Veniva così creato il “Grande Libano” e la demografia ne usciva completamente mutata, non più un’entità a grande maggioranza cristiana, ma un paese pluriconfessionale che inglobava cristiani di diverse confessioni, musulmani sciiti e sunniti, drusi. Anni di guerra civile e ingenti ondate migratorie - prima da sud (Palestina) e più recentemente da Nord ed Est (Siria) - hanno complicato ulteriormente il panorama sociale ed antropologico di un paese dalla sua nascita fragile, ed alterato quell'equilibrio demografico teorico tra musulmani e cristiani su cui si basa tuttora il sistema politico libanese. 



Differenza territoriale tra il "Piccolo Libano" creato nel 1861 (in verde scuro) ed i confini del Libano attuale nati con il mandato francese (in azzurro). 



Malgrado l’allargamento avvenuto con il mandato francese, che ha dato al Libano i suoi confini attuali, il Monte Libano continua a costituire la spina dorsale del paese. Esso si estende da nord a sud per circa 170 chilometri, dividendo la fascia costiera dove sorgono le città libanesi più importanti – Beirut, Tripoli, Tiro e Sidone – dalla Beqaa, larga valle pianeggiante prevalentemente agricola e rinomata per i suoi vini (grazie ai mille metri d'altitudine a cui si estende),  limitata a ovest dal Monte Libano stesso e ad est dalla catena montuosa dell’Anti-Libano. Il Monte Libano è formato da montagne prevalentemente tondeggianti e poco scoscese, che partono basse vicino al mare per poi crescere verso l’interno, superando i duemila metri ed arrivando a toccare i tremila nella zona più settentrionale della catena. Qurnat el Sawda, con i suoi 3093 metri, ne è la cima più alta.



Afqa, sorgente del fiume Nahr Ibrahim.



Addentrarsi nel Monte Libano, soprattutto nelle sue zone più remote, è come entrare in un mondo differente, a volte sembra quasi di cambiare paese, eppure ci si è spostati di poche decine di chilometri dalla costa. L’aria diventa pulita, i rumori svaniscono, la natura prende di nuovo il sopravvento sul cemento. Le persone ti accolgono calorose e desiderose di scambiare due chiacchiere, ti offrono quello che hanno, invitandoti ad entrare nella loro casa, per pranzo o per cena, insistono affinché tu ti fermi a dormire. Il Monte Libano è un tesoro sconosciuto ai più che visitano il Libano, ai turisti che si limitano alle mete più famose, passando frettolosamente in macchina per fare qualche foto ai famosi Cedri di Dio, ma proseguendo poi oltre verso Baalbek o scendendo di nuovo verso il mare. Eppure, esso rappresenta la vera meraviglia del Libano, una grande ricchezza da promuovere e proteggere.







Da qualche anno esiste un’associazione che ha deciso di valorizzare questa tesoro, creando il primo sentiero di trekking che percorre tutto il Monte Libano da nord a sud, attraversando così longitudinalmente anche gran parte del paese. La Lebanon Mountain Trail Association, nata grazie ad un progetto di ECODIT ed i finanziamenti dell’Agenzia Americana per lo Sviluppo (USAID), è stata infatti  creata nel 2007  con l’obiettivo di incentivare il turismo sostenibile in Libano e di mostrare e proteggere le bellezze naturali ed il patrimonio culturale di questo paese. Il risultato tangibile di questo progetto è stato la creazione, in soli due anni, del Lebanon Mountain Trail, un sentiero di montagna lungo 470 chilometri che unisce l’estremo nord del paese alle al suo estremo sud, passando per più di 70 paesi di montagna e snodandosi ad altitudini comprese tra i 600 ed i 2000 metri dal livello del mare. 



Tracciato del Lebanon Mountain Trail, dalla sua primissima tappa nel nord del paese a pochi chilometri dalla Siria, Andqet, all'ultima nell'estremo sud, Marjaayoun, a una decina di chilometri dal confine israeliano.



Il Lebanon Mountain Trail è diviso in 27 sezioni, ognuna delle quali unisce due delle 28 tappe in cui esso è suddiviso. Ogni sezione varia in difficoltà e lunghezza, con dislivelli che vanno dai 500 ai 1200 metri e con lunghezze che variano dai 10 ai 20/25 chilometri. Il sentiero inizia nell’Akkar, la regione più a nord del Libano, partendo dalla cittadina di Qubayat (anche se ora una sezione numero 0 è stata creata prima di Qubayat, dal villaggio di Andqet). Il lungo tracciato si snoda verso sud con una lieve flessione verso ovest, attraversando zone remote fino ad arrivare alla valle della Qadisha, famosa per i suoi monasteri che da secoli ospitano comunità monastiche cristiane. Il sentiero sfiora i famosi Cedri di Dio e poi continua verso sud, addentrandosi nella regione centrale del Libano – Il Monte Libano politico – ed attraversando villaggi cristiani e musulmani fino ad arrivare nello Chouf, la regione meridionale della catena montuosa, rifugio storico della comunità drusa. Il sentiero prosegue poi nell'estremo sud del paese, zona prevalentemente sciita, fino a terminare nella cittadina di Marjaayoun, a una decina di chilometri dal confine con Israele (per percorrere quest’ultimo tratto, gli stranieri devono chiedere l’autorizzazione all'esercito libanese).   



Valle della Qadisha vista da Bsharre. 



Grazie al Lebanon Mountain Trail è possibile avere una visione tutta nuova del Libano. Esso permette di scoprire le sue bellezze naturali nascoste, di annusarne i profumi, ascoltarne i rumori, contemplarne i colori. In primavera, le valli e i pendii del Monte Libano si riempiono di fiori, si colorano di un verde acceso, l’acqua abbondante rende la natura florida e rigogliosa. Da nord a sud, il Monte Libano è zona di frutteti ed il percorso spesso ci passa attraverso, si cammina tra distese di meli o ciliegi in fiore, coltivati sui terrazzamenti costruiti sopra i lievi pendii di queste montagne. Le ginestre e le margherite colorano i prati, mentre le api ronzano e volano operose da un fiore all'altro.  Lungo il cammino, non è raro incontrare arnie dove esse vengono allevate.


















Andando verso l’estate, gli stessi frutteti si caricano di frutta, ad agosto gli alberi sono carichi di mele rosse e verdi, i rami si piegano sotto il loro peso. In altre zone, le conifere sempreverdi si stagliano verso il cielo, soprattutto abeti e pini, più rari i famosi cedri del Libano, che a causa del proprio legno pregiato hanno subito gli effetti nefasti di secoli di deforestazione ed oggi sono presenti soprattutto in aree protette, come la riserva naturale dello Chouf, quella di Tannourine o i famosi Cedri di Dio vicino a Bsharre.  









La riserva dei Cedri di Dio di Bcharre vista dall'alto. In essa si trovano i cedri più antichi del Libano. In altre riserve, più recenti ma anche più estese, si sta procedendo con una lenta opera di riforestazione. Nella riserva dello Chouf, è addirittura possibile "adottare" un cedro.




Eppure, il Lebanon Mountain Trail non permette solo di scoprire le bellezze nascoste del Libano. Percorrerlo significa avvicinarsi al Libano stesso, comprendere meglio la varietà culturale, religiosa e confessionale che caratterizza questo paese, è un modo per entrare in contatto diretto con questa pluralità, fonte di ricchezza ma inevitabilmente anche di contrasti. Con i suoi 470 chilometri, il percorso attraversa numerosi villaggi, alcuni grandi e popolati, altri piccoli ed isolati, lungo il cammino si incontrano musulmani, cristiani, drusi, ci si imbatte in chiese, moschee, monasteri e santuari. Le persone sono sempre felici di scambiare due chiacchiere, ed ogni incontro permette di comprendere meglio la complessità di questo paese, di aggiungere un tassello alla propria comprensione. 



Santuario di Nabi Ayyoub - vicino alla cittadina di Niha, nello Chouf -  luogo sacro per la comunità drusa. 





Chiesa di Saint Shallita, vicino a Qubayat 




Gli incontri, d'altronde, costituiscono forse la vera ricchezza per chi decide di intraprendere il Lebanon Mountain Trail, parzialmente o per intero. Attraverso i sentieri di montagna, lungo le strade agricole sterrate che spesso il percorso segue, si incontra un popolo che, lontano dalla frenesia anonima della città, si riscopre nella sua ospitalità più autentica. Non c’è stata una volta, tra le varie in cui ci siamo cimentati in una o più tappe di questo lungo percorso, in cui qualcuno non ci abbia stupito con un’accoglienza calorosa, un gesto gentile, un invito. 

Sulla strada da Maaser el-Chouf a Niha – nello Chouf, la parte meridionale del Monte Libano – abbiamo incrociato un signore che trasportava due borse cariche di fichi sul dorso di un asino. Lui ci ha fatto cenno di avvicinarsi, senza parlare ha preso una manciata di fichi e ce li ha offerti, dicendoci poi di prenderne quanti volessimo. Noi, con i nostri schemi mentali, pensavamo volesse venderceli, invece era solo un gesto di cortesia gratuita, che ci ha fatto cominciare il trekking con un sorriso.  

Tra Qubayat e Teshaa – dalla parte opposta, nell'estremo nord – i coltivatori di mele hanno fatto lo stesso, invitandoci a raccoglierne quante volessimo direttamente dall'albero. Un signore simpatico, dalla pancia sporgente, il fiatone per la salita appena fatta ed il fucile a tracolla, ci ha invitato a prendere mele e noci, “questo è tutto vostro,” ha detto indicando gli alberi che crescevano sul suo terreno, ha rivolto lo stesso invito a due macchine che passavano lungo la strada, poi ci ha chiesto ripetutamente se volevamo cenare o dormire a casa sua. Poco prima, un pastore dagli occhi chiari e l’accento poco comprensibile aveva fatto lo stesso, invitandoci a dormire nella sua dimora tra i pascoli. La sera prima a Qubayat George – il proprietario di un bel campeggio con bungalow in pietra, il Jabalna Ecolodge – ci aveva invitato a cena con famiglia ed amici, con loro avevamo mangiato e bevuto in abbondanza: mutabbal, kebbe di carne cruda, tabbule e carne di maiale alla griglia, il tutto accompagnato da numerosi bicchieri di araq. Il giorno dopo a Teshaa, piccolo paesino sperduto tra le montagne dove siamo arrivati al tramonto dopo parecchie ore di camminata, le persone ci hanno accolto sorprese ma ospitali, più famiglie ci hanno invitato ad entrare a prendere un caffè, mentre i bambini del paese ci hanno riempito di domande, offrendosi di accompagnarci a vedere una sorgente poco distante. 






Tra le strade di montagna spesso abbiamo fatto l’autostop, per tornare al paese dove avevamo lasciato la macchina la mattina stessa. A caricarci più di una volta sono stati ragazzi siriani, che passavano con camioncini da lavoro o con macchine mezze scassate, e spesso allungavano il proprio tragitto pur di portarci dove dovevamo andare, felici di aiutarci. Sulla strada tra Afqa e Aqqoura si è fermata una macchina con a bordo un uomo e una donna, anch'essi siriani. Malgrado fossimo cinque, hanno insistito affinché salissimo tutti, una di noi si è trovata sulle gambe della donna seduta sul sedile davanti. La coppia, loquace e simpatica, ci ha accompagnato alla macchina e poi ci ha invitato ripetutamente a prendere un caffè nella loro casa. Abbiamo così conosciuto la loro famiglia ed ascoltato le loro storie, il caffè si è trasformato in una cena abbondante e deliziosa preparata in fretta per gli ospiti inattesi, abbiamo passato con loro diverse ore e li abbiamo salutati solo a notte inoltrata. 

Ogni volta che ci siamo incamminati tra le cime del Monte Libano, esso ci ha riservato qualche sorpresa. Lungo il Lebanon Mountain Trail ogni tappa nasconde infatti piccoli o grandi tesori, ogni camminata riserva un incontro. Sulle sue tracce si riscopre tutta la bellezza del Libano, e si riesce finalmente a capire perché i libanesi siano così innamorati della propria terra. 

Pochi giorni fa, passeggiando tra i meleti carichi di frutti, mi sono tornate alla mente le parole di un libro da poco iniziato in cui il protagonista, un uomo libanese in esilio volontario in Francia a causa della guerra civile, ricorda con nostalgia l’odore della propria infanzia, della propria terra. Una terra fertile ed ospitale, ricca di odori, colori e sapori da scoprire e storie da ascoltare, se si è disposti a mettersi lo zaino in spalla ed incominciare a camminare. 

“Durante la sua lunga permanenza in Francia [Karim] sognava le mele del Libano, il loro profumo si mischiava a quello del caffè, e lui inalava l’odore della sua infanzia. […] La fragranza delle mele si mischiava con il profumo dei chicchi di caffè nelle mani di suo padre il farmacista, che ordinava ai due figli di mangiare una mela alle cinque del pomeriggio, perché le mele del Libano sono meglio di una medicina. […] Là,  in quella lontana città francese, Karim provò per la prima volta il dolore di un profumo che scompare. Tentò di raccontare a Bernadette dell’odore delle mele e dei chicchi di caffè, ma si trovò incapace di descriverlo, come descrivere un profumo a una persona che non l’ha mai sentito, che non l'ha mai annusato?"
[Sinalcol, Elias Khoury]