Di solito mi risulta semplice raccontare un qualcosa che mi ha colpito
ed emozionato; al contrario questa volta qualcosa è cambiato e non riesco a
trovare le parole più giuste per esprimere come mi sono sentita e come mi sento
ora.
Sapevo che mi sarebbe servito del tempo, al mio rientro, per
riuscire a descrivere cosa avessi visto e cosa avessi provato… Ma non pensavo
che ogni ricordo mi sarebbe apparso anche in quei momenti più insoliti: magari
stai ridendo e scherzando e ad un tratto senza motivo, rivedi difronte a te
quei bambini, in mezzo ad un ammasso di sporcizia che rovistano cercando
qualsiasi cosa; o camminando per strada ti ritrovi ad accarezzare un piccolo
cagnolino e ripensi a tutti quelli randagi che proteggevano quei bambini di strada;
o sei sul treno e a fianco a te osservi un gruppo di ragazzi di colore e ti
vengono in mente le intere giornate con i tuoi amici di Cafasso a chiacchierare
e a ridere; o ancora più semplicemente ti alzi la mattina, sei a casa da sola,
c’è silenzio e sono proprio i silenzi che ti riportano a quel mondo a quella
vita vissuta per sole tre settimane.
Quello che ho capito è che per un po’ sarà sempre così, si
cercherà di ritornare con la mente a quelle situazioni, si cercherà di
riviverle e si riproveranno le stesse emozioni perché forse quel mondo ti ha
trasmesso cosi tanto che dimenticare sarebbe solo uno spreco.
Sto cercando di immaginarmi ogni giorno trascorso in quella
realtà, a ogni testimonianza e incontro ma a dire la verità ho un grande
confusione!
Da una parte ricordo le serate insieme ai miei compagni a
cantare, a ballare, a giocare a carte.
Ricordo il piccolo safari in bicicletta, forse un po’ deludente
per aver visto pochi animali, ma come si fa a non divertirsi quando si è
affiancati da persone così fantastiche?!
Ricordo Karura Forest con i ragazzi di Cafasso in cui non
eravamo più noi volontari e loro ex detenuti ma un unico gruppo di amici.
Ricordo la prima volta che sono entrata a Kamiti (quartiere
carcerario) e quella sensazione che non saprei nemmeno descrivere, di sollievo,
come se avessi già capito che quella sarebbe stata la mia casa per tre
settimane.
Ricordo il giorno in cui abbiamo “visitato” Napenda Kuishi, è
stata una grande, bella sorpresa, forse il giorno che mi ha fatto ricredere su
tanti pensieri e che più di tutti mi ha aperto gli occhi. Napenda Kuishi è una
piccola comunità, gestita da Padre Maurizio con dei ragazzi che stanno
affrontando un percorso rieducativo di un anno e quel giorno non era previsto
che rimanessimo a lungo, in realtà per sfortuna/fortuna il pulmino si è
guastato e con molta naturalezza, senza pensarci due volte abbiamo deciso di
giocare con questi ragazzi. Purtroppo mi è difficile spiegare cosa realmente mi
ha entusiasmato e cambiato, forse le parole di Padre Maurizio, forse la sua
grande dedizione, forse la sua voglia di cambiare le cose ma soprattutto credo
che siano stati quei ragazzi con i loro abbracci, con la loro spontaneità e con
la loro dolcezza… a far sì che quel giorno, sia diventato un BEL giorno.
Ora arriva la parte più difficile.
Dall’altra parte ricordo le storie dei ragazzi in carcere, le
loro fatiche e le difficoltà nel riuscire ad adattarsi a quella realtà. Ricordo
Korogocho dalla messa animata, piena di balli e canti che per qualche istante ti
faceva dimenticare di essere in una discarica ma che poi le folate di odori ti
riportavano alla realtà in cui ti trovavi.
Ricordo la giornata con Simone e i bambini di strada, ricordo perfettamente
i loro disegni, molto diversi da quelli di un semplice bambino italiano;
ricordo l’odore della colla e del cherosene... Ricordo lo “sbiascicare” dei
bambini che ne facevano uso... Ricordo l’odore pungente dei loro abiti… Ricordo
il luogo dove vivevano, sotto un cavalcavia… E infine di quella giornata
ricordo soprattutto i bambini della comunità che ci hanno accompagnato al campo
per giocare e il loro silenzio alla visione di tutti gli altri ragazzi di
strada e chissà magari quale tempo prima potevano essere proprio loro nelle
stesse identiche condizioni.
Ricordo le prime volte quando siamo entrati nel carcere minorile
maschile, l’ansia e l’imbarazzo per alcune domande inappropriate da parte dei
ragazzi.
Ricordo la grande difficoltà nel parlare della mia storia o
della mia vita, dei miei banali problemi, al contrario di loro cresciuti troppo
in fretta a causa di situazioni o circostanze impensabili.
E ricordo la delusione di quando siamo arrivati all’entrata del
carcere femminile, erano giorni che speravamo di entrare per poterle conoscere ma per motivazioni a noi sconosciute non è stato possibile
ottenere questo incontro.
L’ingiustizia, l’indifferenza, l’ineguaglianza, il razzismo era e
sono alla portata del giorno.
In realtà i giorni in cui mi sono sentita veramente angosciata
sono stati pochi rispetto ai sorrisi, agli abbracci, agli scherzi, alle
situazioni di conoscenza ma quei momenti sono stati incisivi e lo saranno forse
per sempre.
Mi piacerebbe spendere ancora qualche parola per i protagonisti
della mia esperienza:
i ragazzi di Cafasso.
Cafasso è una comunità nel quartiere carcerario in cui ragazzi
decidono volontariamente di farne parte dopo aver scontato 4 mesi della vita
nel carcere minorile di Kamiti. Come ho già detto loro sono stati la nostra
famiglia e Cafasso la nostra casa per 3 settimane quindi meritano un grande
ringraziamento.
La prima settimana ammetto che personalmente non è stato facile
relazionarsi ma il tempo ha cambiato ogni cosa. Sicuramente siamo entrati a far
parte delle loro vite come un uragano, probabilmente, per il poco tempo che
avevamo a disposizione. Siamo arrivati in dieci bianchi, cosa quasi assurda per
loro e già dal secondo giorno eravamo lì, a lavorare, a parlare, a giocare e
forse pretendevamo un legame che aveva bisogno di tempo per poter crescere.
Dalla seconda settimana c’è stato un grande cambiamento. Era
d’obbligo riuscire a vedere i ragazzi almeno una volta al giorno; giocavamo
senza farci problemi, calcio, pallavolo, giochi inventati al momento oppure
semplicemente ci sedevamo in un angolo e imparavamo a fare i braccialetti o ancora
si parlava di quello che ci passava per la testa. Loro si sono aperti tanto, ci
hanno raccontato le loro storie, ma allo stesso tempo ci riempivano di domande
così che non eravamo più noi ad intrattenerli ma erano loro che avevano voglia
di conoscerci.
La loro preoccupazione maggiore, che iniziava a farsi sentire
negli ultimi giorni, era che col tempo potessimo dimenticarli ma in realtà ciò,
non potrà mai succedere.
Ringrazio il mio gruppo perché forse è scontato e banale ma
senza di loro non sarei riuscita a superare tante difficoltà e non avrei potuto
conoscere persone così speciali, ognuno con il proprio carattere, diverso ma
conciliabile con tutti gli altri.
Ringrazio Alice e Giacomo, coloro che hanno intrapreso il
percorso di servizio civile, per la loro grande ospitalità, per il loro
coraggio, per la loro voglia di mettersi in gioco, per aver organizzato le
nostre tre settimane e li auguro un grosso in bocca al lupo per la fine del
servizio.
Infine ringrazio la Caritas e i suoi membri perché danno la
possibilità di vivere queste esperienze che ti fanno crescere e ti aprono al
mondo.
Un abbraccio forte a tutti.
Francesca.
Nessun commento:
Posta un commento