Sono le 10:21 di un venerdì di settembre. Piove e sono sotto
tesi. Ho lasciato Kahawa West ormai da settimane e, inevitabilmente, inizia a
sfumare nel ricordo, anche se molte sensazioni e alcuni odori sono ancora
vividi.
Nei cinque minuti passati ho scritto una pagina al PC,
ho stampato tre articoli scientifici e ho bevuto un caffè alle macchinette.
Devo essere produttiva e non posso perdere tempo. Da quando sono tornata
all’università, ho la percezione che il tempo non vada sprecato e che le
cose vadano fatte tutte, subito e bene. Che se ci si prende cinque minuti per
fare altro, tutto va a rotoli.
Fare, fare e fare.
Altrimenti è un problema.
Ma lo è davvero?
Più ci si allontana dall’epicentro meneghino e più questo
dettame mi sembra che diventi lasco. E in Kenya, a Kibiko, cinque minuti non
sono i cinque minuti della mia biblioteca italiana.
È una domenica di agosto. Con padre Maurizio, comboniano, a
Nairobi da quattro anni e venti alle spalle nei sobborghi neri di Chicago,
andiamo a visitare Napenda Kuishi (“Voglio/amo vivere”), la comunità
residenziale per ragazzi tossicodipendenti di cui Maurizio è il direttore. La
comunità si trova a Kibiko, a un’ora e mezza di auto da Nairobi, sulle Ngong
Hills, ossia le verdi colline de La mia Africa della Blixen.
Tramonto sulle Ngong Hills - Napenda Kuishi - Kisumu Ndogo |
Qui vengono portati e ospitati quei ragazzi, tra i 13 e i 19
anni, che non riescono a disintossicarsi nei centri diurni all’interno di
Korogocho, lo slum che cresce sulla discarica cittadina.
Lontano da tutti, questi ragazzi vengono immersi nel bello e
nella calma con la speranza che il loro percorso abbia successo.
E infatti Napenda Kuishi è un bel centro, in
tutti i sensi.
Napenda Kuishi - Kisumu Ndogo |
Napenda Kuishi - Kisumu Ndogo |
E non è qualcosa di affatto scontato, quando anche il centro
della capitale è esteticamente tremendo e sembra un’accozzaglia di palazzi
costruiti da un architetto col gusto per lo stile sovietico misto a quello
tipico degli istituti comprensivi dell’hinterland milanese. Il giorno prima di
quello a Napenda Kuishi, in giro per il centro di Nairobi ho chiesto a Joshua,
la nostra guida, cosa fosse quel palazzo che tanto mi ricordava il liceo dove
mio padre ha insegnato per anni. “È il nostro Parlamento!” mi ha risposto
prontamente. “Bello, eh?”, ha aggiunto soddisfatto.
Nairobi Town |
Con quella frase ho capito tante cose. Ho capito soprattutto
che i ragazzi del Kenya hanno il diritto di essere educati al bello, ma che è
difficile, se ne sono circondati solo parzialmente.
A Napenda Kuishi, invece, Padre Maurizio ci ha mostrato la scuola che sta costruendo. È una scuola
ben curata, luminosa, costruita pensando a chi ci dovrà vivere e con delle
comodità al suo interno che noi diamo per scontate e che sembriamo dimenticarci
che anche in Kenya lo dovrebbero essere altrettanto. Con i soldi avanzati dal
budget, padre Maurizio ha fatto costruire un caminetto nella sala comune,
perché a Kibiko gli inverni sono freddi e – diciamolo – non c’è nulla di meglio
che sedersi davanti a un fuoco la sera, quando fuori c’è il gelo.
Davanti a quel caminetto che presto sarà in funzione,
Maurizio ha dato voce a quella che era stata la mia riflessione il giorno
prima: “Non è che perché una persona è povera, allora va bene qualunque cosa.
Il bene lo si fa bene, o non lo si fa affatto. Se io non voglio più un paio di
scarpe vecchie, perché dovrebbe andare bene a un altro? Se una scuola è brutta
e spoglia e io non ci studierei mai, perché dovrebbe volerci stare un’altra
persona? Proprio perché abbiamo le possibilità e le competenze, dobbiamo
invece impegnarci a offrire qualcosa di
bello”.
D’altronde La bellezza salverà il mondo, diceva
Dovstoevskij. Come dargli torto?
Scuola professionale per i ragazzi di Korogocho |
Sono stati cinque minuti di conversazione, ma mi ha
fatto comprendere che non è importante fare la carità, se prima non si fa la
giustizia. E la giustizia vuol dire anche e soprattutto esigere che tutti
vengano trattati e possano vivere con la medesima dignità. La giustizia sociale
è un atto politico. Un atto politico che parte con il mettere in campo i propri
talenti e stare dove è giusto essere. Non tutti devono fare scelte radicali,
non è necessario che tutti emigrino in massa nel Terzo Mondo e diventino
missionari. Si può fare missione anche stando a casa propria a fare un lavoro
che nulla ha a che vedere con quello del prete missionario. Si può fare
giustizia anche nella propria città, mentre si studia in biblioteca e si
ingolla un caffè pessimo delle macchinette. Fare missione e fare giustizia sono
stili di vita. In entrambi i casi, viene chiesto di non rimanere indifferenti
davanti alle ingiustizie, ma piuttosto di aiutare qualcuno a sviluppare i
propri talenti. Senza voler essere santi, martiri o eroi.
Giustizia, nel mio caso, è chiedermi perché Korogocho e le
baraccopoli del mondo esistano, quale sia la loro funzionalità, quale tipo di
economia alimentino e alimenti io, con il mio benessere e il mio stile di vita.
Mi chiedo da settimane se esiste qualcosa che possa fare per mettere in
discussione il sistema in cui sono immersa.
Alex Zanotelli, il primo comboniano a Korogocho, scriveva:
“Questa dimensione politica va vissuta fino in fondo,
altrimenti si rischia, anche come missionari [o cantieristi, direi io!], di
fare il gioco del sistema. E se la si vive fino in fondo si cessa di essere
eroi o santi, per diventare i disturbatori dell’ordine costituito”.
Come cantieristi ha senso cercare di
diventare disturbatori dell’ordine costituito?
P. S.
Cinque minuti è anche il tempo con cui un meccanico,
in Africa, ti dice che riparerà il pulmino che non riparte dopo la visita al
centro. Siamo bloccati a Napenda Kuishi, ma ci dicono che ci vorranno solo
cinque minuti.
E come occupare questi cinque minuti?
Per prima cosa, chiacchierando e organizzando i turni della
settimana.
Poi prendendo in mano due palloni sgonfi, tirando in mezzo i
ragazzi del centro e l’altro gruppo di italiani che è venuto con noi e dando
vita alla più grande partita di calcio Chapati vs. Ugali che
Kibiko abbia mai visto. Cinque minuti in cui si possono fare incontri diversi e
in cui la vita si mette in mezzo costringendoti a cambiare i piani che avevi.
Alla fine cinque minuti diventano ore. Perché cinque minuti
in Africa non sono i cinque minuti a cui sono abituata a Milano. Se anche
cinque minuti diventano quattro ore, non fa niente. Non muore nessuno e si
aspetta. Perché a volte sembra così difficile ricordarlo mentre scrivo pagine
di tesi al PC, stampo articoli scientifici e bevo caffè alle macchinette?
Silvia Brambilla
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