mercoledì 5 settembre 2018

Mombasa. Grandi occhi profondi

John è di media statura, ha il viso tondo ed è rasato: la migliore scelta per lui quella di rasarsi per evitare di impiegare troppo tempo a curare i suoi capelli fitti e crespi. John è keniota quindi la sua pelle è liscia e scura come la notte. Ha due occhi grandi John, profondi ed eloquenti: a delle volte sembrano tristi, altre volte sembra che ridono in maniera sincronica insieme al suo sorriso che non è perfetto, John non può mica permettersi l’apparecchio ai denti, ma va benissimo lo stesso perché è bello già così. Ad ogni modo, i suoi grandi occhi profondi raccontano qualcosa, qualche volta cantano note di gioia, altre volte chiedono aiuto, ma non vi è mai una volta in cui i suoi grandi occhi profondi non esprimano qualcosa. Sotto l’occhio destro ha una cicatrice John, non so come se la sia fatta o chi ne sia il colpevole: preferisco pensare che sia stata la vita per evitare di considerare l’ipotesi che sia stato qualcuno, che dietro a quella cicatrice ci sia un nome. I passi di John, piccoli e scalzi, hanno incrociato il mio cammino e hanno fatto un pezzo di strada insieme lungo 23 giorni. John, infatti, ha circa 9-10 anni, è un bimbo e la sua casa è il Mahali pa usalama, il centro di prima accoglienza per bambini vittime di abusi, violenze o di situazioni famigliari critiche, rescue center presso cui ho passato la mia “vacanza alternativa” da volontaria. Il Mahali è pieno di storie, drammatiche e crude, violente e buie: qualcuno ha subito abusi sessuali tra le mura di casa, qualcun altro ha visto i genitori attaccarsi a bottiglie di alcol, altri a Mahali, ma vivono tutti sotto lo stesso tetto nell'attesa che il processo legale che li riguarda venga portato a termine. Il Mahali non è un posto propriamente accogliente: chiunque si aspetti una grande casa allegra e colorata adatta a bambini, è totalmente fuori strada. È molto anonimo e spesso puzza però ha un grande cortile e degli spazi adibiti al gioco. Lì i bambini sono l’ancora di loro stessi: non solo si fanno compagnia, ma si aiutano, hanno attenzione l’uno dell’altra e affrontano le difficoltà laddove gli adulti non sono in ancora non sanno neanche dove siano mamma e papà. Sono diversi i background dei bambini che entrano al grado di rendersi conto che è ora di intervenire. È curato interamente da bambini che considerano quel posto la loro casa: puliscono, cucinano, lavano la biancheria. Ma sono pur sempre bimbi, quindi ad una certa è ora di giocare, che si aprano le danze: al ritmo di “Make a circle, big big circle” iniziamo ad animare il cerchio con i bans sia in italiano che in swahili, poi si gioca. Ecco, una delle cose che mi ha incredibilmente stupita è il modo di giocare: una mattina si sono divertiti da matti, sembravano che stessero facendo il gioco più grandioso di sempre e alla fine? Giocavano solo ad “Un, due, tre, stella!” e ridevano anche, divertiti e competitivi. Ho amato sin da subito il modo di giocare con poco di questi bambini, di sapersi divertire, di saper apprezzare. Probabilmente hanno insegnato più questi bambini a me che io a loro, per questo ogni giorno ringrazio il cielo di averli messi lungo la mia strada. Da loro ho imparato la tenacia e la pazienza di chi affronta un percorso che ha più interrogativi che certezze; ho imparato che la speranza va coltivata proprio bei terreni più ardui e che 
è l’unico motore che a volte rimane; mi hanno insegnato che a volte i colpi più bassi puoi prenderli dalla tua stessa famiglia, quella che io ho sempre pensato come il nido più sicuro al mondo, e che invece può essere luogo di violenza e difficoltà. Ho imparato che a delle volte ti svegli con l’umore giù, con un dolore che ti spegne, che ti fa passare la voglia di giocare e ho imparato che quel dolore va piano piano elaborato, realizzato e mai soffocato. Mi hanno insegnato che “Un, due, tre, stella” è divertente,  che costruire corone di cartone di giallo può farci sentire re e regine per un pomeriggio anche se stiamo indossando vestiti sporchi e che ballare in cortile può essere  emozionante, e chi se ne frega se nel frattempo arriva la pioggia estiva, loro non si fermano. Ho imparato da loro che aver incontrato le persone sbagliate nella vita non sempre significa perdere fiducia nell'umanità: stupisce il modo in cui ti toccano, ti abbracciano, ti cercano, chiedono silenziosamente le tue cure nonostante siano stati feriti da altri uomini e donne proprio come noi. Mi hanno insegnato che a volte la vita picchia non solo gli adulti forti che sanno come rialzarsi, ma picchia forte sul viso di un bambino, sulla sua innocenza, sulla sua vulnerabilità. E mi hanno  insegnato che ogni colpo può essere incassato restando in piedi, saldi al suolo. Per questo mi sento in dovere di ringraziare John, e con lui anche Brian, Michelle, Richard, Habu, Arnold, Badi, Hamisi, Hassan, Patience, Ali, Lois, Albina, Fatima, Faith e tutti gli altri bambini che hanno incrociato la mia strada, che hanno camminato con me tenendomi la mano in queste settimane di stupore e meraviglie e che silenziosamente, nella loro amorevole umiltà, hanno segnato ed insegnato. 

Ileana

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