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venerdì 13 settembre 2019

Serbia. Nuvola

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Vorrei raccontare una storia che nasce nel campo di Bogovaᵭa. Mi chiamo Claudia, ma nel campo il mio nome suonava più "Kelodia" o "Kalaudi" e un giorno un ragazzo mi ha chiesto di ripeterglielo così tante volte, che alla fine gli ho risposto "Claudia, it sounds like cloudy, you know? When the sky is full of clouds..." e lui ha replicato "Ahhh, so you fell down from the clouds! How's the world from up there? Are there borders?". Beh, ora potete immaginare di che storia si tratta.

Sono una nuvola e non mi chiamo. O meglio, gli uomini mi chiamano nuvola ma io non mi chiamo. Sono aria, sono acqua, sono polvere durante le tempeste, sono fuoco quando mi attraversa il Sole. Sono in cielo da molto prima che comparisse l'uomo e, nonostante i suoi deliri di onnipotenza, lo seppellirò. Ho visto la terra, i fiumi, i laghi, tutti i mari e gli oceani. Ho visto anche il deserto. Viaggio con il vento e per me esiste solo il presente, un attimo fa la mia forma era diversa, tra un attimo cambierà ancora. Da quassù la Terra non ha confini, l'uomo costruisce muri, abbatte ponti, sbarra porte, ma niente ferma la speranza.


Mi chiamano nuvola e mi disegnano, con quel solito bordino intorno per evidenziare bene dove finisco. L'uomo ha bisogno di delimitare le cose, di definirle con cura, ma io non posso essere disegnata, definita, delimitata. Limitata. L'uomo ha una paura sconfinata dell'indefinito, dell'infinito. Paradossale, no?

Sono una nuvola e non ho confini, e forse è per questo che non riesco a vedere nessun confine sulla Terra, e quando me li raccontano sembrano qualcosa di così assurdo! I confini non li vedo, il dolore che creano però sì. La diffidenza, l'odio, l'indifferenza. Questi confini sono visibili persino a me, da quassù. Sono confini subdoli perché non sono fisicamente evidenti, e serve lo sforzo di ogni singolo uomo per abbatterli, nessuno può voltarsi ed ignorarli.

Sono una nuvola e sul cielo di Bogovaᵭa oggi mi apro a far passare la luce. Che sia un pomeriggio leggero.


Claudia

martedì 3 settembre 2019

Serbia. “Mi troverai nel parco, su quella panchina”

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Cara Halat,

avrei voluto salutarti con un abbraccio venerdì e invece ho in mente il tuo viso dolce che si affaccia dalla finestra della stanza nel campo profughi di Sid e mi saluta commossa, fisicamente distante ma emotivamente vicina.

Da quella finestra ringrazi tutti noi cantieristi per essere stati con voi in queste settimane, e io non so cosa replicare. Sono sprovvista di parole. Avevo preparato un biglietto che avrei voluto darti di persona. C’era semplicemente scritto “Thank you for the time spent together. I hope the best for you and your family”. Ma non c’è stato il tempo, né la possibilità.

Di fatto siamo state insieme due pomeriggi. Poca cosa, se si quantifica il tempo; un Dono immenso, se si qualifica il tempo. Ed è proprio con la seconda opzione che scelgo di guardare il tempo trascorso insieme.

Sei stata per me un Dono, un Dono grande, soprattutto per la fiducia che hai saputo darmi. La domanda “What is home?” ci ha accompagnato per tutto il Cantiere e una delle parole con cui mi sento di rispondere è: “intesa”, quell'intesa che c’è stata fin da subito tra me e te, un’intesa che va oltre la lingua che si parla, un’intesa fatta di sguardi e sorrisi che quando c’è ti riporta a “casa”. 

Ricordo con affetto uno dei primi giorni al campo di Sid quando sei uscita dal “beauty saloon” con la tua mamma e la tua sorellina per mano. Ti sei avvicinata a me con un sorriso limpido e raggiante e mi hai mostrato le unghie che ti eri appena fatta. Mi sono complimentata con te con un banalissimo e accentuato: “Wooooooow… Wonderful nails” che ti ha fatto ridere tanto e ha fatto scoppiare a ridere anche me.

I giorni seguenti comparivi e scomparivi dalla finestra della stanza tua e della tua numerosa famiglia. Ci guardavi mentre eravamo impegnati a giocare con i bambini nel campo profughi dove vivi da 45 giorni, dopo essere in viaggio da circa un anno, insieme a tua mamma, tuo papà e i tuoi sette fratelli. 

Hai osservato quanto bastava finché un pomeriggio ci siamo ritrovate come due amiche su una panchina al parco. Due amiche che hanno voglia di raccontarsi perché è da un po’ che non si vedono, due amiche che hanno voglia di isolarsi da quello che sta attorno perché la cosa a cui tengono di più è proprio quell'amica che hanno davanti e quello che lei ha nel cuore. 

Quel giorno non abbiamo parlato di profughi e di viaggio; abbiamo parlato di ragazzi, di cibo, di famiglia, di vestiti e di bellezza. Argomenti più o meno “futili”, eppure li sentivo così indispensabili quel pomeriggio a Sid perché ci hanno permesso di evadere, di andare davvero in un parco e di sentirci “a casa”. 

Non so se ci rincontreremo, non so se mangeremo mai quella pizza insieme, forse non saprò mai se tu e la tua famiglia avrete raggiunto la Germania, ma voglio farti una promessa. Ti prometto che custodirò i tuoi sogni e che ne avrò cura. Ti prometto che custodirò il tuo sogno di avere un ragazzo europeo, forse tedesco, alto, muscoloso e con gli occhi azzurri perché è così che adesso tu te lo immagini. Custodirò anche il tuo desiderio di farti qualche ciocca rossa ai capelli perché insieme eravamo d’accordo che sarebbe stata bene sui tuoi capelli neri e ricci. Ti brillavano gli occhi quando mi parlavi di tutto questo e io ero felice di ascoltarti.

I tuoi occhi espressivi si sono poi incupiti quando mi hai confidato: “I am not happy here”. È una frase che stride con la tua giovane età, che stride con tutto quello che ci eravamo dette il giorno prima. Ma è una frase che mi fa tornare alla realtà del campo profughi in cui vivi. Non sai quando partirai, non sai se partirai, non sai se mai arriverai a quella meta che tuo papà ha scelto per voi. È una realtà e una quotidianità faticosa per tutti, ma in particolare per te che scalpiti per avere una vita migliore e non ce la fai più a chiuderti in quella stanza e a guardare fuori da quella finestra.

Ma non voglio fermarmi qui e non voglio che tu ti fermi qui. Continua a sognare, Halat, e abbi cura di te come ragazza e come donna. Io ti prometto che ogni volta che avrai voglia di evadere mi troverai nel parco, su quella panchina. 

Ti abbraccio forte!

Martina



venerdì 30 agosto 2019

Serbia. Krnjaća

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Grazie ad una  testimonianza ascoltata sulla situazione dei migranti della rotta balcanica e alla mia voglia di “mettermi in gioco” e non stare solo a guardare   ho deciso di partire con Caritas in un campo profughi in Serbia, sapevo che sarebbe stata un’esperienza di crescita, ricca di emozioni e “forte” ... ma non pensavo così tanto!

Lunedì 5 agosto siamo arrivati (io e altri due ragazzi) al campo di Krnjaća ...



Un cancellone, una ventina di “Barrak” tutte uguali, asfalto, un muro che circonda tutto, ragazzi, famiglie con bambini (anche piccoli).... e in questo momento vengo sommersa da pensieri e domande: perché queste PERSONE sono obbligate a vivere rinchiuse in un campo e nella monotonia solo per il fatto che la loro unica sfortuna sia quella di essere nati in un paese “sbagliato” che non gli permette di vivere una vita dignitosa? Perché invece io sono libera di vivere nel mio paese?

Non ho trovato una risposta alle mie domande, ma ho capito che potevo “rompere” la loro monotonia e farli sentire per un attimo “liberi” e accolti.
Allora ci siamo subito messi all'opera organizzando diverse attività per ogni fascia d’età (giochi, tornei, attività creative, di beauty saloon, pittura, clown)...ogni giorno qualcosa di diverso.



All'inizio non è stato molto facile riuscire a coinvolgere le persone, soprattutto i giovani, ma appena hanno capito che eravamo lì per loro, per farli divertire e per divertirci le attività sono andate a gonfie vele.

È stato davvero bello vedere come di giorno in giorno riuscivamo a far nascere sui loro volti (e sui nostri volti) dei bei sorrisi ed instaurare con loro dei legami...
I bambini iniziavano ad abbracciarci, a darci la manina, a seguirci, a correrci incontro, a giocare, a farci "scherzetti", i ragazzi e gli adulti iniziavano a raccontarci un po’ della loro vita e dei loro “sogni” e questi gesti ci riempivano il cuore di gioia perché nonostante loro stiano vivendo in un posto, in una situazione “triste” aprono il loro cuore e te ne donano un pezzettino.

                                       
Un grazie non basta!!
Good Luck e buon viaggio a tutti gli amici che ho incontrato.

Marta Leoni



giovedì 29 agosto 2019

Serbia. What is home?

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“Quest’estate vado in Serbia a fare volontariato in un campo profughi”. Queste parole hanno suscitato varie reazioni, non sempre incoraggianti, nelle persone a cui ho raccontato i miei piani per il mese di luglio. Queste spaziavano dalla sorpresa allo sgomento, dall'interesse e curiosità per il tipo di esperienza che avrei vissuto all'incapacità di comprendere perché volessi passare parte della mia estate in questo modo. Mi è stato chiesto se fosse sicuro partire per la Serbia, se non rischiassi niente all'interno del campo, se mi fidassi dell’organizzazione con cui partivo. Mi è anche stato fatto notare che “anche da noi in Italia ci sono persone che hanno bisogno”. Domande e osservazioni che sorprendono poco se si pensa ai tempi in cui viviamo oggi.


Il campo di Bogovadja – dove, insieme ad altri quattro volontari, ho svolto l’esperienza di due settimane nell'ambito dei “Cantieri della Solidarietà 2019” organizzati da Caritas Ambrosiana – non somiglia a quelli sovraffollati e dalle scarse condizioni igienico-sanitarie che ci si immagina solitamente. Si tratta di un luogo circondato dal verde, dove ci sono giochi per i bambini, campi da calcio, basket e pallavolo e un “Social Café”, gestito da alcuni degli abitanti del campo, dove questi si ritrovano per stare insieme e chiacchierare. Tuttavia, non bisogna fermarsi all'apparenza: le persone che vivono a Bogovadja si ritrovano spesso senza acqua ed elettricità, non hanno piene libertà, le loro giornate si somigliano tutte e trascorrono lentamente. Nel campo di Bogovadja sono tutti in attesa. In attesa dell’approvazione della loro domanda d’asilo e del permesso di soggiorno. Oppure in attesa di trovare il momento adatto per andare al game, ovvero per provare ad attraversare il confine e continuare un viaggio verso i paesi dell’Unione Europea iniziato mesi o addirittura anni prima in paesi come Iran, Afghanistan, Pakistan, Siria, Burundi, Somalia o Eritrea. 

Le storie delle persone che ho incontrato a Bogovadja mi hanno toccata in una maniera tale che sarà difficile dimenticarle. E lo stesso vale per i sorrisi e gli abbracci che tutti ci hanno regalato quotidianamente, la gioia e la speranza che molti di loro hanno negli occhi, la spensieratezza dei bambini e degli adolescenti, la voglia che hanno tutti di imparare e di lottare per costruirsi un futuro migliore. In particolare, mi hanno colpito le ragazze di neanche vent'anni che hanno intrapreso questo percorso da sole, le famiglie che hanno affrontato viaggi lunghi e difficili con bambini a volte piccolissimi, gli uomini che con tenacia tentano e ritentano il game più e più volte nella speranza che, prima o poi, sia la volta buona.


Tutte queste persone mi sono entrate nel cuore. Da quest’esperienza, porto a casa tutti i momenti passati insieme a loro: le mattinate trascorse a giocare insieme a Uno, a Jeenga e a Shangai al “Social Café”, i workshop con le donne all'insegna della creatività, le lezioni di italiano e inglese, le parole scambiate sui rispettivi paesi – e su come si conta fino a dieci in farsi – tra un’attività e l’altra, la giornata in piscina con gli adolescenti, i pomeriggi passati a giocare e ballare con i bambini. Porto a casa gli abbracci di S., gli occhi di K., la dolcezza di A., il “Me, want to play! Me, want to fight!” del piccolo S., la voglia di imparare di R., l’intelligenza di N., la meraviglia dei gioielli creati da R., la gentilezza di S., i sorrisi di N., la simpatia di M. Porto a casa le emozioni provate nel veder partire per il game F. che, dopo averci salutati con un “ci rivediamo in Italia, Inshallah!”, si è allontanato da solo tra gli alberi.

Mi porto a casa tutto questo. E rifletto sul fatto che io posso tornare a casa, liberamente e comodamente, viaggiando in aereo, semplicemente mostrando la mia carta d’identità o il passaporto e spesso senza neanche aver bisogno di un visto. Loro invece no. Loro hanno dovuto lasciare la propria casa e probabilmente non ci torneranno più. Viaggiano via terra e via mare per mesi rischiando le proprie vite e senza sapere quando raggiungeranno la propria meta. E questo perché il loro passaporto, fondamentalmente, non vale niente. Tornando a casa, penso a quanto siamo stati fortunati noi – perché, in fin dei conti, si tratta solo di fortuna – ad essere nati nella parte “giusta” del mondo, quella in cui i diritti, almeno sulla carta, sono garantiti, e non si rischia di venire perseguitati o di vedere i propri familiari morire in conflitti armati.

E improvvisamente mi viene in mente la domanda di F. che, vedendo sulla mia maglietta il motto dei Cantieri della Solidarietà di quest’anno, mi ha chiesto: “What is home?”, “Che cosa è casa?”. 

Per me casa significa famiglia, affetti, persone care. 

Per me casa sono i luoghi in cui sono cresciuta, i piccoli momenti quotidiani a cui sono abituata. 

Per F., invece, “Home is a dream”, “Casa è un sogno”.

Angelica Notaristefano

lunedì 26 agosto 2019

Serbia. Frammenti di vita

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"Ciao sono A. ho 4 anni e vengo dall'Iran. Sono venuta qui con il mio papà, la mamma non c'è.
Io e il mio papà stiamo molto bene insieme, lui si prende cura di me e mi fa i codini ogni mattina.
Insieme a lui stiamo cercando di trovare una nuova casa.
Non è facile, ci abbiamo già provato più volte, ma sembra sempre così lontana.
L'ultima volta che ci abbiamo provato, tu eri appena arrivata al campo, ed è per questo che il primo giorno non mi hai visto in mezzo a tutti quei bambini.
Mi piace molto giocare, colorare, mettere la musica e ballare. Non parlo molto, sono molto tranquilla e affettuosa".

Lei è A., una bambina di soli 4 anni che ho incontrato nel campo di Bogovadja, non so bene la sua storia, non so perché la mamma non sia con lei, non so se abbia paura o sia fiduciosa. Non so se capisca cosa stia vivendo e cosa sia il game.
So solo una cosa, che è una bambina, dolce, solare, che parla con gli occhi, il cui padre vuole portarla verso un futuro migliore.


"Ciao sono F. vengo dalla regione del Kashmir in Pakistan. Ho 32 anni e cerco un posto migliore dove poter lavorare e ricostruirmi una vita. Parlo molte lingue, più di 6. Al mio paese facevo lo speaker radiofonico. È così che ho imparato tante lingue. 
Mi piace giocare a pallavolo, stare in mezzo ai giovani, mi piace parlare e fare qualche partita a Jenga.
Ho fatto un viaggio molto lungo e ora sono fermo qui, in Serbia. Voglio cercare di arrivare in Bosnia, sai... lì ho un amico, per poi venire in Italia.
Sono già partito tante volte per il game, l'ultima volta mi hai visto andar via, per poi vedermi ritornare. Ho passato la notte nel bosco, senza bere né mangiare. Senza mangiare ancora ancora, ma senza bere... È dura sai! Quando ero lì solo pensavo a voi ragazzi, siete voi che mi avete dato la forza.
Ce l'avevo quasi fatta ma mi hanno preso e rispedito qui. Appena tornato ero molto stanco, ci sono voluti un po' di giorni prima che mi riprendessi.
Sono contento di essere in questo campo perché ci siete voi, voi siete miei amici e lavorate molto, con i bambini e con le donne, ma anche con noi, per rendere le cose meno brutte, Grazie.
Ah dimenticavo, ieri ti ho chiesto "what is home? Ci ho pensato: "Home is a Dream".
Lui è F. un single man (è così che si dice) ancora giovane, con la voglia di andare, non arrendersi e provarci fino alla fine. Un uomo coraggioso, che ha sfidato il game da solo. Un uomo segnato dalla vita ma che ancora la Vita la ama.

"Ciao sono S. Ho 29 anni e vengo dall'Iran. Sono qui da sola, o meglio con la mia bambina a 4 zampe. Mi piacciono molto gli animali, in Iran ho anche un gattino; mi manca molto. Mi piacciono gli animali perché sono migliori degli uomini. Loro se ti amano, ti amano e basta, senza riserva.
Condivido la mia stanza con ragazze Somale, con loro mi trovo bene, sono diventate mie amiche.
Le giornate qui sono molto noiose, sempre uguali. Non c'è mai niente da fare.
Posso portare queste cose in camera? Così finisco il lavoretto e non mi annoio."
Lei è S. una ragazza Iraniana molto bella, sempre in giro con il suo cagnolino. Parla inglese abbastanza bene. Il suo sguardo spesso sembra assente, sconnesso dal mondo, vuoto. Chissà cosa pensa, chissà cos'ha vissuto, chissà cos'ha visto.


Queste sono solo pezzi di storia di vita di alcune delle persone che ho incontrato nel campo. Ce ne sono a migliaia, a Bogovadja in Serbia, in Bosnia, in Grecia, in Italia, in giro per il mondo.
Sono tutte persone accomunate dalla volontà e dal diritto di desiderare per loro e per i loro figli una vita e un futuro migliore.
Noi abbiamo la possibilità e la libertà di andare in Inghilterra o in Germania per cercare un lavoro più gratificante, perché loro no?!

Federica

mercoledì 14 agosto 2019

Serbia. Estate ai Caraibi? No, a Bogovadja!

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Quest’estate ho deciso di trascorrere due settimane in Serbia presso un campo di accoglienza per migranti, come volontario.

Un periodo breve effettivamente, forse troppo perché ne valesse realmente la pena. “Forse con quattordici giorni di ferie sarebbe stato meglio rilassarsi in qualche spiaggia tropicale e non pensare a niente..” riflettevo tra me e me nel viaggio in macchina prima di raggiungere l’aeroporto di Linate.

Il primo impatto con il campo poi non è stato neanche tra i più positivi. 
Disperso tra verdi colline, non molto distante da una piccola cittadina di nome Valjevo, mi è parso una sorta di oratorio frequentato da individui che per ovvi motivi sembravano per lo più schivi e poco socievoli.
E l’idea di dovermi improvvisare animatore in un contesto del genere risultava quanto meno forzata.


Tra una mattinata trascorsa a dipingere un cartellone con dei ragazzini provenienti da diverse parti dell’Asia, un pomeriggio passato a giocare a calcio con solo qualche adulto interessato tra le decine presenti nel campo e ore intere spese a tenere a bada bambini alquanto vivaci;

il tempo è volato piuttosto in fretta.

Ma sono stati i momenti non programmati, le chiacchierate spontanee e  disinteressate che mi hanno fatto conoscere più da vicino alcune di queste persone.

Ho conosciuto Amir, uomo iraniano dall’animo spiritoso e amante dei selfie. Nel primo incontro si è soffermato più volte a raccontare e descrivere  le bellezze naturali e architettoniche della sua città; lasciando però trapelare un senso profondo di malinconia. Abbandonare tutto, perché contrario alle imposizioni del regime islamico, non deve essere stata una scelta facile da prendere.

Ho conosciuto Reza, artista eclettico capace di tenerti incollato sulla sedia usando un semplice filo di alluminio e uno di rame. Non pensavo che potessero bastare per riuscire a fabbricare stupendi braccialetti.!

Ho conosciuto Daniel, bambino ormai quasi adolescente, apparentemente allergico all’acqua della piscina che dopo aver indossato i miei occhialini , seppure al contrario, è riuscito a nuotare per qualche bracciata.
Per sua felicità ho deciso di regalarglieli.. per mia felicità ha promesso che da ora in avanti li userà nel verso corretto.

Ho conosciuto Zahid, ragazzo pakistano volenteroso e determinato che per arrivare fino in Serbia ha percorso lunghi tratti a piedi, giorno e notte senza sosta,  seguendo quella rotta balcanica tanto battuta dai migranti.
A dir la verità Il suo viaggio è tutt’altro che finito.
“Ci rivediamo in Italia!” sono infatti state le sue ultime parole mentre ci salutavamo.

E con un po’ di emozione ho salutato  anche tutti gli altri migranti del campo. 

Persone tra loro molto diverse, temporaneamente  parcheggiate a Bogavadja, e in attesa di ottenere dalle autorità locali un permesso di tre giorni; così da poter sfidare nuovamente la sorte e superare i confini serbi.

“In bocca al lupo per tutto!” .. non mi resta che augurarvi!

Andrea

martedì 23 luglio 2019

Chi è un migrante?

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S. ha 4 anni, ha sempre voglia di giocare e abbraccia tutti dicendo "me want to play";
K. , quasi 14 anni , mi fa gli agguati con i gavettoni;
K. ,11 anni, partecipa a tutte le attività e aspetta con ansia i cantieri della solidarietà;
S. 8 anni ha paura di nuotare ma si fida di me e degli altri volontari e ci prova lo stesso;
S. 14 anni, ha la fidanzatina serba con cui esce a mangiare il gelato;
M. ha 40 anni, ma gioca come se ne avesse ancora 10.;
F. fino all'anno scorso viveva in un campo e adesso lavora per l'iom nello stesso campo come traduttore;
S. , 30 anni , mi ha convinta a fare il bagno in un fiume serbo gelato tenendomi per mano.


Che cosa hanno tutte queste persone in comune ? Sono tutti in Serbia. Sono tutti fuori dal loro paese. Sono migranti o richiedenti asilo. Alcuni di loro aspettano da anni in un centro in Serbia o solo il momento giusto per provare il "the game". Per cosa? Per entrare in Europa?Perché ?

Perché la ruota della fortuna non è girata dalla loro parte questa volta. Fossero nati in un paese dell'area shengen avrebbero, come un cittadino qualunque, potuto scegliere un altro paese dell'unione dove andare a vivere. Invece il destino , la vita , ha deciso che queste persone dovevano nascere in un paese che non rispetta i loro diritti umani, non gli permette di vivere una vita dignitosa, che magari ha la guerra o che più semplicemente è invivibile per colpa del cambiamento climatico.



Ma perché sono alle porte dell' Europa e vogliono entrare illegalmente con questo game ? Non si possono comprare un biglietto aereo? No. Magari hanno un passaporto inutile debole che non gli permette di viaggiare in nessun paese se non in Dominica e St.Vincent and the Grenadines (ndr: io non sapevo neanche dell'esistenza di questi paesi) .

Al campo di Principovac

Ebbene. Mentre io negli ultimi tre anni ho conseguito una laurea, fatto un Erasmus,sono partita per il servizio civile S. ha iniziato la sua adolescenza nel campo di Bogovadja. Ha visto molte persone trasferirsi a vivere nella stanza accanto alla sua nel centro, e ogni giorno con la sua famiglia attende che venga accettata la richiesta d'asilo. E non può fare un semplice sleepover con le sue amiche, perché non avrebbe dove ospitare le sue amiche. Q., invece, non può mangiare quando vuole il suo piatto preferito, perché nel campo non puoi cucinare quello che vuoi tu, è la mensa che da cibo a tutti. Ma sostiene di essere un gran cuoco.

Mentre tutte queste vite scorrono, ai confini dell' Europa ... Nell' Europa si discute su come gestirle, su chi fare entrare e chi no. C'è chi c'è l ha con loro solo per il fatto che esistono .

Ma poi chi sono quessti migranti? Migrante è semplicemente chi vuole vivere una vita dignitosa, che vuole avere e vedere un futuro per se e per i propri figli. Migrante sei anche tu, italiano , che leggi questo articolo da Londra mentre fai il pizzaiolo o che lavori in Svizzera per mantenere la famiglia. Migrante sono anche io, che da Reggio Calabria sono andata a studiare a Milano, e probabilmente a "casa " non ci tornerò mai.



In questi giorni in Serbia, tra un gavettone e un piede nel fango ho capito che il destino può farti nascere privilegiato. Ma tu con le tue azioni puoi fare girare la ruota, ripararla o addirittura sostituirla con quella di scorta aiutando qualcun'altro.

lunedì 22 luglio 2019

Looking for a future

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Have you ever been grateful for your present and what you have? If not, it's the rightful moment to do it. Our world is so diverse and at the same time controversial: on the one hand, we live great technological progress through which we can aspire for new peaks. On the other hand, we are so limited by the issues of our material world and constantly chasing money without having a look at the world we leave behind. Every single move we make, every action has an impact not only on our planet but on people as well.
Bans with children of Bogovadja 
You've probably noticed the wave of migrants that have taken up entire Europe and I reckon that you've complained a lot about them. However, they are not to blame for being born with another skin color, in a different religion and country. Serbia deals with a great number of migrants from all around the world. Imagine losing your home and your beloved. Wouldn't you look for the hope of a better life or would you be mentally and physically stuck in the past? Think about the background and the circumstances these people were exposed to before judging. The experience I shared in Serbia in its camps for refugees has given me a larger prospect of life and the obstacles one may encounter. It's a purpose or barely the strong will to live that encourages them to wake up every morning and find forces to go on and never back. They are also people with the same rights and responsibilities as me, like my neighbor, as you, dear reader.
'I want to live, I want to play' is the phrase of the child from the camp of Bogovadja that shook up my inner world. It made me understand the real purpose of me there: through little actions, I can bring big smiles. Actually, it is everybody's duty to have a contribution and take attitude. Step out of your comfort zone and realize that the world you live isn't smooth or pink. Be grateful for what you have today, but don't forget you have the privilege of a decent future just thanks to fate and the country you have been born in. Be the change and give others the choice have a home, a family and live the life they want without the fear that tomorrow may never come. Help them build the future everybody deserves.




This article was written by:

Gabriela Țurcanu, volunteer of "young Diaconia Chisnau", who took part in this experience in Serbia.

lunedì 21 gennaio 2019

Il futuro: tra privilegio e necessità.

3 commenti:


Circa quattro mesi fa finivo un anno di servizio civile in Moldova con il cuore gonfio di mille sensazioni, denso di gratitudine e un po’ appesantito dalla fatica di chiudere un’esperienza che mi ha cambiata profondamente: riconosco che il lasciare andare con serenità (persone, esperienze, eventi...) non sia qualcosa che appartenga in modo particolare alla mia personalità. 

 Chiudevo quest’esperienza con un pensiero che mi pulsava in testa dopo avere incrociato tante storie e aver conosciuto la vita di un paese che vive un presente che riesce a fatica a proiettarsi al di là del domani, un paese in cui un numero crescente di cittadini non intravede alcun futuro e decide di emigrare

Il futuro è un privilegio: è un privilegio poterlo immaginare, sognarlo, disegnarlo a seconda delle proprie spinte, è un privilegio potersi proiettare in dei sogni più o meno romantici e, personalmente, lo ritengo anche un diritto di cui, evidentemente, non tutti possono godere.

Oggi, 4 mesi dopo, mi trovo in Serbia a lavorare in un campo per richiedenti asilo, uno di quei campi aperti in risposta all’”emergenza” creatasi lungo la rotta balcanica.

Oggi più che mai quel pensiero risuona dentro di me. In questi giorni di rabbia e tristezza, in cui l’impotenza, la sento sempre più forte, sento la necessità di condividere quel che mi passa per la testa.  Ammetto che, da quando condivido gran parte della mia quotidianità, in questo pezzettino di mondo, con circa 130 persone, la mia testa è un crocevia disordinato di pensieri, riflessioni ed emozioni contrastanti in cui, molto spesso, fatico a fare ordine.

Proprio oggi una famiglia curdo-irachena, dopo una serie di vicissitudini, ha dovuto lasciare il campo per spostarsi in un altro campo in Serbia. M, 11 anni, la figlia più grande mi ha guardato con i suoi occhi profondi  dicendomi: “ Me, no like to go”.

M. É nata nel Kurdistan iracheno, ha 11 anni e non sa scrivere: proprio ora sta imparando, ma in cirillico. Nel frattempo, però, si arrangia con il persiano che ha imparato nel campo, con il serbo che sta imparando a scuola, con il curdo, la sua lingua madre, e con un po’ di inglese... Oltre a stupirmi, ogni tanto, con qualche parola in italiano (imparata probabilmente origliando qualche mia conversazione).

Non riesce a stare nelle regole e più volte mi ha portata al limite della sopportazione, se dovesse partire “Let it go" di Frozen è bene starle lontani perchè non riesce a contenere il suo entusiasmo, attacca briga molto facilmente perchè non riesce a gestire tutto quello che le passa dentro ma, nonostante questo, mi ha conquistata dal primo giorno, con i suoi occhi incredibili e con i suoi slanci d’amore palesati in baci appiccicosi e in abbracci che tolgono il fiato... Appena ha qualche seme di girasole lo offre a mezzo campo (le tasche della mia giacca da lavoro si stanno riempiendo a vista d’occhio), ad ogni compleanno arriva nella nostra stanza urlando per chiedere un foglio dicendo ”Today happy birthday + nome del festeggiato”, ci mette sempre tutta se stessa per farsi capire e mal che vada si usa Google Transate Curdo/Italiano.

Oggi ho mandato a quel paese ogni cosa imparata sui libri di servizio sociale. ”Lisa, me today go another camp.” Non coinvolgimento, what?

E allora io mi chiedo: ma che futuro stiamo dando  a queste generazioni? Ma come riusciamo ad essere indifferenti a questo pezzo di storia così triste? Come riusciamo a riempirci la bocca di “ma”? Come possiamo permettere che (per la maggior parte di queste persone) l’unica via per entrare in Europa sia una via illegale dopo avere passato mesi o anni in viaggio, rischiando la vita e spendendo i risparmi di una vita ( e più!!!)?

Vite sballottate da un campo all’altro, mosse come fossero pedine di un gioco da tavolo.

Personalmente ritengo che il futuro parta da lì, da come riusciamo a prenderci cura della vita che cresce, da quali radici riusciamo a dare a questi bambini che un giorno saranno uomini e donne e che, a loro volta, saranno responsabili di scelte da fare e di altre vite.

A.Appadurai nel suo saggio “Il futuro come fatto culturale” mi aveva stregata nella sua lettura rivoluzionaria di futuro in cui non lo vede semplicemente come un possibile scenario dell’avvenire ma come un elemento base delle collettività che, attraverso questo, riescono ad elaborare delle strategie di adattamento e di sopravvivenza in una realtà che è spesso dominata da delle forze impersonali.

Oggi va così, la tristezza e la rabbia hanno preso il sopravvento su tutto il resto.

Domani, però, cercherò di trasformarla in una forza motrice tra un lavoretto, una chiacchierata e qualche nuova parola di persiano e arabo, per stringermi al coraggio di chi, nonostante tutto, il futuro lo cerca e lo vuole. 
Questo è per voi! Grazie.


Lisa.

sabato 3 novembre 2018

[Serbia] Chi sono i migranti? Persone da amare.

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Chi sono i migranti? Se ti dicessi persone come me e te non sarei sincero. Ho scoperto infatti che il migrante, pur assomigliandoci molto, è certamente diverso da noi: egli conosce il senso profondo della libertà, perché di essa è stato privato, e desidera ardentemente riconquistarla.

Nel campo di Krnjaca i bambini giocano tra le baracche, senza regole precise. Molto spesso scoppiano liti per un gioco conteso o per futili motivi, volano schiaffi e spintoni; un bambino scappa piangendo mentre l'altro riprende a giocare. Sono un po' selvatici i bambini di Krnjaca, sono simili a cuccioli che imparano a vivere facendosi spazio come possono, anche con le mani quando serve. Non si può certo dar loro la colpa, in fin dei conti molti non sono mai andati a scuola, mentre gli altri hanno ricevuto un'istruzione raffazzonata e discontinua, del tutto insufficiente perché la vita del campo non cancellasse quel minimo di educazione e di senso civico che tutti noi abbiamo imparato durante gli anni della scuola materna e di quella elementare.

I ragazzi sono il gruppo predominante. Tantissimi arrivano dall'Afghanistan, molti altri dal Pakistan, e poi dall'Iran, dal Ghana, dal Libano e persino dalla Cina.

Loro, al contrario dei bambini, sono di un'educazione e di una compostezza disarmanti. Molti parlano bene inglese, spesso meglio di noi, e danno prova di una curiosità e di una voglia di confidarsi che facilitano l'incontro. Scopriamo così che alcuni hanno iniziato un percorso di studi nel loro paese e ora vorrebbero continuarlo, spesso hanno un sogno nel cassetto, voglia di vivere, energia, forza fisica e mentale da spendere ma, al momento, sono chiusi in una striscia di terra, in un intervallo pallido di spazio e tempo dove ogni giorno sembra uguale all'altro, un tempo sprecato per una generazione che sembra persa.

Quasi tutti vogliono raggiungere l'Europa e ci provano di continuo, quando il tempo e le energie lo consentono. Pochissimi passano il confine, i più sono ricacciati indietro o scappano per non essere presi dalla polizia che, non si sa mai, può sempre decidere di tenerli per qualche giorno in questura, senza cibo né acqua, per far perdere loro la voglia di provarci ancora.

Liberi di proseguire, queste persone, non lo sono proprio. Così come liberi non erano nei loro paesi dai quali sono stati costretti a scappare per poter salvare la pelle, magari dopo aver visto la propria famiglia uccisa dai talebani o i compagni di scuola massacrati in qualche attentato terroristico. Molti ragazzi erano di buona famiglia e l'intelligenza delle loro domande esistenziali ci lascia l'amaro di non saper rispondere. Poche sono le persone fuggite per la povertà ma, mi chiedo, perché si dovrebbe far distinzione fra migrante economico o politico visto che la fame non lascia liberi e fa morti come la guerra.

Caro lettore, vorrei poter condividere con te la risposta, ora chiara per me, alla mia domanda iniziale ma mi rendo conto che la mia penna è limitata e non può trasmettere l'incontro che è avvenuto anche se continuassi a scrivere per altre cento pagine: sto pensando a volti che hanno nomi precisi e sentimenti e vocazioni proprie. 

Spero allora che ciò che non riesce ad esprimere la parola possa essere compreso dal cuore.

Chi sono i migranti? Persone da amare.

Stefano Polli

[Serbia] Questo, semplicemente, è ingiusto.

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“Li odio tutti, sono delle bestie, senza offese per gli animali che sono molto più civili e puliti”.

L’ultima settimana al campo si percepivano strappi strani fra la notte e il giorno. Di giorno capitava di sedersi vicino a un ragazzo qualunque e di sentirsi raccontare dei fratelli morti a scuola in un attentato, del papà minacciato dai talebani, della mamma con i fratellini piccoli di cui non si hanno più notizie, delle botte che avevano ricevuto il giorno prima, o la settimana prima, solo per aver tentato di oltrepassare un confine. Storie raccontate sempre con una voce calma, quasi leggera, in cui la sofferenza trapelava appena da qualche accenno. Non hanno mai chiesto il mio aiuto o la mia pietà. 
Poi alla sera noi volontari tornavamo a casa, si accendeva il cellulare, e si iniziavano a controllare le notizie provenienti dall’Italia. Nel nostro Paese erano i giorni del caso Diciotti. Una sera ho iniziato a scorrere i commenti sotto le notizie principali. Non avrei mai dovuto farlo. Non c’era solo l’affermazione che ho riportato in apertura: c’era una marea di offese, di insulti, di epiteti animaleschi con cui si aggredivano tutti i clandestini. Solo che non erano più dei semplici, generici migranti che sentivo attaccati: erano quei migranti. Quel ragazzo educato e triste, che non sapeva più nulla di sua mamma. Quello che mi offriva sempre la sedia quando entravo in una stanza. Quello con un sorriso smagliante, che era un asso della pallavolo. Quello che, una volta che mi ero fatta un leggero graffio alle ginocchia, è corso in camera a recuperare una salvietta per me. Quel ragazzo ventenne, rispettoso, dal cuore buono, che ogni volta che partiva chiedeva di pregare per lui il nostro Dio, perché avrebbe fatto lo stesso col suo. Quelli che, al di là dei gesti di cura, di bontà e di intelligenza che possono aver avuto per noi, al di là di tutti i loro meriti, erano comunque, con ogni evidenza, degli esseri umani, con tutto il bagaglio che questa affermazione comporta. Loro. Degli animali. Degli oggetti di puro disprezzo, buoni solo per buttarci addosso la polvere delle nostre scarpe. Delle cose che possono morire in silenzio, perché, per qualche motivo, valgono meno di noi.
Quando ho letto quelle notizie, così a bruciapelo, così poco tempo dopo aver parlato direttamente con loro, ho sentito salirmi in gola un magone furioso, una rabbia, un bisogno disperato di difenderli almeno dagli insulti e dagli sfottò che non avevano fatto nulla per meritare, di mostrare chi stavano coinvolgendo in quella bile indiscriminata. Se solo potessimo metterli insieme ad un tavolo, l’italiano e l’afghano, uno di fronte all’altro. Se facessero una sola partita di pallavolo insieme, forse si ricorderebbero che l’altro è un uomo, che sa sorridere, che sa persino voler bene a qualcuno.
Stando in Italia viene quasi spontaneo collocare, mese dopo mese, sempre più postille, eccezioni, limitazioni, “se” e “ma” alla questione accoglienza. Per quanto uno sia vaccinato contro il razzismo, aperto all’incontro con l’altro, culturalmente sensibile al mondo, è come se il fluire costante delle notizie rischiasse a volte di spingerci ad essere gradualmente sempre più cauti, più trattenuti dalla complessità insita nella questione. E la questione, senz’altro, è complessa. Ma se Krnjača mi è servito, con questa immersione tra figure umane, di contatto diretto fra occhi e linguaggi, è stato soprattutto a dare una sterzata improvvisa al discorso, un controbilanciamento nella direzione opposta: no, alla fine non è così complesso. Questi ragazzi partono da un Paese ancora in guerra, che solo per sfregio si può considerare pacificato, dalla morte, dagli attentati, dall’insicurezza, dalla chiusura delle loro scuole, dalla povertà; e per poterlo fare sono costretti ad attraversare dieci frontiere, mettendoci anni, spendendo i loro risparmi, consegnandosi nelle mani di criminali, rischiando di essere picchiati, truffati, respinti, e anche di morire. Non c’è davvero nulla di complesso in questo. Questo, semplicemente, è ingiusto. Complesso può essere organizzare l’accoglienza, immaginare un sistema che produca integrazione; più complesso ancora, sradicare le cause di un esodo di massa, come quello che sta avvenendo fra i giovani di Iran e Afghanistan. Ma difficile non è sentire che quel centinaio di ragazzi, che mentre scrivo sono ancora lì a consumare il loro tempo nel nulla, non dovrebbero essere lì, non dovrebbero essere percepiti come dei criminali a prescindere, e dovrebbero avere, molto più della mia compassione, il diritto ad un percorso diverso.

Ilaria De Regis

martedì 28 agosto 2018

Serbia. Le leggi del viaggio

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A Krnjača ci sono troppe persone e troppi nomi da imparare; nomi per lo più ostici alla nostra lingua, tanto da costringerci a trovare dei variegati equivalenti. Una galleria di soprannomi, dunque, è uno dei primi strumenti che abbiamo elaborato in questa settimana; una collezione di storie, di persone che si portano dietro molte e dure “leggi di viaggio”.

1: non mettersi mai in viaggio con fratelli, mogli, fidanzate, genitori.

Il Falso Teenager compare un giorno in sala computer. Alla prima richiesta di età risponde “sedici anni”, ma davanti a un bel sorriso esce dal suo guscio schivo, ammette di avere un viso da uomo e trent'anni, una moglie e due figli a casa. Non vede la sua famiglia da quattro anni; non sa quanti altri anni passeranno prima di un incontro. Dice di non aver visto crescere i suoi figli, di sentire la mancanza di un semplice contatto, anche fisico, con la sua donna, che non può toccare ormai da moltissimo tempo.

10: poter contare sull'aiuto di un amico speciale con cui si è partiti o di cui si è fatta la conoscenza durante il viaggio, e sulla cooperazione all'interno di un ristretto gruppo di persone che si affratellano.

Nell'ultima baracca in fondo al campo c'è una stanza di amici speciali. Sono in quattro, si sono conosciuti durante il viaggio, e si sono promessi di non lasciarsi mai. O partono tutti, o restano tutti: nessuno verrà lasciato indietro. Prendono questa promessa talmente sul serio che, durante l'ultimo tentativo di superare la barriera della polizia alla frontiera croata, il più veloce fra loro ha deciso di tornare indietro per non rischiare di far catturare (e picchiare) l'amico più lento.
Il ragazzo che corre in fretta si chiama Deejay: dj lo era davvero, produceva musica, e il suo account su Instagram aveva raggiunto un milione e mezzo di followers. Di famiglia benestante, pulitissimo, i modi garbati, ha dovuto prima subire la morte di due fratelli, in un attentato suicida, e poi un sequestro da parte dei talebani, di cui aveva attratto troppo l'attenzione. Gli è stato sottratto tutto: casa, proprietà, macchine, l'account da cui lanciava la sua musica. Poi i talebani gli hanno chiesto di fuggire e di non tornare più.
Così è partito, più veloce della polizia di frontiera, al punto da riuscire a scappare ai poliziotti iraniani che volevano bruciargli la spalla con un ferro da stiro, un segno di spregio per tutti i clandestini. Ha trovato un buco nel soffitto, e ha tratto in salvo anche tutti i suoi amici.

17: mantenere viva la convinzione del perché del proprio viaggio.

Per entrare in contatto con il Giornalista ci mettiamo un po' più di tempo: è un ragazzo giovane, dai modi e dalla voce delicati, di buona famiglia, quietamente introverso. Poi troviamo la chiave che sblocca il dialogo: la sua passione. Il Giornalista è scappato perché a Kabul non poteva più proseguire gli studi, che per lui sono una parte di esistenza non secondaria: “la cosa più bella dell'imparare”, ci scrive, “è che nessuno può portartelo via”. Con la sua istruzione, di qualità più alta possibile, il ragazzo vuole fare buon giornalismo: vuole cioè raccontare tutto ciò che avviene di sbagliato o di brutto, nel suo Paese o altrove, perché il mondo sappia.


Le leggi da cui abbiamo preso spunto per affiancarvi esperienze di persone realmente conosciute sono tratte da La frontiera, libro del 2015 di Alessando Leogrande. Lo scrittore riporta 28 leggi elaborate da Sinti e Dag, due rifugiati etiopi che ora vivono a Roma. I due, dopo averle sperimentate in prima persona durante il loro viaggio di migrazione, hanno deciso di appuntarle per mettere in guardia chi sarebbe partito dopo di loro.
Mancano ancora molte leggi e molte persone all'appello: l'Astrologo, Borsello, il Fashion designer, La Donna con la croce, Andrea. Forse anche a noi mancano ancora molti tasselli, molto più tempo perché i tanti spunti di riflessione si concretizzino in un'azione, in un pensiero precisi.

Colpisce, intanto, in tutti questi casi, l'enorme distanza fra ciò che queste persone erano e ciò che sono; la perdita degli anni migliori della loro vita spesi in questo viaggio; e, contro ogni nostra aspettativa, la compostezza educata del loro dolore, il riserbo discreto nel quale celano tutto il peso della loro storia.  

Giulia, Ilaria, Michela, Stefano

martedì 21 agosto 2018

Serbia. Cronache da Krnjača

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"Homo quisque faber ipsae fortunae suae".
Dopo 2 settimane di attività nel campo profughi di Krnjača, questa espressione latina continua a rimbombarmi in testa.
Ogni uomo è artefice del proprio destino. Fino a dove arriva la veridicità di questa affermazione?
Sicuramente raggiunge me, giovane lavoratrice italiana con una vita piena di tutte le libertà a cui la maggior parte del mondo occidentale è abituato, e i miei compagni di viaggio, che hanno la possibilità di inseguire i propri sogni in altre città italiane ed europee.
Purtroppo però si ferma alle porte d'Europa, dove profughi provenienti da diverse parti del mondo aspettano con pazienza infinita che qualcosa si sblocchi. A loro non è concesso di costruirsi un destino, pare che non siano meritevoli di un simile privilegio. Loro non possono costruire perchè impossibilitati da forze maggiori, perchè se vivi per mesi o addirittura anni in un campo profughi aspettando (non qualcosa, ma che qualcosa succeda) puoi avere solo sogni, i mezzi per realizzarli non esistono. O meglio, esistono eccome, ma tu non puoi usufruirne perchè qualcun altro te lo impedisce, perchè qualcuno si permette senza alcun diritto di rubarti il posto improvvisandosi artefice del tuo destino. Fino a dove quindi arriva la libertà di un uomo? Fino a dove posso immischiarmi nel destino altrui decidendo quando e come fermarlo? Chi stabilisce che io, cittadine italiana, senza essermi meritata una tale libertà possa costruirmi il mio futuro e che i miei coetanei afghani, iraniani, pakistani, palestinesi e siriani non possano farlo?
Tra poche ore ritorneremo in Italia, alla nostra solita vita, la nostra sì che è una pacchia! Ma Reza e la sua famiglia rimarranno qui, così come tantissimi altri. Come è possibile chiudere gli occhi e dormire sonni tranquilli?

Com'è difficile talvolta accettare di essere testimoni impotenti delle ingiustizie del mondo!
Quanto è difficile dover accettare di non poter fare di più di ciò che si sta già facendo!
Eppure il cambiamento parte dalle piccole cose.
In queste due settimane non abbiamo fatto nulla di speciale, o almeno così ci sembra, ma qualcosa è cambiato a Krnjača: in un luogo di dignitosa desolazione dove bivacca un'umanità sofferente e in perenne attesa, la vita ha ripreso nuovo vigore specialmente per le donne.
Donne per cui il matrimonio e l'essere madre non sempre sono una libera scelta; donne velate e svelate; donne per cui i figli sono eternamente il loro orgoglio e la loro angoscia.
Donne che solitamente rimanevano chiuse nella loro baracca per paura o semplicemente per apatia, a poco a poco hanno cominciato a prendere parte alla vita del campo, ognuna a modo suo.
Come la mamma di A. che ogni giorno partecipava alla gioia dei suoi figli guardandoli giocare dalla finestra della sua stanza e talvolta consigliandoci dei giochi. Come N. una signora afghana che dopo un po' di titubanza ha preso coraggio e si è buttata nella mischia a giocare con i bambini, senza curarsi troppo del suo velo colorato che cadeva o della sua età. Come la madre di J. che l'ultimo giorno ha portato per la prima volta il figlio a giocare assieme agli altri bambini, lasciandosi alle spalle la paura che potesse essere deriso o discriminato e guardandolo, forse per la prima volta, come un bambino normale.
Donne a cui è stata ridata dignità e libertà semplicemente attraverso un trattamento di bellezza casereccio.
Molto probabilmente queste persone si dimenticheranno presto di noi, dei nostri volti, ma spero che in loro rimanga vivo il ricordo di quei momenti di gioia; di quella sensazione di libertà, leggerezza e spensieratezza provata durante questi giorni.


Una storia ordinaria che ha come protagonisti 4 giovani ragazzi pakistani Z, J, A e M, che hanno abbandonato il loro paese, dove la loro esistenza era in pericolo.
Quattro amici da una vita, accomunati dalle stesse passioni: musica e sport, ma anche dalla stessa vita agiata nella loro città.
Accomunati dallo stesso viaggio e difficoltà: un anno attraverso diversi luoghi come l'Iran, le prigioni turche, i confini greci e il breve passaggio in Macedonia, fino ad arrivare qui in Serbia, bloccati.
Non hanno una meta ben precisa. Forse l'Italia, forse la Francia. Raccontano che l'unica cosa per loro importante è stare insieme, come all'inizio del loro viaggio. Non importa dove finiranno, se i loro sogni si realizzeranno; "they are my family". 

Il Sig. R. ....in Iran era un docente universitario, ma qui al campo di Krnjača chi è?
Durante il giorno lo si vede vagare fra le baracche del campo con lo sguardo perso in chissà quale ricordo o pensiero. Al campo vive da solo, non sappiamo se in Iran aveva o ha una famiglia o perchè sia fuggito. Ma al campo gli è stata data un'occasione per tornare ad essere il Professor R.
In una stanzetta della baracca 16, dove agli adulti è concesso uno spazio tutto loro in cui possono fare lavoretti manuali, corsi di lingue o semplicemente giocare a backgammon, il professor R. tiene un corso di calligrafia, la sua passione.
In quei momenti si illumina di nuovo. Scherza con i suoi studenti, li ammonisce se non hanno fatto i compiti a casa e si rivolge a loro chiamandoli "mister" o "miss" come se fosse tornato dietro la sua cattedra.
Il pennarello scorre sulla lavagna guidato da mani ferme e sicure e lo sguardo sia anima di una gioia che sembrava persa.
Si dice che il lavoro nobilita l'uomo, di sicuro permette ad un uomo la possibilità di fare quello che lo appassiona; è uno strumento per ridargli la dignità di essere umano.





Serbia4: Michela, Marianna, Benedetta e Stefano

domenica 19 agosto 2018

Serbia. Nella bolla di sapone

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Come una bolla di sapone. Dopo una settimana di lavoro, adesso che abbiamo avuto del tempo per fermarci e mettere in ordine domande e pensieri, il campo di Bogovadja ci appare proprio così: come una bolla isolata dal resto del mondo, dove anche il tempo scorre in modo diverso. Infatti, a dominare lo scorrere del tempo è l’attesa
Qui tutti attendono qualcosa, chi un visto, chi l’esito di un processo, chi l’occasione giusta per passare una frontiera, e così via. Ma tutti attendono, con la vita che nel frattempo è come congelata, in “pausa”, con la speranza di poter premere “play” prima o poi, magari in Europa.
A Bogovadja si incrociano tanti sguardi e si ascoltano tante storie: c’è qualcuno che cerca di raggiungere il papà, qualcun altro che vuole andare da suo fratello e altri ancora che viaggiano con tutta la famiglia. Tutti fermi ad aspettare.

E’ questa miscela di desideri e storie immersa in un luogo disperso nei boschi della Serbia dove il tempo sembra bloccato a lasciare addosso una sensazione di inquietudine a chiunque passi da Bogovadja, anche soltanto per qualche ora. Perché il campo è bello, immerso nel verde, spazioso, dove i bambini possono giocare, ma… Ma qualcosa non torna. Ogni giornata è identica a quella precedente, scandita dall’attesa.

Tutti fermi ad aspettare.
Intanto c’è persino chi nasce, chi compie gli anni e tra un po’ andrà all’asilo, ma intorno… Tutti fermi ad aspettare.
E ogni volta che una frontiera si chiude, o un visto viene negato, a Bogovadja il tempo rallenta.
Ed è qui che poco a poco iniziamo a intuire il perché del piccolo servizio che ci è chiesto. Perchè le giornate di Dina non saranno tutte uguali se domani potrà fare un nuovo braccialetto con le perline, e quelle di Noman saranno un po’ diverse se settimana prossima potrà giocare il torneo di pallavolo con i suoi compagni… E’ così che, ogni tanto, a Bogovadja il tempo ricomincia a scorrere, anche se per poco.

Claudia, Fabio, Francesco, Giulia, Silvia

(Serbia3)

martedì 14 agosto 2018

Serbia. I Viaggi

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I viaggi non sono stati mai facili come oggi. Paesi prima lontani ed irragiungibili sono ora vicinissimi; culture sconosciute e tenebrose diventano limpide e celebri. In poche ore possiamo attraversare oceani e continenti interi rimanendo seduti sul sedile di un aereo, di un treno o di una automobile. La fatica e gli investimenti di denaro e di tempo che i nostri antenati impiegavano per compiere brevi tratti, vengono oggi drasticamente diminuiti. Possiamo andare dovunque: Australia, Sud Africa, Cile, Stati Uniti, Cuba, Iran, Afghanistan, India; basta semplicemente puntare il dito su un mappamondo roteante ed in breve tempo, con una spesa variabile, possiamo essere nel paese indicato. Non abbiamo ancora la capacità di teletrasportarci ma poco ci manca.


C’è chi viaggia per lavoro, chi per divertimento e chi per turismo; c’è chi sceglie l’aereo, chi la nave, chi il treno e chi, più tradizionalmente, sceglie un’automobile, magari quella degli altri, come due ragazzi conosciuti nella nostra breve visita a Belgrado, partiti da Verona con il sogno di raggiungere il Nepal in autostop. Un viaggio lunghissimo, pieno di insidie ma anche di incontri irresistibili e di posti magnifici da visitare e vivere. Slovenia, Croazia, Bosnia ed Erzegovina, Serbia, Bulgaria, Turchia, Georgia, Armenia, Azerbajgian, Iran, Afghanistan, Pakistan, India e, infine, il tanto agognato Nepal. Un itinerario affascinante da compiere in circa 4 o 5 mesi. Un sogno, il loro, decisamente a portata di mano: basta avere voglia, costanza e tenacia. Un sogno che potrebbe incontrare un intralcio nella burocrazia pakistana che, per rilasciare un visto d’ingresso nel paese, richiederebbe un invito da parte di una persona residente all’interno del paese. Una problematica non da poco, incomprensibile per chi come noi è abituato a viaggiare senza alcun tipo di ostacoli. Non temete, sembrerebbe che questa insidia possa essere aggirata per mezzo dell’intervento della nostra ambasciata, abbastanza influente nella zona.
Anche scegliendo l’autostop, quindi, possiamo visitare centinaia di culture e paesi diversi, potendo così viaggiare per conoscere il mondo nelle sue mille sfaccettature.

Eppure, la realtà del campo profughi di Bogovada ci ha insegnato che non è sempre così semplice. Meglio, è facile per noi, occidentali, viaggiare verso le terre del medio oriente mentre non è certamente semplice per le popolazioni medio – orientali viaggiare verso l’Europa. Nel campo ci sono circa 160 persone: la maggior parte di loro sono iraniani ed afghani; ci sono famiglie, single – men ed anche minori non accompagnati. Ognuno di loro ha deciso di viaggiare verso occidente. Gli iraniani, mediamente più ricchi, grazie ai favori del governo serbo nei loro confronti (non viene richiesto alcun visto d’ingresso), hanno optato per un biglietto aereo diretto verso Belgrado; gli afghani, più poveri, hanno invece attraversato gli stessi territori dei nostri amici autostoppisti, più o meno con le stesse modalità, con la differenza di essere fermati, trattenuti, in ogni singolo territorio da loro attraversato. Tempo del percorso fino in Serbia? Dai 7 ai 12 mesi.
Sono due viaggi difficili ed impervi che richiedono molta pazienza e un ingente investimento economico da parte delle famiglie che partono o che foraggiano il viaggio. Oggi, chi in aereo, chi a piedi, si sono ritrovati insieme nella tappa Serba, forse l’ultima fermata prima del sogno Europa. Il loro sogno, il sogno di garantire a sé stessi o ai loro figli un futuro più dignitoso e sereno, ora è stato bloccato, reso quasi impossibile da quelle frontiere, cioè da quelle linee immaginarie che dividono diversi territori ma che così come sono concepite, creano disparità e sofferenza.

Questo breve testo è il risultato di una riflessione, più lunga e dibattuta, sorta all’interno del nostro gruppo di volontari, l’ultimo giorno, appena prima di prendere il nostro aereo che facilmente ci avrebbe riportato in Italia. Riflessione che vi lasciamo in eredità: perché noi si e loro no?


Serbia 2
Filippo, Giovanna, Stefania, Margherita, Federico


domenica 5 agosto 2018

Serbia. Tempo di ricordarsi

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Il Tempo.
Il tempo corre veloce, tra studio, lavoro, hobby, scadenze, competizioni costanti in un mondo, quello che viviamo noi in Italia, che sembra non voglia mai fermarsi. Il tasto pausa talvolta sembra non esistere.
Il Tempo.
Il tempo cammina lento a Bogovadja per gli ospiti del campo di transito. Un tempo scandito dai pasti, dalle sigarette, dai tentativi di pensare ad altro che non sia il futuro, forse nemmeno il passato, magari partecipando a qualche attività che stiamo proponendo noi volontari assieme agli operatori.
Il Tempo.
Senza vie di mezzo si passa dall'assenza alla totalità del Tempo, da una società a un'altra. Così, senza vie di mezzo, si passa da un mondo a un altro: da un mondo di possibilità, opportunità, scelte a uno in cui la scelta è una: andarsene, lasciare tutto e affidarsi. "Tutti i musulmani inseriscono Dio all'interno delle frasi" mi dice J., padre solo, con suo figlio dodicenne.
Affidarsi. Speranza.
In un mondo in cui le nostre vite sono precisamente calcolate e pianificate al dettaglio, con progetti a lunga, lunghissima data , affidarsi è ormai qualcosa di antico, lasciato ai ricordi di qualche anziano. Il tempo vuoto è un diamante raro.
Al campo il tempo è una lenta tortura. È l'appiattimento, è l'incertezza, la stanchezza, ti ruba più energie di una giornata di duro lavoro.
Il tempo.
Contrasti:in  un mondo che sembra globalizzarsi sempre più, che sembra sempre più essere Uno, esistono mondi così vicini, ma troppo lontani.
Speranza.
Ci sveglieremo forse un giorno e se avremo un pò di tempo, ci ricorderemo di restare umani. Di essere umani, tutti.

Serbia 2