venerdì 25 ottobre 2019

Aswat min al-sharq al-awsat/Voci dal Medio Oriente


Da ormai una settimana, numerose proteste infuocano il Libano all’interno di quello che è considerato uno dei più grandi movimenti di contestazione scoppiati nel paese. Le manifestazioni, iniziate giovedì sera dopo l’annuncio del governo di voler imporre una tassa sulle chiamate via app, si sono velocemente diffuse in tutte le regioni da nord a sud e hanno portato in piazza richieste e rivendicazioni derivanti da un malcontento diffuso tra la popolazione messa in ginocchio da una crisi economica in cui il paese sta sprofondando da diversi anni. 

Le poteste sono cominciate in maniera spontanea giovedì sera (17 ottobre) e non sembrano volersi placare in tempi brevi: nonostante l’approvazione – nella giornata di lunedì – di un piano di riforme straordinarie condiviso da tutti i vertici del governo, tantissime persone sono rimaste nelle strade delle città più importanti del Libano rifiutandosi di rinnovare la fiducia ad un governo corrotto e immobile di fronte ai bisogni di una popolazione sempre più in difficoltà.

Centinaia di migliaia di giovani, sia uomini che donne, sono i protagonisti indiscussi delle proteste di queste intense giornate. Un cordone di più di trenta donne ha presidiato per diversi giorni la folla a Riad al-Solh Square separando, di fatto, un ingente schieramento di forze di polizia dal resto dei manifestanti. L’immagine stilizzata della ragazza che giovedì sera – durante il primo giorno di proteste – ha colpito con un calcio una delle guardie ministeriali di Akram Chehayeb è diventata virale sui social ed è presto divenuta una delle icone delle rivolte di questi giorni. Moltissimi i cori presi in prestito dalle cosiddette “primavere arabe”, tanti gli slogan che prendono di mira ministri nello specifico come Gebran Bassil, dal 2015 leader del Free Patriotic Movement e attualmente Ministro degli Affari Esteri e Migrazione. 

In piazza non sono presenti simboli facenti riferimento a partiti politici ma solo bandiere libanesi: le dissidenze politico-religiose che hanno contraddistinto la società libanese negli anni della guerra civile e, più in generale, nel corso della storia contemporanea del paese, sembrano aver lasciato spazio ad una folla compatta e unita contro l’élite politica libanese, della quale si chiedono a gran voce le dimissioni. 

Il centro di Beirut, conosciuto come downtown, non è mai stato così vivo e popolato di gente: da anni ormai (e, più in generale, da quando negli anni ’90 è stata affidata la ricostruzione post bellica del centro città a Solidere, società in mano alla famiglia del Primo Ministro Hariri) politiche neoliberali di gestione dello spazio urbano hanno trasformato il centro di Beirut in una città fantasma, totalmente priva di spazi pubblici di aggregazione e completamente asservita allo sfruttamento capitalista guidato dalle élite libanesi e del Golfo che si sono spartite questi spazi.

La riappropriazione dello spazio urbano è diventato, dunque, un elemento chiave in questi giorni di proteste: Martyrs’ Square, la piazza antistante la moschea El-Amin e che da anni viene utilizzata come parcheggio, è gremita di gente che balla, canta, gioca a carte e fuma narghilè. Due edifici storici del centro, simboli della guerra civile, sono stati riaperti e occupati dai manifestanti: uno è un teatro costruito più di cento anni fa dall’architetto Youssef Aftimus e utilizzato come cinema a luci rosse durante la guerra; l’altro è il famoso cinema di forma ovale “The Egg”, la cui costruzione iniziò nel 1965 e che non venne, tuttavia, mai portata a termine. Questi luoghi sono diventanti, da un giorno all’altro, spazi di aggregazione e socialità a lungo negati ad una società civile tra le più attive in Medio Oriente: giovani e meno giovani vi si ritrovano improvvisando serate musicali, spettacoli di giocoleria e di danza dabke. Inoltre, giovani artisti animano le strade di downtown facendone rivivere gli spazi attraverso la street art. 

La rabbia e la frustrazione di un popolo, per troppo tempo represse da speranze e false promesse, sono esplose in un attimo: sui giornali qualcuno ha parlato della “rivolta di Whatsapp”, riferendosi al tentativo del governo di tassare una delle applicazioni più utilizzate nel paese, ma ciò che si vede per le strade di Beirut è molto più di questo. Tutta la popolazione libanese, capeggiata dalle nuove generazioni, è in piazza per reclamare un futuro diverso, in cui la migrazione all’estero non debba per forza essere inserita nella propria agenda e dove l’etichetta del confessionalismo, a volte troppo riduttiva rispetto a quella che è la complessità libanese, possa essere messa da parte per fare spazio a dei diritti civili slegati da qualsiasi appartenenza religiosa.

 





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