Oramai non ci fai più caso e non lo ascolti più da parecchi viaggi, ma questa volta non evito di sentire l’annuncio che dall’altoparlante recita “benvenuti a Port au Prince, vi auguriamo un piacevole soggiorno”.
C’è qualcosa che stona, si mantiene una normalità che già fa a pugni con i pochi scorci della città che sono passati sotto i finestrini.
Sì, perché non mi era mai capitato di vedere una città con solo tetti di lamiera arrugginita interrotti da enormi spazi occupati dalle tende degli aiuti internazionali.
Sì, perché non mi era mai capitato di vedere una città con solo tetti di lamiera arrugginita interrotti da enormi spazi occupati dalle tende degli aiuti internazionali.
Di gente nelle tendopoli ce n’è ancora tantissima, qualcosa si è fatto certamente, di aiuti ne sono stati mandati, ma la gran parte non sono ancora stati spesi, ci sono, ma Haiti non ha ancora un presidente e quindi mancando un minimo di regia è impossibile iniziare dei lavori strutturali, intanto la gente si arrangia come può e come purtroppo è abituata a fare da tanto, troppo tempo. Un anno fa ci sono state le elezioni, dalle quali sono usciti, non senza l’intervento della comunità internazionale, due candidati. Nei prossimi giorni ci sarà il ballottaggio la scelta è tra Martelly un cantante di musica locale che ha come spot elettorale e programma ha “tete kale” ovvero “testa rapata” vista sua brillante chioma, l’altro candidato è la signora Manigat, come curriculum può vantare di essere la vedova di un ex presidente, poco promettente per il cambio che Haiti ha bisogno, ma pure Martelly che si presenta come volto e chioma nuova non promette bene visto il populismo che spara dai suoi altoparlanti e più seriamente visto che ha già fatto accordi con il governo uscente, ad oggi lo danno come favorito.
Prima di uscire dall’ areo i saluti di rito delle hostess sembrano ritrovare un po’ di onestà intellettuale e tralasciato il bon ton aziendale e si lasciano ad un più sincero “take care”.
Saliti sull’auto che ci porterà a casa degli operatori di Caritas Italiana la città si offre per quello che dall’ alto promette: strade affollate, traffico di fuoristrada, i segni del terremoto sono praticamente ovunque, le tende sono disposte in campi organizzati dove da poco è stata messa l’illuminazione pubblica per cercare di limitare la criminalità. Ci sono altre tende che sono sorte spontaneamente un po’ ovunque, sono persone che erano ospiti da amici e parenti che hanno dovuto abbandonare questi posti ed ora si arrangiano ricavando qualche metro tra gli anfratti delle strade.
Chiacchierando con gli operatori di Caritas Italiana, ci descrivono la loro quotidianità; l’interazione con gli haitiani non è facile, la sicurezza mette distanze difficili da colmare, ma anche dove l’interazione è possibile lo stereotipo del bianco visto come portafoglio “gambe dotato” è forse la barriera ancora più grande. Inoltre gli abitanti di Port au Prince non sono entusiasti della presenza internazionale, il costo della vita è aumentato da quando ha ricevuto il personale espatriato, sulle strade martoriate e già affollate si è aggiunto il traffico dei fuoristrada delle varie agenzie che manda in tilt la circolazione. Lavorare per le ONG non è facile. L’interazione con la burocrazia Haitiana è pesante, i tempi si moltiplicano, si perde di efficacia, alimentando lo stereotipo che non si sta lavorando, ma è anche l’unico modo di creare qualcosa che ha la possibilità di avere qualche futuro.
Gli operatori vivono praticamente con la scorta, i protocolli di sicurezza delle ONG sono dettagliatissimi, muoversi a piedi non è consentito ed in macchina è quasi obbligatorio un autista locale per non entrare in anfratti pericolosi;
in caso di incidente stradale è consigliato non fermarsi, ma mettersi in sicurezza e successivamente presentarsi alla polizia; le abitazioni, oltre alle recinzioni con filo spinato, sono munite di guardiano armato, anche se delle volte bisogna proteggersi dal guardiano stesso che si presenta ubriaco. In questo caso non è consigliabile licenziarlo, visto che è armato e conosce la casa e le abitudini degli occupanti: è meglio assumere un secondo guardiano per controllare il primo e la casa. Alcuni organismi addirittura chiedono ai loro espatriati di comunicare costantemente con il proprio responsabile della sicurezza, quindi dal sms del ” sto uscendo per arrivare in ufficio” fino a quello della buona notte si ha questa presenza da mamma da tenere costantemente informata su ogni spostamento. Prelevare dei soldi non è consigliabile: ci sono stati casi di assaltanti fuori dalle banche che sapevano esattamente l’importo appena ritirato. Quindi: vatti a fidare delle banche! Il numero di rapine e rapimenti è ancora molto alto: in parecchi casi ad essere rapiti maggiormente sono i bambini, il cui riscatto sembra essere più alto.
Visitando qualche progetto e parlando con alcuni missionari di diverse congregazioni mi rendo conto che su una cosa sono tutti d’accordo che si riassume nelle parole di Suor Luisa: “se vuoi lavorare, qui da fare ce n’è tanto”.
Prima di uscire dall’ areo i saluti di rito delle hostess sembrano ritrovare un po’ di onestà intellettuale e tralasciato il bon ton aziendale e si lasciano ad un più sincero “take care”.
Saliti sull’auto che ci porterà a casa degli operatori di Caritas Italiana la città si offre per quello che dall’ alto promette: strade affollate, traffico di fuoristrada, i segni del terremoto sono praticamente ovunque, le tende sono disposte in campi organizzati dove da poco è stata messa l’illuminazione pubblica per cercare di limitare la criminalità. Ci sono altre tende che sono sorte spontaneamente un po’ ovunque, sono persone che erano ospiti da amici e parenti che hanno dovuto abbandonare questi posti ed ora si arrangiano ricavando qualche metro tra gli anfratti delle strade.
Chiacchierando con gli operatori di Caritas Italiana, ci descrivono la loro quotidianità; l’interazione con gli haitiani non è facile, la sicurezza mette distanze difficili da colmare, ma anche dove l’interazione è possibile lo stereotipo del bianco visto come portafoglio “gambe dotato” è forse la barriera ancora più grande. Inoltre gli abitanti di Port au Prince non sono entusiasti della presenza internazionale, il costo della vita è aumentato da quando ha ricevuto il personale espatriato, sulle strade martoriate e già affollate si è aggiunto il traffico dei fuoristrada delle varie agenzie che manda in tilt la circolazione. Lavorare per le ONG non è facile. L’interazione con la burocrazia Haitiana è pesante, i tempi si moltiplicano, si perde di efficacia, alimentando lo stereotipo che non si sta lavorando, ma è anche l’unico modo di creare qualcosa che ha la possibilità di avere qualche futuro.
Gli operatori vivono praticamente con la scorta, i protocolli di sicurezza delle ONG sono dettagliatissimi, muoversi a piedi non è consentito ed in macchina è quasi obbligatorio un autista locale per non entrare in anfratti pericolosi;
in caso di incidente stradale è consigliato non fermarsi, ma mettersi in sicurezza e successivamente presentarsi alla polizia; le abitazioni, oltre alle recinzioni con filo spinato, sono munite di guardiano armato, anche se delle volte bisogna proteggersi dal guardiano stesso che si presenta ubriaco. In questo caso non è consigliabile licenziarlo, visto che è armato e conosce la casa e le abitudini degli occupanti: è meglio assumere un secondo guardiano per controllare il primo e la casa. Alcuni organismi addirittura chiedono ai loro espatriati di comunicare costantemente con il proprio responsabile della sicurezza, quindi dal sms del ” sto uscendo per arrivare in ufficio” fino a quello della buona notte si ha questa presenza da mamma da tenere costantemente informata su ogni spostamento. Prelevare dei soldi non è consigliabile: ci sono stati casi di assaltanti fuori dalle banche che sapevano esattamente l’importo appena ritirato. Quindi: vatti a fidare delle banche! Il numero di rapine e rapimenti è ancora molto alto: in parecchi casi ad essere rapiti maggiormente sono i bambini, il cui riscatto sembra essere più alto.
Visitando qualche progetto e parlando con alcuni missionari di diverse congregazioni mi rendo conto che su una cosa sono tutti d’accordo che si riassume nelle parole di Suor Luisa: “se vuoi lavorare, qui da fare ce n’è tanto”.
Matteo Fietta
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