Dopo quasi un anno dalla mia prima visita ad Haiti eccomi nuovamente in questa terra martoriata continuamente dalle emergenze e che non riesce a trovare pace e stabilità.
Il volo che atterra all’aeroporto Toussaint Louverture augura a tutti quanti il benvenuto in “Ayiti cherie”, nella cara Haiti. Un’orchestrina locale griffata Western Union allieta le persone in coda per sbrigare le pratiche doganali. Nonostante questo il clima è tutt’altro che disteso, si respira un’aria pesante.
Recuperiamo il bagaglio e, sotto un sole cocente, passiamo sotto una lunga tettoia dove una folla di facchini si propongono di aiutarci a trasportare i nostri bagagli. Incontriamo subito Fidel, collaboratore di Caritas Italiana a Port-au-Prince, che ha il compito di portarci (o scortarci) fino a casa.
Lentamente, nel solito traffico del centro capitalino, attraversiamo strade devastate, qualcuna in costruzione, tutte quante discariche maleodoranti a cielo aperto frequentate da capre che cercano qualcosa da mangiare.
Ovunque, ai bordi, ritrovo le tendopoli che avevano riempito i miei occhi nel precedente viaggio. Sono ancora tantissime, però meno affollate. Anna e Davide la sera ci spiegano che in tanti alla fine hanno accettato di essere trasferiti nei nuovi campi al nord della città, come Corail Cesse-Lesse; altri ancora, passata la paura del terremoto, sono rientrati nelle loro case che seppur danneggiate sono state dichiarate abitabili. Ma ancora tanti, tanti davvero, vivono nei campi cresciuti come funghi subito dopo il terremoto.
Le elezioni sono alle porte. Si riuscirà a breve a ristabilire una situazione di parvente normalità, che potrebbe facilitare il lentissimo processo di ricostruzione?
Davide
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