“Quest’estate vado in Serbia a fare volontariato in un campo profughi”. Queste parole hanno suscitato varie reazioni, non sempre incoraggianti, nelle persone a cui ho raccontato i miei piani per il mese di luglio. Queste spaziavano dalla sorpresa allo sgomento, dall'interesse e curiosità per il tipo di esperienza che avrei vissuto all'incapacità di comprendere perché volessi passare parte della mia estate in questo modo. Mi è stato chiesto se fosse sicuro partire per la Serbia, se non rischiassi niente all'interno del campo, se mi fidassi dell’organizzazione con cui partivo. Mi è anche stato fatto notare che “anche da noi in Italia ci sono persone che hanno bisogno”. Domande e osservazioni che sorprendono poco se si pensa ai tempi in cui viviamo oggi.
Il campo di Bogovadja – dove, insieme ad altri quattro volontari, ho svolto l’esperienza di due settimane nell'ambito dei “Cantieri della Solidarietà 2019” organizzati da Caritas Ambrosiana – non somiglia a quelli sovraffollati e dalle scarse condizioni igienico-sanitarie che ci si immagina solitamente. Si tratta di un luogo circondato dal verde, dove ci sono giochi per i bambini, campi da calcio, basket e pallavolo e un “Social Café”, gestito da alcuni degli abitanti del campo, dove questi si ritrovano per stare insieme e chiacchierare. Tuttavia, non bisogna fermarsi all'apparenza: le persone che vivono a Bogovadja si ritrovano spesso senza acqua ed elettricità, non hanno piene libertà, le loro giornate si somigliano tutte e trascorrono lentamente. Nel campo di Bogovadja sono tutti in attesa. In attesa dell’approvazione della loro domanda d’asilo e del permesso di soggiorno. Oppure in attesa di trovare il momento adatto per andare al game, ovvero per provare ad attraversare il confine e continuare un viaggio verso i paesi dell’Unione Europea iniziato mesi o addirittura anni prima in paesi come Iran, Afghanistan, Pakistan, Siria, Burundi, Somalia o Eritrea.
Le storie delle persone che ho incontrato a Bogovadja mi hanno toccata in una maniera tale che sarà difficile dimenticarle. E lo stesso vale per i sorrisi e gli abbracci che tutti ci hanno regalato quotidianamente, la gioia e la speranza che molti di loro hanno negli occhi, la spensieratezza dei bambini e degli adolescenti, la voglia che hanno tutti di imparare e di lottare per costruirsi un futuro migliore. In particolare, mi hanno colpito le ragazze di neanche vent'anni che hanno intrapreso questo percorso da sole, le famiglie che hanno affrontato viaggi lunghi e difficili con bambini a volte piccolissimi, gli uomini che con tenacia tentano e ritentano il game più e più volte nella speranza che, prima o poi, sia la volta buona.
Tutte queste persone mi sono entrate nel cuore. Da quest’esperienza, porto a casa tutti i momenti passati insieme a loro: le mattinate trascorse a giocare insieme a Uno, a Jeenga e a Shangai al “Social Café”, i workshop con le donne all'insegna della creatività, le lezioni di italiano e inglese, le parole scambiate sui rispettivi paesi – e su come si conta fino a dieci in farsi – tra un’attività e l’altra, la giornata in piscina con gli adolescenti, i pomeriggi passati a giocare e ballare con i bambini. Porto a casa gli abbracci di S., gli occhi di K., la dolcezza di A., il “Me, want to play! Me, want to fight!” del piccolo S., la voglia di imparare di R., l’intelligenza di N., la meraviglia dei gioielli creati da R., la gentilezza di S., i sorrisi di N., la simpatia di M. Porto a casa le emozioni provate nel veder partire per il game F. che, dopo averci salutati con un “ci rivediamo in Italia, Inshallah!”, si è allontanato da solo tra gli alberi.
Mi porto a casa tutto questo. E rifletto sul fatto che io posso tornare a casa, liberamente e comodamente, viaggiando in aereo, semplicemente mostrando la mia carta d’identità o il passaporto e spesso senza neanche aver bisogno di un visto. Loro invece no. Loro hanno dovuto lasciare la propria casa e probabilmente non ci torneranno più. Viaggiano via terra e via mare per mesi rischiando le proprie vite e senza sapere quando raggiungeranno la propria meta. E questo perché il loro passaporto, fondamentalmente, non vale niente. Tornando a casa, penso a quanto siamo stati fortunati noi – perché, in fin dei conti, si tratta solo di fortuna – ad essere nati nella parte “giusta” del mondo, quella in cui i diritti, almeno sulla carta, sono garantiti, e non si rischia di venire perseguitati o di vedere i propri familiari morire in conflitti armati.
E improvvisamente mi viene in mente la domanda di F. che, vedendo sulla mia maglietta il motto dei Cantieri della Solidarietà di quest’anno, mi ha chiesto: “What is home?”, “Che cosa è casa?”.
Per me casa significa famiglia, affetti, persone care.
Per me casa sono i luoghi in cui sono cresciuta, i piccoli momenti quotidiani a cui sono abituata.
Per F., invece, “Home is a dream”, “Casa è un sogno”.
Angelica Notaristefano
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