“Ma per servire dobbiamo mettere in gioco qualcosa di più della nostra forza. Dobbiamo mettere in gioco la totalità di noi stessi, attingere all'intera gamma delle nostre esperienze. Servono anche le nostre ferite, i nostri limiti, perfino i nostri lati oscuri. La nostra interezza serve l’interezza dell’altro e l’interezza della vita. Aiutare crea un debito. L’altro sente di doverci qualcosa. Il servizio, al contrario, è reciproco. Quando aiuto provo soddisfazione; quando servo provo gratitudine. Servire è inoltre diverso dal provvedere. Quando cerco di provvedere a qualcuno, vedo nell'altro qualcosa che non va. È un giudizio implicito, che mi separa dall'altro e crea una distanza. Direi quindi che, fondamentalmente, aiutare, provvedere e servire sono modi di vedere la vita. Quando aiutiamo, la vita ci appare debole. Quando cerchiamo di provvedere, ci sembra che abbia qualcosa che non va. Ma quando serviamo, la vita ci appare completa, e siamo consapevoli di fare da canale a qualcosa di più grande di noi.”
Mettersi al servizio, per me, ha voluto dire stare davanti alle persone che ho incontrato senza bisogno di sapere la loro storia, senza anteporre un’etichetta alla loro umanità. Ha voluto dire riscoprirmi strumento. Perché a dire il vero la maggior parte delle attività che abbiamo proposto nei centri erano cose che io “non sono capace”. Ma in quel momento mi era chiesto proprio quello e quasi senza rendermene conto mi sono ritrovata a mettere in gioco tutti i miei limiti. Per provare a mostrare qualcosa di bello. Esempi pratici: parlare con un’adolescente che mi racconta cose più grandi di lei, giocare coi bambini senza capire una parola di quello che mi dicono, mettere lo smalto, tatuare con l’hennè, fare yoga, cucinare la pizza o impastare gli gnocchi.
Mettersi al servizio significa anche sentirsi rispondere no e rispettare il silenzio. Significa anche accettare che qualcuno non voglia farsi conoscere o conoscerti, o che non voglia partecipare all'attività che hai proposto. Significa non mettere la propria pretesa davanti alla persona.
Più riguardo le foto più mi chiedo cosa sarà del futuro delle persone che ho incontrato. Se riusciranno a uscire dai centri e riprendere in mano la loro vita. Se finalmente (ri)troveranno casa e qualcuno che vuole loro bene. Se potranno finalmente scegliere e non subire. Per me prendere coscienza e toccare con mano che la possibilità di scegliere non è scontata per tutti è stato come uno schiaffo. Io posso prendere un aereo e partire. Io posso entrare e uscire dal cancello di uno shelter. Io posso scegliere se studiare, cosa studiare, dove studiare. Perché spesso scelgo di farmi scegliere? Continuerò a farmi scegliere o finalmente sceglierò? Avendone la possibilità ora ne sento il dovere, perché non sia tutto indifferenza.
Io sono convinta che tutte le persone che ho incontrato e che incontrerò contribuiscano a costruire ciò che io sono e sarò. Dalla ragazza che in uno shelter mi porta a vedere il tramonto più bello della mia vita al profugo siriano che nella sua tenda mi offre un thè e una sigaretta, o ai volti che ho fotografato nel quartiere armeno di Beirut.
Ancora non so bene come questi incontri mi abbiano cambiata e se e come continueranno a farlo, ma forse il bello è proprio scoprirlo giorno dopo giorno.
Mi auguro di non smettere mai di crescere e cambiare ogni giorno grazie all'incontro con chi è Altro da me. Mi auguro di non smettere mai di aver voglia di cercare e scoprire.
Grazie Libano, sei stato casa per tre settimane.
Marta Sanvito
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