Parlare del Libano non è
semplice, immaginatevi scriverne. I giorni che ho trascorso nel paese dei cedri
(ormai ne sono rimasti pochissimi) sono stati una centrifuga di incontri, chilometri,
check point e manoush. Le 24 ore di una giornata libanese erano così piene che in
alcuni momenti sembravano essere poche.
Tra tutte le realtà presenti in
Libano ce n’è una poco conosciuta, quella delle domestic workers ed è proprio di questo che cercherò di scrivere e
trascrivere qui quello che ho imparato e annotato di giorno in giorno sul mio
taccuino. Quando si parla di domestic
workers si parla donne (alcune molto giovani) provenienti principalmente da
Africa e Asia che si ritrovano intrappolate in un sistema di human trafficking. Cerco di spiegarmi
meglio. La maggior parte delle famiglie libanesi ha una domestic worker in casa. Avere una domestica è (quasi) la normalità
in Libano, indipendentemente dalle condizioni economiche della famiglia; pensate
che le case vengono progettate già con una piccola (a volte piccolissima)
stanza dedicata a questa figura. Fin qui uno potrebbe pensare: dov’è il
problema?
Per capire questo fenomeno bisogna
fare un passo indietro e spiegare cos’è la Kafala.
Le lavoratrici domestiche arrivano in Libano tramite uno sponsorship system, che è appunto chiamato Kafala, secondo il quale il lavoratore/la lavoratrice straniero/a
può entrare e soggiornare legalmente nel paese solo se è “sponsorizzato” da un
datore di lavoro libanese, che per tutta la durata del contratto di lavoro ne
diviene una sorta di tutore. Questo fenomeno è regolato e riconosciuto dalla
legge libanese. Purtroppo però, nella pratica, la condizione di lavoro di
queste donne diviene presto una condizione di schiavitù moderna. La maggior
parte di queste sono costrette a lavorare con ritmi serrati senza avere ore (e
giorni) di riposo, addirittura ad alcune si vieta l’uscita dalle mura
domestiche, a molte non viene dato lo stipendio stabilito (questo può andare
avanti anche per anni!), in alcuni casi le si priva del cibo e altre ancora subiscono
abusi fisici, psicologi e sessuali. Come se non bastasse, all’arrivo nelle
famiglie, alla maggior parte vengono confiscati cellulare e documenti
direttamente dal datore di lavoro: questo funziona come ricatto poiché consente
a quest’ultimo di instaurare un rapporto vincolante (dal momento che la
lavoratrice domestica non può interrompere il contratto di lavoro se non con
l’accordo del datore). L’unica soluzione per queste donne è la fuga dalla
famiglia con il rischio di essere arrestate dalla polizia e rinchiuse in centri
di detenzione, poiché nella loro condizione, senza documenti, la loro
presenza risulta essere illegale su territorio libanese. A livello teorico ci
sarebbero molte altre cose da dire, come per esempio come queste donne non
siano tutelate dei diritti dei lavoratori o delle leggi emanate dagli stessi
paesi di partenza che proibiscono l’emigrazione per lavorare come
collaboratrici domestiche… ma non scriverò nulla di tutto ciò, rischierei di
diventare noiosa. Preferisco raccontarvi cosa abbiamo fatto noi.
Noi volontari siamo stati in due centri di accoglienza e assistenza
per lavoratrici migranti gestiti da Caritas Ambrosiana in collaborazione con Caritas
Libano. Immaginatevi questi shelter
come dei luoghi sospesi nel tempo e nello spazio. Nel tempo perché quanti
giorni starai dentro lì nessuno lo sa, a volte qualche mese, a volte anche più
di un anno; l’unico tempo presente è quello dell’attesa, attesa del rimpatrio o
del reinserimento lavorativo in Libano. Nello spazio perché fisicamente lo shelter è l’unico spazio vivibile
durante questa attesa, tutto quello che succede, succede all'interno del
centro.
Quello che cercavamo di fare noi era di spezzare questo senso di
sospensione e, nei modi più diversi, cercare di riportare a una percezione del
reale. Laboratori di perline, di borsette, di cucina, tornei di pallavolo,
giochi con la musica, con l’acqua, sfilate, yoga, canzoni, chitarra, balli,
sessione di trucco, smalto, henné. Tutto per riempire e qualificare il tempo.
Aspettare non mi è mai piaciuto, né ferma in macchina, né per ricevere una
risposta, né per stare in coda alle poste. Attendere può essere snervante,
faticoso, doloroso e delirante. Queste donne, invece, mi hanno insegnato
silenziosamente che il tempo dell’attesa serve, a volte è necessario e
ingiustamente imposto. Così come è imposto anche lo spazio, che in qualche modo
diventa la tua casa, il tuo alloggio senza che tu l’abbia scelto. Ecco che
quindi “casa” non è più il luogo dove ti aspetta il calore umano, ma è, prima,
la tua stanzina nella quale sei costretta a dormire e svegliarti al mattino presto
per lavorare, poi, un centro di accoglienza dove ti ritrovi in una camera con
altre donne che sono vittime come te di traffico di esseri umani.
Questa delle domestic workers è solo una delle tante e infelici realtà presenti
in Libano. Ci sarebbe poi da scrivere anche dell’emergenza dei profughi siriani
e di quando sono entrata in un campo profughi siriano, dei minori stranieri non
accompagnati, delle condizioni dei palestinesi in Libano, dell’emergenza
rifiuti, del confessionalismo… ma tutto questo, se volete, davanti a un caffè
(con lo zucchero).
Anna Gritti
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