sabato 2 dicembre 2017

Il destino di Nameless

Giovedì 30 Novembre. Ore 8:55 - stranamente super puntuali! - varchiamo il cancello del Mahali Pa Usalama (altrimenti detto MPU - in accordo all'insensato amore per le sigle dei local). 

Non facciamo in tempo a finire lo scambio di saluti con la guardia che, senza nemmeno capire da dove è spuntato, ti trovi un bimbo che ti ha preso per mano. La sua manina ha trovato velocemente la tua e ... zac! ci si è stretta accanto. Mi volto per capire chi è ... forse avrei potuto immaginarlo! Sorrido e saluto, sfoderando i due rudimenti di Kiswahili su cui ormai siam ferratissime: "Habari ya asubuhi B.". Nel frattempo ci incamminiamo insieme.

La mama e lo staff del centro ci accolgono, due parole e ci accordiamo sul programma della giornata. Niente specifiche: "just play with the kids". Sotto il sol cocente, ignare del biancore della nostra pelle, ci lanciamo tra bans e giochini. Mi sorprende scoprire che anche qui, come a Nairobi nei centri di Amani, per richiamarsi e mettersi in cerchio basta cantare "one, two make a sacco [in lingua originale sarebbe circle, ma l'aggiustamento kenyano dell'inglese fa strani effetti] ..." - l'unica differenza è che qui sono un po' pigri e non finiscono la seconda parte della canzoncina, che a me piace così tanto!

Dopo "oh-a-le-le", "sono un pollo e mi chiamo giovanni", "sul lago Tanganika-Ka" e un tentativo di "wattanciù" ... ripesco un gioco da qualcuno chiamato "bomba", da altri "atomi", con lo stile che ho imparato qui lo scorso anno: inizia "Fire on the Mountain". I bambini corrono e poi, attenti alle istruzioni, si mettono in gruppi di 2,5,7 o si trasformano in animali. Inizio a notare che B. si è buttato in mezzo e sta partecipando al gioco. Non faccio in tempo a gioire per il suo coinvolgimento, che lo vedo in difficoltà nel contatto con gli altri. In effetti non è ben chiaro il modo in cui tutti gli altri lo trattano, basta considerare che solo gli adulti lo chiamano B., per tutti rimane sempre e solo "nameless". Sì, avete letto bene, "nameless", senza nome. Probabilmente è stato presentato così inizialmente, perché non parlava, quindi non si poteva conoscere il suo nome. 

La giornata trascorre cocente e ritmata da canzoni, giochi, risate, schiamazzi e anche qualche "frignetta". Più di tutti, però, B. si dimena e piange. Mi colpisce osservare il suo rannicchiarsi, quasi in posizione fetale, intorno al mio piede - mentre comincia ad essere sempre troppo stretto a me (che invano tento di scollarlo un po'). Intuisco che è geloso, ma non voglio crederci: come è possibile che si sia già affezionato così dopo solo 2 o 3 ore!?! Solo a S. (un nanerottolo paffuto e con un sorriso super simpatico) ha permesso di starci accanto ... Nel frattempo, cercando di non dar troppo peso, abbiamo giocato; ma, poi, lo ammetto, è diventato proprio un po' "una cozza" e per me è diventato frustante sentirlo accennare, ogni volta, un pianto. Probabilmente anche qualche altro ragazzo si è stufato e - ahimè - ha iniziato a prenderlo un po' in giro probabilmente (lo scoglio linguistico mi ha impedito di capire bene la situazione), punzechiandolo inutilmente. Allora, nel tentativo di comprendere cosa stesse accadendo e come dare una svolta alla situazione (che fosse alleviare il mio peso facendo in modo che si staccasse un po' o alleviare il suo peso facendo in modo che trovasse un attimo di serenità interrompendo il pianto), ho chiesto delucidazioni all'unico adulto lì presente. La risposta ha confermato l'ipotesi di gelosia e poi ... ha spalancato un mondo nuovo!!!

La guardia ha iniziato a dirmi due cose su B., con un affetto straordinario verso questa creatura che, come ha detto lui, "stiamo aiutando a diventare grande". Nessun particolare biografico, solo la descrizione del modo in cui stanno cercando di prendersi cura di B.. 

E così, io mi ritrovo seduta, con B. sempre appiccicato e un nuovo sguardo su di lui: "chissà quale vita hai attraversato, chissà quale destino ti aspetta: per cosa sei fatto? Chi diventerai da grande?  Cosa ti aspetta?". Mi sorprende che sia la guardia a richiamare il mio sguardo, mi colpisce sentire pronunciare queste parole: "è un bambino fortunato, diventarà un grande uomo". 

Allora io mi fermo per un istante. In un mix di tenerezza e commozione, penso al destino di B. e, nell'unico modo che conosco, chiedo che sia Bello, affidando il suo cammino. 

Non so se Dio ascolterà la mia preghiera. Quel che so, per esperienza, è che Lui conosce per sino i quanti capelli abbiamo in testa [che presuppone un'attenzione particolare se calcoliamo quanti ne stiamo perdendo qui a Mombasa!]. Forte di questo Amore disinteressato, guardo Nameless, lo chiamo per nome e imparo a volere il suo Bene, con la speranza che possa, un giorno, trasformare quel pianto in lacrime di commozione quando si troverà ad abbracciare il suo destino.

1 commento:

  1. B. non è più Nameless, è "chiamato per nome" nell'essere voluto bene dalla guardia, da te e dagli altri adulti.Nello sterminato bisogno di amore (lì come anche qui), occorre amare uno per imparare ad amare anche gli altri. Grazie per la condivisione, ti/vi ricordo nella preghiera, un abbraccio. Sergio.

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