domenica 19 novembre 2017

Kenya: Suor Rachel, Kibe e la banconota stropicciata




Mentre Kibe parla, il gruppo non fa che seguire il suo inglese fluente ma ottimamente scandito. Sono rari i cali di attenzione, nonostante la freschezza dell’aria e del paesaggio sullo sfondo quasi magnetizzino l’ambiente: il mais, germogliato da qualche settimana, si affaccia al mondo in ordinate file parallele equidistanti; un albero dal tronco molto storto ci protegge dal sole, facendosi carico di uccelli rumorosi; in mezzo al cerchio è pieno di legnetti, fili d’erba ormai secca, filamenti di spago, che di tanto in tanto qualcuno prende in mano per giocarci; dal campo da calcio provengono le grida eccitate di bambini che si rincorrono per qualche loro gioco.

Nonostante questa bellezza, dicevo, Kibe riesce a mantenere su di sé un’attenzione quasi ipnotica. Forse il luogo dell’incontro non è stato nemmeno scelto a caso, la sua figura di anziano prorompe quasi poeticamente sotto l’ombra dell’albero. Ma trasaliamo tutti quando dalla tasca, con la mano, estrae una banconota ben stirata da 200 scellini. Non sembra avere senso, ecco. Tutto il bello che sino a questo momento si è creato cozza incredibilmente con l’immagine di lui che esibisce sorridente quella banconota.

Suor Rachel parlava davanti alla comunità della parrocchia, riunita nella chiesa che vedete alle vostre spalle. Come me, quel giorno, prese in mano una banconota come questa. Avevano tutti la stessa faccia che avete adesso voi guardandomi. Rivolgendosi a loro disse: «Qualcuno di voi vorrebbe questa banconota?» e allora tutto il pubblico esplose in un mormorio di approvazione. «Bene», disse, e detto questo mostrò di nuovo la banconota alla platea, e stringendola forte nel pugno iniziò a sfregarsi freneticamente le dita, stropicciandola in modo deciso, riducendola a quella che poteva sembrare una pallina di carta.”

Kibe racconta l’aneddoto in modo così vivo da confonderci, da farci immaginare di essere seduti anche noi lì su quelle panche in quella chiesa, a mormorare insieme a tutti in risposta alle provocazioni di Suor Rachel. La sua risata squillante a tratti ci fa trasalire. Accompagna i gesti alle parole: in mano ora stringe la stessa banconota di prima, ridotta ad essere un piccolo pezzo di carta straccia.

Al che continuò: «Qualcuno di voi vorrebbe questa banconota?». A questa domanda, tutti continuarono in coro a ribadire che sì, tutti avrebbero comunque voluto quella banconota. «Bene», disse ancora, e detto questo mostrò di nuovo la banconota al pubblico, e questa volta la gettò a terra. Con la scarpa, poi, iniziò a calpestarla più e più volte, con i presenti divisi tra risate sommesse e brontolii di disapprovazione. Poi si chinò, raccolse quello che rimaneva della banconota e lo mostrò al pubblico: ormai stropicciata, sporca e con piccoli tagli, pareva essere un pezzo qualsiasi di carta straccia. Poi ripeté con la stessa voce calma di prima: «Qualcuno di voi vorrebbe ancora questa banconota?».”

Iniziamo tutti a guardarci intorno, a cercare di spiare le reazioni degli altri. Sappiamo tutti dove sta andando a parare. Ci stiamo commuovendo tutti. Distolgo lo sguardo dal volto di Kibe, e inizio a fissare le foglie della pianta di mais mentre vibrano sferzate da un vento leggero ma tenace. Ma continuo ad ascoltare, non mi perdo una parola. Kibe sembra accorgersene, il suo sorriso si allarga, e continua il racconto con più forza di prima.

Il brusio si fece sempre più forte, ma alla domanda di Suor Rachel la risposta fu ad ogni modo affermativa: chiunque in quella stanza avrebbe comunque voluto quella banconota. «Se persino un pezzo di carta come questo mantiene il suo valore in condizioni come queste», incalzò lei, «come possiamo non considerare il valore di questi ragazzi? Non importa quale sia stata la storia di una persona, quali siano le crisi che ha affrontato, quante volte sia caduta, quanti problemi abbia alle spalle: ognuno di questi ragazzi ha un valore inestimabile che non possiamo non considerare.»”

Torno a guardare Kibe. L’incontro finirà molti minuti dopo.

Partirò da me stesso, forse perché è più facile o forse perché effettivamente mi sembra il modo più utile per iniziare una riflessione in tal senso. Qual è il mio valore? Sono cresciuto in mezzo a persone che per mia fortuna hanno sempre cercato di spronarmi e, appunto, valorizzarmi. Mai come oggi, mai come stasera, riesco ad essere grato a tutte queste persone. Mi vengono in mente mille esempi, mille aneddoti, mille volti, e soprattutto mille motivi per non citarne neanche uno in questo scritto. Ma sappiate che vi sono davvero riconoscente.

Pensando ai ragazzi, invece, mi viene il magone. Non compassione, pietà, pena: proprio il magone, quello che ti stringe la gola con un nodo stretto. Il primo obiettivo, il primo sforzo, vorrei fosse verso qualcosa che riesca a far sì che i ragazzi si percepiscano come portatori di valore. Che riescano loro, per primi, a realizzare di non essere carta straccia. Siamo somma di esperienze, che aggiungono valore a quello che siamo; che possono ferirci, ma che non possono mai annullarci. Il primo passo verso il reinserimento nella società civile, nella battaglia contro la stigmatizzazione, nella lotta contro l’occhio torvo del pregiudizio, è quello che bisogna fare verso sé stessi.

Credo con forza nelle potenzialità del progetto in cui svolgo il mio servizio. Una grande lezione che mi voglio portare a casa l’ho imparata già oggi, a soli 4 giorni dalla partenza: vorrei saper guardare ogni persona negli occhi e riscoprirla nel suo valore inestimabile.

a presto,

Giacomo Centonze

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