Primissimo
giorno di servizio effettivo a Cafasso House.
Sveglia alle
sette e mezza, colazione preparata di Giacomo mentre io, con la solita calma
frettolosa che solo chi mi conosce bene e ha vissuto qualche tempo con me può
capire, cerco di prepararmi in tempo per l’uscita che ci eravamo prefissati.
Nemmeno a dirlo, non ce la faccio. E così usciamo con qualche minuto di ritardo
da casa, tutti trafelati, in spalla lo zainetto con acqua, cambio completo (non
so ancora se i miei vestiti del mercato riusciranno a resistere al lavoro nei
campi), scarpe di ricambio perché gli stivali da lavoro a noi sembrano costare
troppo al supermercato qui vicino e ci stiamo rifiutando di comprarli
fino a nuovo ordine. Il cellulare in un piccolo marsupio nascosto sotto ai
vestiti per non dare tropo nell’occhio e le chiavi di casa al collo, ci avviamo
di buon passo verso Kamiti, il quartiere carcerario.
Il cancello
più vicino a noi dista da casa solo pochi minuti a piedi, ma poi da li dobbiamo
camminare ancora una ventina di minuti all’interno della recinzione per raggiungere
Cafasso, la comunità educativa per giovani ex detenuti dove lavoreremo
quest’anno.
E’ strano il
nostro quartiere: Kahawa West. Mi piacerebbe riuscire a descriverlo, ma come ci
ha detto anche Maurizio, il nostro responsabile, è davvero difficile spiegarlo
a chi non è mai stato in una periferia di città africana. E’ una via di mezzo
tra la città ultra moderna e la baraccopoli. Ok. Ma questo dice tutto e non
dice niente. Dice che nelle vie è spesso un brulicare di gente...ma solo dopo
le nove di mattina. Prima la gente sembra avere altro da fare qui, e i bambini
non girano ancora molto nelle vie. Dice del traffico caotico e sregolato, come
Milano, come Roma, come Napoli...ma di più. Molto di più. Dice dello smog che
si respira e della polvere che si mescola a questo e del fatto che entrambi ti
entrano dentro ad ogni respiro tanto da non desiderare altro che natura
incontaminata per un pò. Dice delle voci che si mescolano, delle case che si
ammassano e dell’edilizia che tende a riepire i pochi terreni rimasti vuoti
lungo le vie. Dice delle strade sterrate, ma non di quelle che una volta erano
asfaltate e che ora sono un cumulo di macerie sopra alle quali si snoda
indifferente il mercato. Non dice dei ragazzi che ti invitano coon insistenza a
salire sull’autobus (una pecie di “buttatdentro” all’italiana...di quelli che
da noi ci sono fuori dai ristoranti del centro di Milano. Ecco, uguali. Solo
che invece che essere vestiti di tutto punto e cercar di convincerti a mangiare
una pizza a colazione o degli spaghetti all’amatriciana e una cotoletta alla
milanese a merenda sono vestiti come noi e cercano di convincerti a prendere
autobus per raggiungere ogni angolo della città). Non dice nemmeno che il
servizio di bus e taxi è privato, non pubblico, ma che è estremamente
efficiente. A qualsiasi ora tu voglia prendere un bus è sufficiente che tu ti
faccia trovare alla fermata giusta: un matatu ci sarà sicuramente. Orari? Non
servono: si parte non appena i posti sono stati riempiti,e poi via a ruota il successivo,
già fermo in coda alla stazione di partenza. Non dice di un’app che permette di chiamare taxi in tutta la
città di Nairobi a qualsiasi ora del giorno, scegliendo anche la dimensione
dell’auto, ed eventualmente valutando e selezionando come preferiti i tuoi
conducenti di fiducia. Esiste persino un tasto per la sicurezza da premere in
caso di pericolo.
Non dice
nulla nemmeno di quella parte del quartiere nascosta dietro al mercato, fatta
di vie strettissime e di baracchini che ne costellano i lati: parrucchieri e
negozi di vestiti a non finire. A non finire mai. Non dice nulla nemmeno della
quantità di persone addette alla sicurezza che piantonano armati ogni ingresso
di ogni attività commerciale grande più di due metri per tre: che tu vada al
supermercato, alla banca, in un bar, in un qualsiasi posto in cui girino dei
soldi, lì ci saranno delle guardie pronte a perquisirti e a garantire la tua
sicurezza. Protezione e ansia allo stesso tempo.
Non dice
nulla nemmeno della sporcizia che si trova lungo le vie, di tutta quella
maledetta plastica che inquina e non si decompone e resta nell’ambiente per
anni e anni rovinando paesaggi che altrimenti sarebbero bellissimi.
Non dice
nulla soprattutto di quella sensazione di pace e di tranquillità che si prova
non appena si varca il cancello del quartiere carcerario di Kamiti. Quella pace
che stride così tanto con il significato del suolo che si sta calpestando, ma
che inspiegabilemente ha sapore di libertà.
Libertà dal
caos cittadino, dalla frenesia di ogni giorno, da quella fretta di fare tutto e
subito prima che il tempo scappi.
Ecco,
mettere piede a Kamiti significa immediatamente rallentare, respirare a pieni
polmoni, sospirare.
Una guardia
all’ingresso saluta svogliata ma incuriosita, il traffico sparisce, i rumori
della città si fanno lontani, le case si diradano e davanti a te compare un
paesaggio naturale insolitamente bucolico, di quelli che propro non ti
aspetteresti li. Campi coltivati, piccole colline di terreno attraversate da
sentieri in terra battuta che si snodano fitti tra le carceri e le case dei
lavoratori, accogliendo guardie, detenuti in divisa che lavorano sotto
sorveglianza, bambini che giocano a costruire argini robusti alle pozzanghere
di fango, galline che dopo aver trovato qualcosa da mangiare tra i cumuli di
spazzatura poi ritroveranno la strada di casa...e noi. Due giovani ragazzi
bianchi che inspiegabilmente si trovano li.
Alice V
Leggendo questo racconto sembra di essere li e vivere queste esperienza attraverso i tuoi occhi.
RispondiEliminaSembra di camminare lì con te.
RispondiEliminaIl racconto, il diario, la narrazione rappresentano il modo indiretto per far parte agli altri dei nostri vissuti, stabilendo un raccordo tra chi scrive e chi legge che va oltre l’oggetto della comunicazione per creare una realtà più grande e complessa. Vedere con gli occhi degli altri permette di creare una relazione con gli oggetti, i luoghi e le persone che non si limita a registrare, ma riempie il significato di simbolico, il simbolico che ci appartiene. Abbiamo estremamente bisogno di queste narrazioni per uscire da un mondo autoreferenziale e cominciare a sentirci parte di una realtà più universale. La realtà che guarda agli altri come uomini portatori di uno stesso bisogno, quello di riconoscersi e appartenersi. Grazie Alice
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