sabato 25 novembre 2017

Il Kahawa West che non so descrivere

Primissimo giorno di servizio effettivo a Cafasso House.
Sveglia alle sette e mezza, colazione preparata di Giacomo mentre io, con la solita calma frettolosa che solo chi mi conosce bene e ha vissuto qualche tempo con me può capire, cerco di prepararmi in tempo per l’uscita che ci eravamo prefissati. Nemmeno a dirlo, non ce la faccio. E così usciamo con qualche minuto di ritardo da casa, tutti trafelati, in spalla lo zainetto con acqua, cambio completo (non so ancora se i miei vestiti del mercato riusciranno a resistere al lavoro nei campi), scarpe di ricambio perché gli stivali da lavoro a noi sembrano costare troppo al supermercato qui vicino e ci stiamo rifiutando di comprarli fino a nuovo ordine. Il cellulare in un piccolo marsupio nascosto sotto ai vestiti per non dare tropo nell’occhio e le chiavi di casa al collo, ci avviamo di buon passo verso Kamiti, il quartiere carcerario.
Il cancello più vicino a noi dista da casa solo pochi minuti a piedi, ma poi da li dobbiamo camminare ancora una ventina di minuti all’interno della recinzione per raggiungere Cafasso, la comunità educativa per giovani ex detenuti dove lavoreremo quest’anno.
E’ strano il nostro quartiere: Kahawa West. Mi piacerebbe riuscire a descriverlo, ma come ci ha detto anche Maurizio, il nostro responsabile, è davvero difficile spiegarlo a chi non è mai stato in una periferia di città africana. E’ una via di mezzo tra la città ultra moderna e la baraccopoli. Ok. Ma questo dice tutto e non dice niente. Dice che nelle vie è spesso un brulicare di gente...ma solo dopo le nove di mattina. Prima la gente sembra avere altro da fare qui, e i bambini non girano ancora molto nelle vie. Dice del traffico caotico e sregolato, come Milano, come Roma, come Napoli...ma di più. Molto di più. Dice dello smog che si respira e della polvere che si mescola a questo e del fatto che entrambi ti entrano dentro ad ogni respiro tanto da non desiderare altro che natura incontaminata per un pò. Dice delle voci che si mescolano, delle case che si ammassano e dell’edilizia che tende a riepire i pochi terreni rimasti vuoti lungo le vie. Dice delle strade sterrate, ma non di quelle che una volta erano asfaltate e che ora sono un cumulo di macerie sopra alle quali si snoda indifferente il mercato. Non dice dei ragazzi che ti invitano coon insistenza a salire sull’autobus (una pecie di “buttatdentro” all’italiana...di quelli che da noi ci sono fuori dai ristoranti del centro di Milano. Ecco, uguali. Solo che invece che essere vestiti di tutto punto e cercar di convincerti a mangiare una pizza a colazione o degli spaghetti all’amatriciana e una cotoletta alla milanese a merenda sono vestiti come noi e cercano di convincerti a prendere autobus per raggiungere ogni angolo della città). Non dice nemmeno che il servizio di bus e taxi è privato, non pubblico, ma che è estremamente efficiente. A qualsiasi ora tu voglia prendere un bus è sufficiente che tu ti faccia trovare alla fermata giusta: un matatu ci sarà sicuramente. Orari? Non servono: si parte non appena i posti sono stati riempiti,e poi via a ruota il successivo, già fermo in coda alla stazione di partenza. Non dice di un’app che permette di chiamare taxi in tutta la città di Nairobi a qualsiasi ora del giorno, scegliendo anche la dimensione dell’auto, ed eventualmente valutando e selezionando come preferiti i tuoi conducenti di fiducia. Esiste persino un tasto per la sicurezza da premere in caso di pericolo.
Non dice nulla nemmeno di quella parte del quartiere nascosta dietro al mercato, fatta di vie strettissime e di baracchini che ne costellano i lati: parrucchieri e negozi di vestiti a non finire. A non finire mai. Non dice nulla nemmeno della quantità di persone addette alla sicurezza che piantonano armati ogni ingresso di ogni attività commerciale grande più di due metri per tre: che tu vada al supermercato, alla banca, in un bar, in un qualsiasi posto in cui girino dei soldi, lì ci saranno delle guardie pronte a perquisirti e a garantire la tua sicurezza. Protezione e ansia allo stesso tempo.
Non dice nulla nemmeno della sporcizia che si trova lungo le vie, di tutta quella maledetta plastica che inquina e non si decompone e resta nell’ambiente per anni e anni rovinando paesaggi che altrimenti sarebbero bellissimi.
Non dice nulla soprattutto di quella sensazione di pace e di tranquillità che si prova non appena si varca il cancello del quartiere carcerario di Kamiti. Quella pace che stride così tanto con il significato del suolo che si sta calpestando, ma che inspiegabilemente ha sapore di libertà.
Libertà dal caos cittadino, dalla frenesia di ogni giorno, da quella fretta di fare tutto e subito prima che il tempo scappi.
Ecco, mettere piede a Kamiti significa immediatamente rallentare, respirare a pieni polmoni, sospirare.
Una guardia all’ingresso saluta svogliata ma incuriosita, il traffico sparisce, i rumori della città si fanno lontani, le case si diradano e davanti a te compare un paesaggio naturale insolitamente bucolico, di quelli che propro non ti aspetteresti li. Campi coltivati, piccole colline di terreno attraversate da sentieri in terra battuta che si snodano fitti tra le carceri e le case dei lavoratori, accogliendo guardie, detenuti in divisa che lavorano sotto sorveglianza, bambini che giocano a costruire argini robusti alle pozzanghere di fango, galline che dopo aver trovato qualcosa da mangiare tra i cumuli di spazzatura poi ritroveranno la strada di casa...e noi. Due giovani ragazzi bianchi che inspiegabilmente si trovano li.


Alice V

3 commenti:

  1. Leggendo questo racconto sembra di essere li e vivere queste esperienza attraverso i tuoi occhi.

    RispondiElimina
  2. Il racconto, il diario, la narrazione rappresentano il modo indiretto per far parte agli altri dei nostri vissuti, stabilendo un raccordo tra chi scrive e chi legge che va oltre l’oggetto della comunicazione per creare una realtà più grande e complessa. Vedere con gli occhi degli altri permette di creare una relazione con gli oggetti, i luoghi e le persone che non si limita a registrare, ma riempie il significato di simbolico, il simbolico che ci appartiene. Abbiamo estremamente bisogno di queste narrazioni per uscire da un mondo autoreferenziale e cominciare a sentirci parte di una realtà più universale. La realtà che guarda agli altri come uomini portatori di uno stesso bisogno, quello di riconoscersi e appartenersi. Grazie Alice

    RispondiElimina