6 Agosto 2015
La notte con i capelli legati e
tirati è terribile. Potrò dire di aver fatto anche questa pazzia: le treccine
rasta all’africana con 8 kg di capelli lunghi biondi e rossi in più, ovviamente
rossi; ma ora che scrivo ed è sera li ho sciolti dalla coda e anche se non
sembro più Cleopatra ma una rasta-woman vera e propria almeno la mia testa
respira un po’ finalmente.
Stamattina la sveglia è all’alba
in previsione della visita alla prigione (che come volevasi dimostrare non
faremo grazie ai cani antidroga kenyoti)(Martina sarà orgogliosa di me per aver
scritto “kenyoti” con la “y”!) ed essendo l’ultimo giorno alla Cafasso portiamo
tre valigie con parte del materiale usato e parte nuovo da lasciare in dono ai
ragazzi. E a sorpresa Marta chiama la bellezza di ben 8 piki-piki (le
motociclette che fungono da tassisti) per ognuno di noi. Che emozione, tra
sorpassi abbastanza vietati in tripla fila, vari acceleramenti in curve a
gomito e altrettante frenate inaspettate prima dei dossi inattesi. Il tutto
abbracciata in modo abbastanza precario a un kenyota senza casco (entrambi
ovviamente) che ogni tanto risponde al cellulare. Martina e Vale si fanno il
viaggio in tre addirittura. Che coraggio! Anziché i soliti 40 minuti di camminata per attraversare il
quartiere delle prigioni ce ne impieghiamo 10 oggi per arrivare dai ragazzi
della Cafasso. Oggi è una giornata speciale, di festa e di saluti. Viene pure a
trovarci Suor Serafina, la capo superiora di tutte le suore della consolata del
Kenya. Ci tiene a farci un discorsetto di ringraziamento per il nostro lavoro e
ci regala una collana fatta a mano da alcuni ragazzi di strada di uno dei loro
progetti. Oltre a lei viene a salutarci anche il cappellano della prigione, un
pezzo grosso, con tanto di colleghi catechisti vestiti in camicia e cravatta. Appena
arrivata in Cafasso, tutti i ragazzi apprezzano la nuova acconciatura e Bernard,
il ragazzo che lavora in una sartoria, mi fa provare uno dei suoi vestiti:
giallo limone spento, gonna e maglia a campana. Diciamo che non lo comprerei
mai , e penso che anche i miei compagni di viaggio la pensino così come risulta
dalle loro risate. Una brutta notizia della giornata è stata di Angelo, il
volontario italiano di Caritas in Kenya, che sarebbe dovuto venire a Mombasa
domani con noi: è stato ricoverato in ospedale per un infezione intestinale ed
è dovuto rientrare in Italia sedato e qualche giorno prima del previsto. Peccato
perché mi sarebbe piaciuto molto salutarlo! Era così simpatico! Oggi è festa e
la festa kenyota propone capretto alla griglia. Perciò alle 10 di mattina ci
mettiamo tutti sotto a cucinare. Le cipolle
ci ammazzano. Solamente sbucciarle mi provoca uno di quei pianti dolorosi! Non invidiavo
nemmeno un po’ chi le stava tagliando. Tra l’altro quella bella insalatina
cruda di pomodoro, cavolo, carote e
cipolle, che probabilmente è dissenteria diretta, mi attira troppo e quindi ne
gusto il saporino fresco senza troppo indugio. Ma il pezzo forte è la
grigliata! Io e Vale non sappiamo bene come agire, se da tecnologhe alimentari
o da africane. La carne di capra (un’intera carcassa) viene maneggiata da tutte
le mani e in tutti i modi e con tutti i coltelli sporchi, viene immersa in una
bacinella piena di acqua e di limone dove sta a mollo. Poi va a contatto
diretto con la fiamma più e più volte, cade per terra, cade sulla cenere e
viene rimessa con nonchalance sulla griglia
artigianale. Una volta cotta è lasciata all’aria aperta sul tavolo lercio a
disposizione del milione di mosche presenti. Insomma, se non ci succede nulla
dopo questo pranzo alternativo direi che saremo immuni a qualsiasi rischio
alimentare! Ciò che non uccide fortifica, giusto? Bisogna dire che l’intervento
di Giacomo (l’unico uomo italiano presente) è fondamentale. Grazie a lui la
situazione migliora un po’, igienicamente parlando. Ad allietare il pranzo
fortunatamente c’è il ginger, ma questa volta la bevanda. È buonissima! Frizzantina,
dolciastra con retrogusto amarognolo. Dopo il pranzo c’è un momento organizzato
di balli. I ragazzi africani hanno tutto un loro modo di ballare con passi e
salti strani che maldestramente come al solito cerco di imitare. Arriva infine
il momento dei saluti. Felix e Wolf prendono le redini del discorso: “the most
difficult word to say in Africa is ‘goodbye’ so come back here soon”, “pray God
and remember us in the stories you will tell to your friends”, “learn to smile,
always, because can change the world and the people”. E così osservo Duke ,
timido agricoltore a cui mi sono affezionata perché mi ricorda mio cugino ed
era il ragazzo più timido e polite; Big John, il più stordito che ride sempre
nelle sue goffaggini; Small John, così fiero di sè; Simon, che faceva il
provolone per ballare; Samuel, il gentilissimo amante degli animali che regala
a tutte un ultimo braccialetto; Andry, che cantava sempre “brrrr” e “o mare
nero”; Borongo, il più irrequieto; Chegge, quello sempre fatto di colla anche
se Marta dice che invece è fulminato così di natura; Mesha, che tenta
inutilmente di suonare sempre il tamburo ed è sempre fuori tempo; Frank, l’ingegnere
meccanico dagli occhi verdi; William, il miglior ballerino e il più tamarro tra
tutti; Bernard, il viscido sarto. E dall’altra parte vedo Vale, timida ma
dolce, sensibile e molto pratica; Martina, la super boss dei bans e dei giochi
che ci sa proprio fare coi bimbi; Chiara, alla mano e che è sempre in grado di
buttarsi; Francy, la più pazzerella e anche la più brava a interagire coi
ragazzi nonostante non parli una parola di inglese; Alice, che l’altra sera mi
ha confidato che questi ragazzi l’hanno sorpresa e sono stati capaci di
insegnarci la semplicità e la sincerità del cuore che in Italia troppo spesso
dimentichiamo; Giacomo, scherzoso e molto molto paziente, in gamba sia coi
ragazzi e i bimbi sia quando si tratta di lavorare e mettersi sotto; Marta, il nostro
saggio leader, forse più kenyota che italiana e anche se non sempre condivido i
suoi pensieri ho apprezzato moltissimo la sua super disponibilità nei confronti
di ogni nostra esigenza e il suo sangue freddo in ogni situazione un po’ critica.
E io, il solito buffone del gruppo, mi trovo bene in mezzo a tutti loro. Riesco
a vivermi questa esperienza positivamente. A casa tutte le mie cosucce e i miei
impegni sono sistemati e i miei affetti mi fanno stare serena. I giorni
trascorsi qui a Nairobi sono andati alla grande. Io sento di essere riuscita a
dare e ricevere il giusto ogni giorno un po’ con tutti e riesco ad essere me
stessa, spontanea ed ingenuotta. Vivo alla giornata, senza troppi programmi (a
parte quando stresso Marta per le cose da comprare!) Sono consapevole
di quanto
sia importante vivere senza troppe aspettative e che la cosa più bella che puoi
donare è il tempo che trascorri con questi ragazzi e il come lo trascorri, qui
ed ora, con tutti noi stessi. Questa esperienza e questo incontro è sicuramente
un gift per entrambe le parti. Arrivata la sera dobbiamo voltare pagina e
razionalmente camminare avanti, per l’ultima volta lungo quella strada rossa
che ci riporta verso la nostra parrocchia, salutando tutti quei visi di ragazzi
normalissimi e buoni e desiderosi di costruire una vita più bella e serena. E anche
il cielo è triste e si rannuvola.
La sera dovevamo andare a
Korogocho ma a causa di un imprevisto l’appuntamento salta e Marta, essendoci
molto legata, è triste. L’unica regola dell’africa è l’imprevedibilità. E così
come quando siamo arrivati il primo giorno, due settimane fa, assistiamo alle spettacolari
prove del coro dei giovani della parrocchia che mi riscaldano il cuore con le
loro voci forti e vive. Il cerchio si chiude, la nostra esperienza alla Cafasso
si è conclusa ed i ragazzi sono stati felici (hanno pianto ci ha detto Wolf!).
Ma adesso bisogna essere carichi per la prossima settimana! Mombasa ci aspetta!
Noemi Caruggi
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