Nella ricorrenza dei 66 anni dalla cacciata del popolo palestinese, il ricordo di quei giorni per i palestinesi in Libano è l'occasione per rivendicare il proprio diritto al ritorno. E per trasmetterne la memoria alle nuove generazioni.
Speravano
di celebrare l'anniversario della Nakba, il giorno della catasfrofe,
a Maroun
al-Ras, all'estremo sud del Libano, pochi metri dal confine con
Israele. “Da
lì possiamo almeno vedere la Palestina; molti dei nostri villaggi
sorgevano proprio a pochi passi dal confine odierno”
tengono a precisare gli anziani del campo di Beddawi, nel nord del
Libano vicino a Tripoli. Ma da tre anni a questa parte la General
security libanese non rilascia ai palestinesi il permesso per
manifestare alla frontiera: nel 2011 una decina di manifestanti sono
stati freddati dall'esercito israeliano durante le manifestazioni e
da allora lo stato libanese ritiene pericoloso ed instabile
permettere la commemorazione della Nakba a pochi metri dai mitra
israeliani.
I
discendenti di quelle famiglie fuggite in Libano durante l'offensiva
sionista ad oggi oggi sono più di 450.000 persone, per lo più
rinchiusi nei 12 campi ufficiali gestiti dall'UNRWA, l'agenzia delle
Nazioni unite che si occupa di assistenza e tutela dei rifugiati
palestinesi in Medio Oriente. Il 66esimo anniversario della Nakba
giunge in un momento particolarmente critico che risente anche del
vicino conflitto siriano: l'atmosfera in molti dei campi, in
particolare in quelli attorno a Sidone, è particolarmente tesa
anche per l'arrivo di decine di migliaia palestinesi presenti in
Siria dal 1948.
Nel
campo di Beddawi, 5 km da Tripoli, ai circa 40.000 PRLs ( palestinian
refugees from Lebanon) si sono aggiunti più di 10.000 persone in
fuga della Siria, molti di loro provenienti dal purtroppo celebre
campo di Yarmouk. 50.000 persone in poco più di un metro quadro: un
sovraffollamento spaventoso in un ambiente privo di qualsiasi
servizio e caratterizzato da condizioni di vita ai limiti dell'umano.
Alla
vigilia della ricorrenza della Nakba, a Beddawi la tensione sembra
scomparire, per lasciar spazio al ricordo e alla ricorrenza
dell'evento che ancora oggi condiziona pesantemente il vivere
quotidiano dei circa 5 milioni palestinesi dispersi per il globo.
Complice
anche il rifiuto delle autorità libanesi, le circa 20 NGOs presenti
hanno deciso di comune accordo di dedicare l'anniversario ai bambini
del campo, che ormai costituiscono la terza generazione di
popolazione nata al di fuori della Palestina.
“Proprio
per tenere viva la memoria di quei giorni ed per riaffermare diritto
al ritorno nella propria terra abbiamo deciso di mostrare alle
giovani generazioni del campo cosa significhi Palestina” tengono a
precisare gli organizzatori.
Lungo
un vicolo posto tra due scuole dell'UNRWA è un moltiplicarsi di
volti, fotografie, mappe, così come vestiti e strumenti tradizionali
palestinesi. Decine di donne anziane, poco più che bambine nel '48,
spiegano minuziosamente ai bambini l'utilizzo del ferro da stiro a
carbone e la modalità di produzione del burro secondo i dettami
antichi . A pochi metri di distanza, all'ombra di un'enorme bandiera
palestinese appositamente sistemata sopra il vicolo, i bambini hanno
la possibilità di assaggiare gli immancabili falafel. Lungo il
vicolo, si susseguono centinaia di immagini e slogan inneggianti al
diritto al ritorno e alla liberazione dall'occupazione sionista.
Accanto, fotografie in bianco e nero testimoniano la vita delle
famiglie palestinesi prima della Nakba. Con gli stereo a diffondere
nell'aria canzoni tradizionali palestinesi , sembra quasi di
assistere ad una festa.
“ Non
è una festa, ma una celebrazione”
tiene a precisare Abu Atef, il responsabile del campo per Beit
Atfal Assomoud (la casa dei bambini: resistenza),
una delle principali ONG che ha organizzato questa giornata. “Non
c'è nulla da festeggiare, - prosegue – dopo 66 anni siamo ancora
qui, ospiti di uno Stato che ci ospita ma che non è casa nostra. Se
ne avessimo la possibilità, tutti quanti partiremmo oggi stesso
verso la Palestina solo con i nostri vestiti indosso.”
Sull'obiezione secondo cui un ritorno, sancito da diverse fonti di
diritto internazionale, sarebbe impraticabile nei fatti, Abu Atef
sembra aver chiare le idee: “ Il
villaggio da cui viene la mia famiglia, Al-Buwayziyya,
è stato completamente raso al suolo dalle bande sioniste nel '48:
delle circa 2500 persone di allora a oggi non rimane altro che dei
muri di una casa in mezzo alle sterparglie. Potremmo ricostruire e
tornare ad abitare a casa nostra.”
E
quasi a conferma di ciò, tra l'emozione generale e gli occhi lucidi
dei nonni, i bambini tornando verso casa cantano a gran voce
l'attaccamento alle proprie radici: i vicoli angusti del campo
risuonano al grido di: “Berroach
beddaam naftiiki a-Falestiin”.
“Con
tutto il nostro cuore e con tutto il nostro sangue ti libereremo,
Palestina”.
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