La
Red Jesuita con migrantes è una rete di organizzazioni gesuite
disseminate in tutto il centro america che ha come obbiettivo quello
di appoggiare e accompagnare le persone migranti in questa area
attraverso tre tipi di azione: l’assistenza diretta alla persona
migrante, un lavoro di ricerca ed investigazione sul fenomeno
migratorio e l’appoggio a reti e organizzazioni di migranti che
rivendichino i propri diritti.
Nell'ambito dei cantieri della solidarietà 2017 abbiamo avuto occasione di
incontrare Lea Montes, la direttrice di tale organizzazione a
Managua.
Qui
un breve resoconto della sua esposizione sulla situazione delle
migrazioni in Centro America e alcune considerazioni.
Si
possono individuare tre fasi della migrazione in Centro
America:
negli anni ‘70 la migrazione è
soprattutto dalla campagna alla città,
negli anni ‘80 si verifica una ondata di migrazioni forzate dovute
ai diversi conflitti nella regione, infine negli anni ’90 in
concomitanza con l’inizio della globalizzazione si assiste ad una
trasformazione e ad un aumento del fenomeno migratorio, cambiano le
cause dello spostamento e cambia la composizione dei soggetti in
particolare per quanto riguarda quella che viene definita una crescente feminizzazione delle migrazioni.
Con
l’aumento delle migrazioni a partire dagli anni novanta, cresce in
concomitanza l’effetto delle rimesse sul PIL nazionale dei diversi
Paesi centroamericani. Ad esempio in Nicaragua le rimesse passano da
rappresentare il 2% del PIL
a rappresentarne il 9,6%.
Molte sono le famiglie che sopravvivono in Nicaragua grazie alle rimesse mandate dai parenti migrati in Costa Rica o negli Stati Uniti. E la possibilità di supportare un intero nucleo famigliare, spesso è la ragione che spinge donne e uomini a intraprendere lo spaventoso viaggio verso Nord o verso Sud, le infinite difficoltà e i rischi che la migrazione comporta.
Molte sono le famiglie che sopravvivono in Nicaragua grazie alle rimesse mandate dai parenti migrati in Costa Rica o negli Stati Uniti. E la possibilità di supportare un intero nucleo famigliare, spesso è la ragione che spinge donne e uomini a intraprendere lo spaventoso viaggio verso Nord o verso Sud, le infinite difficoltà e i rischi che la migrazione comporta.
Secondo
alcuni dati riportati dalla dottoressa Montes sarebbero fra le 200 e
400 mila persone, quelle che ogni anno passano il confine messicano.
Il
viaggio attraverso il Centro America è estremamente pericoloso e il
45,7% di coloro che attraversano il Messico
diventano vittime del crimine organizzato. Considerando
l’esponenziale aumento di minori non accompagnati e donne su questa
rotta, alti sono i tassi di violenze e abusi ai danni di questi
ultimi (64% delle donne migranti afferma di aver ricevuto abusi).
Si
calcola che siano approssimativamente 2464 i migranti scomparsi nella
rotta fra Messico e Stati Uniti. Negli anni si sono formati gruppi di
madri che, come le madri di plaza
de Mayo
argentine,
lottano per ottenere giustizia e ritrovare le proprie figlie e i propri desaparecidos.
Nel
film “Desierto” uscito nel 2015, viene rappresentato
tutto l’orrore del passaggio della frontiera in una forma poco
realistica, eppure in parte efficace nel permette
allo spettatore di vivere in un ora e poco più
di film un'ansia
che può ricordare quella che vivono le migranti e i migranti durante tutto il percorso di attraversamento dell'america centrale. Nella pellicola un razzista nordamericano e il suo cane passano il tempo a dare la
caccia ai migranti nel deserto on lo scopo di ucciderli; viene messa in scena una caccia all'uomo che ricorda la
caccia agli schiavi fuggiaschi dalle piantagioni, battute che spesso e
volentieri finivano con i fuggitivi raggiunti e poi sbranati dai cani addestrati, fine che faranno anche diversi dei protagonisti del
film.
Stando
all'analogia si potrebbe aggiungere che per
lo meno gli schiavi, quando riuscivano a fuggire e raggiungere le
montagne, erano liberi, i migranti di oggi quando anche riescano a
passare il confine si ritrovano schiavizzati dal ricatto costante dei
documenti, che nella maggior parte dei casi non otterranno mai e che
li costringerà
all'invisibilità
e allo sfruttamento, spesso quasi schiavistico.
Significativo
è anche il dato
sul numero
di espulsioni, che fra il 2014 e il 2016 ha visto un incremento
soprattutto nei casi effettuati via terra, cioè
direttamente alla frontiera, su quelle via aereo, evidenziando
l’inasprimento dei controlli frontalieri.
“La
frontiera degli Stati Uniti è ormai in Messico” constata la
relatrice, “grazie ad un processo di militarizzazione e
securitarizzazione della frontiera che è ben precedente all'era Trump, che ha le sue radici nel rafforzamento militare delle
frontiere nel 1994, anno in cui viene firmata la NAFTA (North
American Free Trade Agreement) e in cui di contro si assiste al levantamiento zapatista".
Dal '94 in avanti diverse sono state le riforme e i provvedimenti di rafforzamento dei confini, in particolare a seguito dell'attentato del 2001, che ha portato nel 2002 una nuova politica per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti eccezionalmente restrittiva rispetto alla mobilità. E poi ancora riforme nel 2005 con un incremento della polizia di frontiera, nel 2008 con il trattato internazionale di sicurezza siglato da U.S.A. e Messico e ancora nel 2014 con un'ulteriore inasprimento dei controlli alla frontiera. Conclude Lea Montes: “il muro di Trump
esiste già”.
Esattamente
come in Europa il processo di apertura delle frontiere alle merci,
viene immediatamente contrappesata da una chiusura e un controllo sul
passaggio delle persone considerate un “rischio” per la sicurezza
dei paesi coinvolti nei trattati di libero commercio e
la conseguente militarizzazione dei territori.
Quello
che la nostra interlocutrice ci fa capire è che il muro di Trump,
non è la volontà di un folle che verrà costruito da un giorno con l’altro
fuori da qualsiasi legge, ma un processo ben radicato nel tempo che pietra dopo pietra miete costantemente vittime in nome della libertà di pochi e dello
sfruttamento di molti. Di tale processo Trump non è altro che
l’ultimo e più convinto portavoce.
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