lunedì 11 settembre 2017

Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli



Non è facile provare a riassumere in un singolo post quella che è stata la mia esperienza in Moldova. Al ritorno in Italia tante persone mi hanno chiesto di raccontare, di parlare, di provare a spiegare qualcosa di una terra che a noi italiani è pressoché sconosciuta. Anche il nome, spesso, ci viene difficile da ricordare. Si chiamerà Moldova o Moldavia? È uno stato indipendente o è semplicemente una regione della Romania? Queste e altre mille domande frullano nella testa di ciascuno che parla con me, come frullavano nella mia prima di partire per tre settimane verso quella terra, allora, sconosciuta. La verità è che per noi italiani la Moldova, se e quando significa qualcosa, ci ricorda solo le tantissime ragazze, e donne, che vengono nel nostro paese in cerca di un po’ di fortuna e sostentamento economico, scappando da una terra natia che non le può vedere protagoniste. Ma in realtà questa è solo una piccola parte del tutto. Ho provato quindi a raccontare un po’ di quello che è stata la Moldova per me partendo da una singola parola, una parola ambigua e ricca di contraddizioni come lo è la terra che mi ha accolto per tre settimane.

Moldova è povertà’. Ebbene sì, la Moldova è un paese poverissimo. Con un PIL di circa 7 miliardi di dollari, la Moldova è addirittura il paese più povero d’Europa. Il settore industriale è decisamente debole e tutta l’economia si sostenta, o almeno tenta di farlo, sul settore agricolo. Nella pratica, questo significa che il paese dipende per molti dei suoi fabbisogni- sia nutrizionali che energetici- dalle importazioni, e questo fa sì che la Moldova si trovi gioco forza legata all’influenza russa. Cosa significa però, e cosa ha significato per noi, questa povertà? Significa che il PIL pro capite a parità di potere d’acquisto (ossia considerando il valore dei beni che, con la somma in questione, possono essere acquistati in Moldova) è di circa 5000 dollari all’anno. Che, per noi italiani, vorrebbe dire poco meno di 350 euro al mese. Oltre ai freddi numeri, questa povertà era evidente in tanti momenti del nostro quotidiano. Vedevamo la povertà nei volti delle persone, spesso scoraggiati o diffidenti. Vedevamo la povertà nei piccoli supermercati, dove poche merci, e sempre le stesse, erano disponibili, e l’abbondanza di scelta che abbiamo noi nelle nostre città era solo un ricordo lontano. Vedevamo la povertà anche nei bambini che accoglievamo ogni mattina per la nostra “tabara”, una sorta di oratorio nostrano; bambini in grado di emozionarsi e rimanere stupiti da ogni singola cosa, anche la più semplice, perché sono stati cresciuti nell’assoluta mancanza di risorse.

Eppure i loro occhi, le loro mani, le loro menti non si fermavano lì. C’era qualcosa di più grande che dava un senso a quella povertà, qualcosa che è difficile comprendere realmente finché non lo tocchi con mano. Qualcosa che, però, è scritto a chiare lettere nel Vangelo: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli” (Mt 5,3). Questi ragazzi, come tante altre persone che abbiamo incontrato nella nostra esperienza di volontariato, ci hanno saputo realmente mostrare cosa sia la povertà di spirito. Una povertà che si manifesta nello stare bene con sé stessi, e con gli altri, a prescindere dalla propria ricchezza, a prescindere dalle proprie distrazioni e dalle proprie voglie. Una povertà che è anche capacità di riconoscere che si è parte di un disegno più grande, che il nostro io non è necessariamente al centro dell’universo, ma c’è un “Noi” molto più grande e molto più importante di cui noi siamo una semplice componente, per quanto essenziale agli occhi di Dio. Come ha ricordato Papa Francesco nel suo Discorso ai giovani per la XXIX Giornata Mondiale della Gioventù, è necessaria una conversione riguardo ai poveri, una conversione che riporti il valore della solidarietà al centro della cultura umana. Solo così è possibile vincere la cultura dell’indifferenza che fa sempre più parte del nostro quotidiano. Al tempo stesso, però, c’è da fare un ultimo, fondamentale passaggio, nel quale l’esperienza di questa estate si è rivelata cruciale. Le persone che abbiamo incontrato ci hanno fatto capire come i poveri non siano solo persone a cui è necessario dare qualcosa. Certo, molte volte è così e sicuramente questo aspetto è quello più appariscente ai nostri occhi. Ma c’è qualcos’altro, in sottofondo, che spesso ci sfugge. Infatti le persone più semplici, con meno mezzi, i poveri in spirito ma spesso anche materialmente, hanno in realtà tantissimo da offrirci. Il rispetto per la propria dignità, l’importanza dell’umiltà, il valore, anche simbolico, della generosità. Come la vedova che getta le sue uniche due monete nel tesoro (Lc 21,1-4), anche i bambini delle nostre tabare, come anche le ragazze disabili che abbiamo aiutato nella seconda settimana, erano capaci di donare con gioia tutto quello che avevano. Poteva essere poco, poteva essere sporco, poteva essere semplice, ma rappresentava in quel momento per loro- e per noi che ricevevamo- il bene più prezioso.

Questo è l’insegnamento più importante che ho portato a casa. L’insegnamento della povertà e della sua accettazione, non remissiva ma impregnata di voglia di fare e cambiare, quella che animava ad ogni ora del giorno i volontari moldavi con i quali abbiamo lavorato. La Moldova è un paese povero, è vero. E purtroppo è anche un paese con poche prospettive di rilancio economico e politico, almeno nel breve termine. Ma la povertà può e deve essere la base per una nuova crescita, che sia il più possibile sostenibile e a beneficio di tutti, perché le speranze racchiuse negli occhi dei nostri bambini non rimangano imprigionate ma possano, finalmente, prendere il volo. Perché anche i Moldavi hanno diritto a un pezzettino del regno dei cieli già su questa terra.



Francesco Gatti

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