Non è facile provare a riassumere in un singolo post
quella che è stata la mia esperienza in Moldova. Al ritorno in Italia tante
persone mi hanno chiesto di raccontare, di parlare, di provare a spiegare
qualcosa di una terra che a noi italiani è pressoché sconosciuta. Anche il
nome, spesso, ci viene difficile da ricordare. Si chiamerà Moldova o Moldavia?
È uno stato indipendente o è semplicemente una regione della Romania? Queste e
altre mille domande frullano nella testa di ciascuno che parla con me, come
frullavano nella mia prima di partire per tre settimane verso quella terra,
allora, sconosciuta. La verità è che per noi italiani la Moldova, se e quando
significa qualcosa, ci ricorda solo le tantissime ragazze, e donne, che vengono
nel nostro paese in cerca di un po’ di fortuna e sostentamento economico,
scappando da una terra natia che non le può vedere protagoniste. Ma in realtà
questa è solo una piccola parte del tutto. Ho provato quindi a raccontare un
po’ di quello che è stata la Moldova per me partendo da una singola parola, una
parola ambigua e ricca di contraddizioni come lo è la terra che mi ha accolto per
tre settimane.
Moldova è povertà’.
Ebbene sì, la Moldova è un paese poverissimo. Con un PIL di circa 7 miliardi di
dollari, la Moldova è addirittura il paese più povero d’Europa. Il settore
industriale è decisamente debole e tutta l’economia si sostenta, o almeno tenta
di farlo, sul settore agricolo. Nella pratica, questo significa che il paese
dipende per molti dei suoi fabbisogni- sia nutrizionali che energetici- dalle
importazioni, e questo fa sì che la Moldova si trovi gioco forza legata
all’influenza russa. Cosa significa però, e cosa ha significato per noi, questa
povertà? Significa che il PIL pro capite a parità di potere d’acquisto (ossia
considerando il valore dei beni che, con la somma in questione, possono essere
acquistati in Moldova) è di circa 5000 dollari all’anno. Che, per noi italiani,
vorrebbe dire poco meno di 350 euro al mese. Oltre ai freddi numeri, questa
povertà era evidente in tanti momenti del nostro quotidiano. Vedevamo la
povertà nei volti delle persone, spesso scoraggiati o diffidenti. Vedevamo la
povertà nei piccoli supermercati, dove poche merci, e sempre le stesse, erano
disponibili, e l’abbondanza di scelta che abbiamo noi nelle nostre città era
solo un ricordo lontano. Vedevamo la povertà anche nei bambini che accoglievamo
ogni mattina per la nostra “tabara”, una sorta di oratorio nostrano; bambini in
grado di emozionarsi e rimanere stupiti da ogni singola cosa, anche la più
semplice, perché sono stati cresciuti nell’assoluta mancanza di risorse.
Eppure i loro occhi, le loro mani, le loro menti non si
fermavano lì. C’era qualcosa di più grande che dava un senso a quella povertà,
qualcosa che è difficile comprendere realmente finché non lo tocchi con mano.
Qualcosa che, però, è scritto a chiare lettere nel Vangelo: “Beati i poveri in
spirito, perché di essi è il regno dei cieli” (Mt 5,3). Questi ragazzi, come
tante altre persone che abbiamo incontrato nella nostra esperienza di
volontariato, ci hanno saputo realmente mostrare cosa sia la povertà di
spirito. Una povertà che si manifesta nello stare bene con sé stessi, e con gli
altri, a prescindere dalla propria ricchezza, a prescindere dalle proprie
distrazioni e dalle proprie voglie. Una povertà che è anche capacità di
riconoscere che si è parte di un disegno più grande, che il nostro io non è
necessariamente al centro dell’universo, ma c’è un “Noi” molto più grande e
molto più importante di cui noi siamo una semplice componente, per quanto
essenziale agli occhi di Dio. Come ha ricordato Papa Francesco nel suo Discorso ai giovani per la XXIX Giornata
Mondiale della Gioventù, è necessaria una conversione riguardo ai poveri, una
conversione che riporti il valore della solidarietà al centro della cultura
umana. Solo così è possibile vincere la cultura dell’indifferenza che fa sempre
più parte del nostro quotidiano. Al tempo stesso, però, c’è da fare un ultimo, fondamentale
passaggio, nel quale l’esperienza di questa estate si è rivelata cruciale. Le
persone che abbiamo incontrato ci hanno fatto capire come i poveri non siano
solo persone a cui è necessario dare qualcosa. Certo, molte volte è così e
sicuramente questo aspetto è quello più appariscente ai nostri occhi. Ma c’è
qualcos’altro, in sottofondo, che spesso ci sfugge. Infatti le persone più
semplici, con meno mezzi, i poveri in spirito ma spesso anche materialmente,
hanno in realtà tantissimo da offrirci. Il rispetto per la propria dignità,
l’importanza dell’umiltà, il valore, anche simbolico, della generosità. Come la
vedova che getta le sue uniche due monete nel tesoro (Lc 21,1-4), anche i
bambini delle nostre tabare, come
anche le ragazze disabili che abbiamo aiutato nella seconda settimana, erano
capaci di donare con gioia tutto quello che avevano. Poteva essere poco, poteva
essere sporco, poteva essere semplice, ma rappresentava in quel momento per
loro- e per noi che ricevevamo- il bene più prezioso.
Questo è l’insegnamento più importante che ho portato a
casa. L’insegnamento della povertà e della sua accettazione, non remissiva ma
impregnata di voglia di fare e cambiare, quella che animava ad ogni ora del
giorno i volontari moldavi con i quali abbiamo lavorato. La Moldova è un paese
povero, è vero. E purtroppo è anche un paese con poche prospettive di rilancio
economico e politico, almeno nel breve termine. Ma la povertà può e deve essere
la base per una nuova crescita, che sia il più possibile sostenibile e a
beneficio di tutti, perché le speranze racchiuse negli occhi dei nostri bambini
non rimangano imprigionate ma possano, finalmente, prendere il volo. Perché
anche i Moldavi hanno diritto a un pezzettino del regno dei cieli già su questa terra.
Francesco Gatti
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