lunedì 4 settembre 2017

Il mio angolo di Libano

"Quando torni a casa devi scrivere qualcosa per raccontare questo Cantiere": mi ripeto questa frase da quando sono partita.
Perché un'esperienza così deve essere raccontata, deve poter diventare una storia da cui trarre qualche insegnamento. Ma io non sono un'abile narratrice e questa volta non riesco a trovare le parole nemmeno per raccontare a voce qualcosa di più di qualche aneddoto divertente, figuriamoci per scrivere una storia. E per di più il Libano è un Paese impossibile da categorizzare o al quale affibbiare una definizione chiara, possibilmente breve e rassicurante, mi perderei immediatamente tra le contraddizioni che lo lacerano ma che in fondo lo costituiscono e nutrono: non posso nemmeno scegliere quindi di raccontarvi il Libano.

Beirut, Downtown: la moschea principale e la chiesa ad essa adiacente
Allora proverò a condividere qualche riflessione, qualcosa che ho imparato in questo Paese.
Durante il cantiere ho imparato a lasciar perdere la mia smania di "fare", per iniziare a "stare". Stare, semplicemente, perché stare permette di ascoltare meglio. Ascoltare storie raccontate un po' in arabo e un po' a gesti, ascoltare le risate spontanee dei bimbi ma anche i litigi furiosi tra le mamme, ascoltare il silenzio pesante di una donna che non ha nessuna intenzione di provare a partecipare all'attività che le stai proponendo. L'apatia fa un chiasso assordante.
E piano piano il mio ascoltare che poteva sembrarmi un po' arido e piatto ha iniziato a diventare "sentire": sentire il bisogno di affetto e di attenzione dei bambini, sentire la voglia di imparare carica di ansia delle adolescenti, sentire la stanchezza esasperata delle donne. Sentire, fin dentro le ossa. Stare, ascoltare, sentire, senza pretendere di capire niente. A volte semplicemente non c'è niente da capire. E ho iniziato a rendermi conto di quanto fosse indispensabile che la mia presenza fosse una presenza discreta. Spesso in queste settimane ho sentito il bisogno di restare in un angolo ad osservare, lasciando che i volti, i profumi, le storie che stavo incontrando fossero gli unici protagonisti della mia esperienza.


Non voglio che nessuno si ricordi di me, vorrei che si fossero già dimenticati il mio nome, il mio viso. Ho temuto e odiato l'idea, forse un po' presuntuosa, che la partenza di noi cantieristi potesse causare un qualunque ulteriore trauma, anche minimo, nelle persone con cui abbiamo trascorso il tempo del nostro servizio. Ho sempre cercato ansiosamente la discrezione, consapevole di avere ben poco da offrire, forse solo un sorriso e un po' di entusiasmo, e invece tantissimo da ricevere.

Porto a casa mille dubbi, troppe domande e forse solo questo di concreto: un po' di consapevolezza. Consapevolezza che l'odio e la violenza possono travolgere chiunque, con una forza d'impatto spaventosa. Consapevolezza che il mondo non si divide in buoni e cattivi, in bianchi e neri: è fatto delle più svariate tonalità di grigio. Consapevolezza che la storia la scrive chi vince, e i poveri perdono sempre. E consapevolezza che, di fronte all'amore stanco ma tenace di una madre che ha fatto dei propri figli la sua unica ragione di vita, mi sono sentita anche io accolta e protetta.

Claudia

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