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mercoledì 27 settembre 2017

Nicaragua: ESSERE PIENI

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"Ehi ciao! Come è andata in Nicaragua?"
"Sono piena!"

Sono piena di me.
Sembra tanto l'esordio del diario di un egocentrico, e magari lo è. Ma in realtà in Nicaragua mi sono riempita anche di me. Della solita me buffa e impacciata che il più delle volte sembra un cartone animato. Ma anche di una me più decisa, più disposta a raccontarsi, più ferma sulle proprie convinzioni ma anche disposta ad ascoltare. Ho trovato me, ma ho anche scoperto una me che non conoscevo. Il Nicaragua mi ha ricordato che non sono ancora arrivata, che è tutto in fase di costruzione, anche la mia persona.

Sono piena di te.
Si proprio te, te che stai leggendo, te che hai seguito il mio viaggio e che mi hai anche raccontato cosa ne pensavi. Te che eri a casa, al lavoro o sui libri, o forse in viaggio, ma che un po' eri anche con me. Te che dalla tua casa hai camminato con me e hai scoperto questo nuovo mondo insieme a me. Te che sei stato il ricordo delle mie origini, il mio punto fermo, che mi ricorda sempre da dove vengo e chi sono.

Sono piena di lei e di lui.
Sono piena di quel ragazzo che mi chiama "chele", bianca, e mi fa sentire così strana e forse quasi sporca.
Sono piena di quel nonnetto incontrato per le strade di Nueva Vida che in due minuti mi ha raccontato la sua vita piena di fatiche e di dolore.
Sono piena di quella bambina giovane con una pancia grande che arriva troppo presto.

Sono piena di noi.
Sono piena di Anna, Filo, Ale, Mati e Ire.
I miei compagni di viaggio che hanno camminato al mio fianco e spesso anche davanti a me. Ma con cui ho vissuto e ho incontrato. Sono l'anima della festa, ma sopratutto il cuore pulsante del mio Nicaragua. Perché con loro scoprire e scoprirsi è stata tutta un'altra storia.

Sono piena di voi.
Sono piena dei bambini del Centro Escolar. Di quelle guanciotte piene sporche di terra e di quegli occhi quasi neri che viaggiano veloci posandosi su tutto ciò che li circonda. Di quella voglia matta di giocare, a pallone, a basket, a baseball, non importa a cosa, l'importante è giocare. Di quel ballare con i fianchi così sciolti da sembrare senza ossa. Di quei sorrisi pieni, ma anche di quei sorrisi stanchi e con qualche lacrima di troppo. Di quegli abbracci stretti stretti intorno alla mia pancia.

Sono piena di loro.
Di Felix, che ci ha guidati e accompagnati, facendoci sentire a casa, ma sopratutto una famiglia.
Di Oscar, che tra un passo di ballo e un dribbling a pallone, ci ha mostrato quanto è bello insegnare e sopratutto amare ciascun bambino per quello che è.
Di Stefi, che non ci ha mai fatto sentire soli, e ci ha accompagnati nella scoperta di Nueva Vida.
Di tutti i professori del Centro Escolar che sono una grande famiglia che sa volersi bene.
Di tutte le persone che lavorano a Redes che hanno dato colore e gioia alle nostre giornate.

Il Nicaragua mi ha riempito.
Di emozioni forti, di sentimenti contrastanti, di volti nuovi, di sguardi intensi, di rumori mai sentiti, di sapori a volte troppo piccanti per me. Ma sopratutto mi ha riempito di persone. Di persone che ormai sono parte di me, che anche se hanno fatto con me un piccolo tratto di strada, di sole tre settimane, è come se camminassero con me da una vita intera.

Ed ora io mi sento piena da scoppiare.
Ma non un pieno da post pranzo di Natale che l'unica cosa al mondo che vuoi fare è quella di morire sul divano finché non sarà ora di dormire. Ma un pieno straboccante che non può più contenersi che deve raccontare, che deve dire, che deve far sapere, che deve urlare più forte che può quello che ha visto e sentito.

Sono un pieno che non può più tacere.

Grazie Nica!
Giù


venerdì 5 agosto 2016

Libano: sale d'aspetto

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Tempo.
Chi di numeri se ne intende dice che è un'ora e sempre un'ora, ma io credo che un'ora a volte può durare una vita intera. Pensaci. Se la lezione è noiosa quanto ci mette la lancetta a spostarsi anche solo di un minuto? E quando invece sei felice quanto ci mette ad arrivare l'ora di andare a casa?

Tempo pieno.
A Milano ci insegnano così, riempi tutte le tue ore, incastra i tuoi impegni uno dietro l'altro, non lasciare buchi per ritagliarti dei momenti liberi, che in realtà poi non ti prenderai mai. Devi ottimizzare il tuo tempo. I ronci chic, come me, si giustificano dicendo che lo facciamo perché siam gente che coglie ogni opportunità, che deve vivere ogni cosa gli passi davanti agli occhi, ma la verità è che siamo anche noi imprigionati in questo circolo vizioso del "o mangio il tempo o il tempo mi mangerà".

Tempo pieno di pensieri.
Se corri non pensi. Male mi mormora già qualcuno. "Sei il frutto di questa società che corre alla velocità di suoi apparecchi elettronici e di quella generazione che non sa più nemmeno come si pensa".

Tempo vuoto.
Oggi non ho nulla da fare. Nessun esame da preparare, nessuna persona da incontrare, solo me e il dolce far nulla. E non so voi, ma quasi questo vuoto mi dà fastidio, perché non riempirlo con qualche cosa fare: una bella gita al lago. Oppure oggi me la prendo scialla, oggi me la prendo comoda, nessun impegno, e anche domani, e anche dopodomani.

Ma poi al tempo pieno ci torno. Forse mi prometterò di non riempirlo proprio tutto il mio tempo, ma ne ho bisogno, e il mio respiro, è quella cosa che si chiama vita.

E se al tempo pieno non ci potessi tornare? Se non dipendesse da me? Se non avessi altra scelta se non che il tempo vuoto, per di più pieno di pensieri, magari non troppo felici, e di responsabilità? Allora un'ora non è più un'ora ma è un tempo infinito, quasi eterno, senza via di fuga. Solo tempo. Quella lancetta non si sposta mai.

Le sale d'aspetto.
Quelle sale dai colori brutti dove aspetti, ma aspetti qualcosa che hai la certezza di aspettare, che sai accadrà anche in un tempo piuttosto ragionevole.

La sala d'aspetto che ho visto oggi però è un salone grande con qualche sedia bianca e un paio di divani, con in televisore che spara Bollywood con sottotitoli in arabo, piena di ragazze, tante ragazze. Con sguardi di attesa, un'attesa di qualcosa, non una specifica, basta qualsiasi cosa, una qualunque che le porti via da quelle sedie e da quei pensieri.

Loro aspettano.
Aspettano noi, forse sperando qualcosa che spezzi la routine. Aspettano forse di sentire il loro nome perché è tempo di ritornare a casa. Perché è così, qui allo shelter per donne migranti, le donne aspettano. Ma quando dico aspettano non sto parlando di un appuntamento prefissato con largo anticipo. Ma aspettano un qualcosa di simile a un miracolo che per arrivare ci può mettere anche anni, non di certo i nostri minuti. Aspettano l'occasione di ritornare a casa, di cancellare forse un po di quelle preoccupazioni che hanno in testa, anche se ne rimangono altre migliaia.


Loro aspettano. Ed io?

Io stasera uscirò di qui, io si posso uscire. Uscirò da questa sala d'attesa e mi muoverò, uscirò e non aspetterò. Se non che si liberino le docce che qui in 15 non è mica una storia facile.
Ma io sono libera di scegliere quando riempire o svuotare il mio tempo. Di poltrire sul divano vagando tra i canti senza alcun interesse o di rivoluzionare la mia vita andando in capo al mondo.
Ma soprattutto io stanotte nel mio letto non aspetto altro che domani, non vedo l'ora, perché si farà qualcosa di nuovo ed è tutto da scoprire. E intanto mi chiedo se anche loro aspettano con ansia il domani. Io aspetterei un domani uguale ad oggi?
Allora un po' capisco cosa siamo qui a fare. A fare il diverso, diverso è buono. A spezzare la routine, a rompere il cerchio. E' come se il nuovo, il cambiamento fosse la salvezza. E mi pare che tanta gente seria lo dica. 

Allora brindo a un domani diverso!
Diverso dalla routine, dagli schemi, perché il cambiamento è vita. Diverso perché oggi certe cose fanno proprio schifo. Chissà mai che il domani sarà migliore.

Buon cammino!
Giù






giovedì 30 giugno 2016

"Infettarsi" di vita

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-Zia, dove vai quest'estate?
-In Libano, vicino alla Siria.
-Ma in Siria c'è la guerra: puoi prenderla!
-Prenderla? Ma non è mica una malattia!
-E invece si. Io e Pietro ne abbiamo discusso. E' un virus che entra nel cuore della gente e li fa combattere.
(M., 9 anni)

E se la guerra fosse un virus?
Come un brutto raffreddore che siamo convinti passerà, ma anzi che guarire si annida dentro di noi, impadronendosi di tutto quello che sentiamo. Diventa così forte che quasi ci dimentichiamo la ragione del primo starnuto, come ci siamo infettati e perché non ci siamo curati. All'inizio pensavamo di poter tenere tutto sotto controllo. Ad ogni sguardo di invidia e di cattiveria ci ripetevamo che sarebbe stato "solo per quella volta". Ma poi non è stata più una volta, ma un'altra ancora, e ancora, la guerra ci è entrata dentro e noi l'abbiamo lasciata fare. E' quasi diventata un'abitudine, un'abitudine del cuore. 
E come si fa a liberarsi da un'abitudine del cuore?

Ma se la guerra ci infetta, non può infettarci anche la vita buona?
Forse che la speranza, la gioia, l'amore, la solidarietà, facciano più fatica a farsi largo nel cuore rispetto alla guerra? Allora forse infettarsi di vita buona è una scelta. Una scelta sincera, voluta, coraggiosa, da prendere ogni giorno, perché altrimenti la guerra si farà padrone di noi. E se funziona come un virus, con il nostro scegliere infetteremo anche gli altri. Anche loro, forse, sceglieranno di non lasciare annidare la guerra nei loro cuori.
E se dessimo vita a una vera e propria epidemia?

Io parto per infettarmi e, perché no, anche infettare.
Infettarmi di vita buona, ma anche di guerra. Perché non si può chiudere la guerra fuori dagli occhi e lontano dal cuore e far finta che non esista. Perché la guerra esiste. Che sia quella delle bombe e dei soldati, quella dell'ingiustizia e del razzismo, quella dell'ignoranza e della povertà, quella del potere e dell'avidità.
Voglio infettarmi della vita, in tutti i suoi lati, quelli più belli e quelli più bui. Per poi scegliere di non lasciare vivere dentro di me la guerra, voglio poterla circondare di vita buona.
Voglio infettare della vita buona che ho incontrato lungo la mia strada fino a qui. Voglio portare le storie e i gesti e il bene delle persone che hanno fatto un pezzo di strada insieme a me per poter dire a chi incontro che la vita buona esiste. La generosità, la solidarietà, l'amore sono cose vere, non solo parole dei libri delle fiabe. 

Forse, un giorno, tutti noi sceglieremo la vita buona, spegnendo e zittendo quella guerra che nasce nei nostri cuori. E forse, quel giorno, sarà la vera rivoluzione.


Giu :)

giovedì 3 settembre 2015

MOLDOVA: i bambini moldavi sono neri?

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18 agosto, Milano. Casa mia.
Pomeriggio con i nipoti raccontando la Moldova.
"Zia, ma i bambini moldavi sono neri?"

Una domanda semplice, spontanea, la più naturale del mondo. La piccola M. conosce bene la storia dei tanti bambini della Guinea Bissau, dove ormai da molti anni è missionario un amico di famiglia. Conosce la loro giornata, i loro riti, le loro abitudini, i frutti strani che mangiano, quanta strada fanno al mattino per andare a scuola, che a volte non hanno tutti i giochi che vorrebbero e nemmeno tutti i materiali per la scuola che gli servirebbero. Mentre racconto, alcune storie di acqua dal pozzo, di bambini con genitori emigrati lontani, di fratelli piccoli che badano a quelli ancora più piccoli risvegliano in lei quelle stesse storie che la mamma gli racconta sui bambini della Guinea Bissau. I bimbi della Guinea sono neri però, quindi la domanda è davvero spontanea: "i bambini moldavi sono neri?".


Quello di M. è un collegamento spontaneo, naturale, tra le sue esperienze di vita, innocente però. Per molti adulti, invece, il fatto che la povertà e le problematiche sociali siano solo un problema del Sud del mondo è una convinzione radicata nella mente, quasi scontata. Siamo "abituati", anche se questo aggettivo non dovrebbe mai essere utilizzato per questo, alle "storie" dell'Africa, del Sud America e di qualche altro paese lontano che vive le sue profonde difficoltà. Sono notizie di ogni giorno, a cui il nostro orecchio ha iniziato a farci l'abitudine. Ma sono storie così lontane, così distanti dalla nostra esistenza europea, la quale, nonostante crisi economiche e difficoltà quotidiane, continua a scorrere veloce e perché no anche felice.

Da un certo punto di vista è quasi rassicurante che queste "storie" provengano da terre così lontane. Questo ci consente di poter prendere le distanze, di sentirci "altro", diversi, di convincerci che qui da noi tutto ciò non accadrebbe mai. La diversità di razza, etnia, colore della pelle, lingua, costumi, riti ci permette di instaurare una distanza rassicurante tra noi e "loro". Quasi un sentimento di superiorità, ma soprattutto di convinzione che siano dinamiche, problematiche, necessità, difficoltà che non ci appartengono, che non potranno mai accadere a noi.

I bambini moldavi di Costuleni e Coscalia sono bianchi però, esattamente come noi. Hanno sì quei stupendi occhi azzurri e capelli biondi che a una "morettona" come me mancano, ma ci sono anche bambini con capelli scuri e ricci come i miei e la differenza allora è praticamente inesistente. Sono bambini, all'apparenza, come quelli di Rho, Garbagnate, Erba e via dicendo, sono esattamente come loro con gli occhi grandi che guardano sempre in alto capaci di stupirsi e meravigliarsi ad ogni più piccolo rumo re.


E questa somiglianza a volte fa paura, non c'è più possibilità di porre una distanza tra noi e loro, non c'è possibilità di dire che sono diversi da noi, che i loro problemi sono di un altro "mondo".

La Moldova è Europa, forse non politicamente, ma pur sempre Europa. La richiesta di ingresso nell'Unione Europea giace ancora sul tavolo di qualche burocrate. E l'Unione Europea non è poi così lontana, i confini della Romania, membro UE, sono oltre il fiume Prut che costeggia proprio la città di Costuleni. Basta allungare il braccio per sentirla già più vicina.

Siamo vicini di casa. Siamo così vicini eppure così lontani.
La Moldova ricorda un po' l'Italia di 50 anni fa. Fortemente rurale, con una campagna piena di animali, con i pozzi dell'acqua, con il vino fatto in casa, con uomini e donne che si rimboccano le mani negli orti, con bambini che corrono nelle vie sterrate giocando a piedi nudi e con la faccia sporca di terra, con una generosità contadina che viene dal cuore capace di offrirti tutto ciò che possiede e anche di più, con molti cari emigrati all'estero in cerca di un lavoro e di maggiori opportunità.


La Moldova è una terra senza generazione intermedia perché tutta all'estero a lavorare. E' un popolo di anziani e di bambini, tanti bambini. E' un paese dove si è costretti a crescere in fretta, ad assumere responsabilità, a prendersi cura dei propri cari e di sé stessi.

E' un paese con una vasta campagna da cui i giovani scappano perché non è in grado di offrirgli tante opportunità. E' un paese dove gli anziani rimpiangono il blocco sovietico, perché "si stava meglio quando si stava peggio", ma per lo meno una buona condizione di vita era garantita a tutti. 


La Moldova mette in crisi un po' la certezza che in Europa si stia tutti bene, che tutti abbiano pari opportunità, che sia un "mondo felice", dove le difficoltà e le problematiche siano minime.

La Moldova ti costringe a guardarti intorno, ad aprire gli occhi, a renderti conto che di situazioni, difficoltà, problematiche, bisogni è pieno il mondo, anche in Europa, anche in Italia, anche a Milano, anche nel tuo quartiere, anche nella tua strada, anche nel tuo palazzo, anche nella vita del tuo vicino.

E mentre apro gli occhi e mi guardo intorno, mi ricordo.
Maggio 2014, Oratorio. Gruppo Adolescenti.
"Giulia, c'è tutta questa gente che va ad aiutare in Africa, in Sudamerica, bello, ma a noi chi ci pensa? Anche qui ci sono tanti problemi, cose che non vanno, e a noi chi viene ad aiutarci?"

Con l'arroganza che solo un adolescente può avere mi costringe a pensare e a guardare a tutto quello che ancora c'è da fare. Anziani in difficoltà, giovani famiglie in ristrettezze economiche, persone di tutte le età che affollano le mense della Caritas, adolescenti in cerca di qualcosa, senza sapere bene cosa. Queste sono difficoltà di qui, delle nostre città, del nostro oggi.

E la Moldova è stata questo. E' stata una botta forte in testa, un invito ad aprire gli occhi, ma soprattutto il cuore; a guardare tra la mia gente, nella mia città, nelle mie strade; a capire che la povertà e la ricchezza hanno più di una faccia e a volte è difficile riuscire a scorgerle nel tram-tram delle nostre vite; a donarsi e anche un po' ricevere, per donare ancora, sempre di più; a farsi avanti e metterci la faccia per fare qualcosa, anche una cosa piccolissima, come piantare un cestino in mezzo a una grande strada. Un invito ad AMARE.

Si riparte da qui.                                                                                                                            
Grazie Moldova!

Giù :)

martedì 18 agosto 2015

MOLDOVA: l'acqua è FINITA

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L'acqua del pozzo è FINITA. Non ho mai usato questo aggettivo per l'acqua. Si finiscono le scorte di cibo nel frigorifero e in dispensa, ma l'acqua mai, scorre sempre fuori dal rubinetto non appena si apre. L'acqua non finisce mai, eppure una mattina in Moldova l'acqua è finita.
E non c'è niente da fare, bisogna aspettare che il pozzo si riempia da solo, ma per quel giorno si lesina l'acqua. Niente lavaggio faccia e denti al mattino e anche per i piatti e panni si aspetta finché c'è un po d'acqua. E quando torni a casa dopo una mattinata nella terra con i bambini, non potersi lavare le mani è pura sofferenza.
È proprio vero che quando qualcosa manca ne senti sempre più il bisogno, come se il solo fatto che mancasse ti facesse rendere conto di quanto è importante.
È servito un pozzo vuoto per farmi capire la grande fortuna di un rubinetto sempre pieno d'acqua.
E stamattina mentre apro il rubinetto ringrazio di cuore quest'acqua che scorga giù in fretta e sto attenta a non usarne più del necessario pensando ai miei amici moldavi che forse hanno il pozzo vuoto questa mattina.
A un domani con acqua per tutti!

Giu! :)


domenica 9 agosto 2015

MOLDOVA: l’amore ai tempi di Costuleni

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Marco chiama: si va al monastero con parinte Anatol, il prete del villaggio, un uomo enorme, grande grosso, con la barba lunga e la veste nera lunga fino ai piedi. Tutte in divisa, gonna lunga e foulard della nonna saliamo sulla camionetta sovietica di parinte, che sembra essere rimasta alla seconda guerra mondiale. E poi su per la montagna, tra buche e strade strette, con i rami degli alberi che sbattono forte contro i vetri. Infine, nascosto tra gli alberi c’e' una vecchia colonia sovietica per bambini che parinte ha comprato per fare un monastero dedicato a Adelin e Natalia. Una piccolo stanza piena zeppa di icone, quadri, ornamenti, offerte in cibo e preghiere ci accoglie in questo mondo di preghiera e silenzio.
E proprio davanti all’ingresso c’e' la vera chicca. Due alberi cresciuti vicini riuniscono i loro rami in un caldo abbraccio insieme. Il simbolo dei santi Adelin e Natalia, una coppia nella fede, simbolo di amore e famiglia. Un amore che si costruisce sulle identita' del singolo per poi unirsi e costruire qualcosa di ancora piu' bello. Una famiglia che fonde forte le sue radici nella storia del singolo per scrivere una nuova storia nel presente e nel futuro. Fa pensare questo amore tutto al naturale, forte e resistente, soprattuto in questi tempi in cui la famiglia e' un tema che scotta.
L’amore al tempo di Costuleni sono questi due alberi. Un ritorno alla natura che qui sembra regnare e dominare felice. Un ritorno al significato e alla necessita' di una famiglia forte. Un ritorno alle radici della storia che si perde tra il racconto popolare e la storia vera. Un ritorno alla semplicita' che per noi sembra quasi piu' difficile che vivere le nostre vite complicate.
E dunque buon cammino per un domani pieno di amore!




Giu! :)

martedì 4 agosto 2015

MOLDOVA: sono partita per davvero

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Alla fine la valigia sono riuscita a chiuderla, con qualche difficoltà e decisamente qualche problema di peso, ma si è chiusa. Il volo l'ho preso e sono pure arrivata. E quindi eccoci: "benvenuti Moldova" e che bella storia, ragazzi!
Costuleni è già qui, con la sua vecchia scuola, ancora in fase di costruzione, ma che ormai ci siamo abituati a chiamare casa.n
E la TESTA sta imparando a tagliare i pomodori alla maniera moldava, a pronunciare qualche parola in questa lingua fino ad oggi sconosciuta, a lasciare entrare questo mondo così vicino eppure così lontano.
E il mio CUORE già batte all'impazzata, correndo dietro alle mille cose che ci sono da vedere e da scoprire. Si è "dilatato" un po di più per fare entrare questi splenditi raggi di sole, amici cantieristi, che mi accompagneranno in questa grande avventura. E si è riempito di gioia nel riuscire a comunicare in un misto rumeno-italiano-russo nel tentativo di mettere qualcosa di pronto in tavola. Si è riempito d'amore al sentire l'accoglienza che questa gente ci ha riservato con bicchieri di vino e cetrioli con il miele.
E le mie MANI si sono congelate nell'acqua fredda dove laviamo i piatti ogni sera e si sono scaldate nell'abbraccio di un nuovo amico.
E i miei PIEDI hanno camminato nella sabbia del fiume giusto prima di tuffarsi in acqua ad un passo dal confine rumeno. E hanno camminato per sentieri stretti e sterrati del villaggio verso il "negozietto", un piccolo negozietto di pochi metri quadrati, ma pieno dell'essenziale è molto più.
E i miei OCCHI hanno visto una capitale con palazzi grandi e case piccole, con strade ampie e buche profonde, vecchi lussuosi alberghi abbandonati a loro stessi, ancora imponenti per dimensioni ma senza più il fascino di un tempo. E ho visto il camioncino di Diaconia nel centro della città a dare pasti caldi a chiunque fosse li, zuppa e pane, un bene per lo stomaco e per lo spirito. E ho visto un villaggio perso nel verde, con salite e discese, con tante case con giardini grandi, con la vite a due passi dalla porta di casa, tante anatre e galline e in lontananza un bel cavallo ma di gente ancora poca.
E la mia BOCCA ha assaporato le cipolle crude in insalata di verza, che mai in Italia mi sarei sognata di mangiare. E ha cantato a squarcia gola canti e bans che da noi al feriale non si usano più. 
E le mie ORECCHIE hanno sentito Svetlana, la mia giovane e bella compagna di volo, "italiana" ormai da 8 anni, che torna qui a casa solo ad agosto, quando il suo lavoro in uno studio da commercialista a Milano le lascia un attimo per respirare, ma di tornare per davvero in Moldova non ci pensa più. E ho sentito Vladimir, fuori da chiesa dopo la messa della domenica, che ci racconta il suo matrimonio con una giovane ucraina di ormai tanti anni fa, mentre mi offre un bel bicchiere di vino perché in chiesa gli ho scattato una foto.
Mi sono messa in cammino ed è una meraviglia, la strada è ancora lunga e non vedo l'ora!
Buon cammino cari!

Giù! :)

martedì 28 luglio 2015

Moldova: IO PARTO MA...

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Maggio 2012. Arese, Liceo Falcone Borsellino.
Cogestione. Incontro con "Medici con l'Africa - CUAMM".
Foto dell'Africa, racconti di una terra lontana, di un mondo così lontano. Storie di uomini e donne che hanno deciso di mettersi a servizio, a disposizione, spendendo il loro tempo, le proprie risorse e capacità per gli altri. Storie di medici, idraulici, elettricisti, uomini comuni. Lavoro duro, fatica, sudore, difficoltà. PARTENZA, perché di questo si tratta.

Oggi. Luglio 2015. Rho, camera mia.
Sulla porta, tra una frase e l'altra, riscopro quel brano datoci all'incontro del CUAMM tre anni prima. Una frase attira la mia attenzione: "io parto, ma tu non restare".
Io sto partendo: la valigia è aperta sul letto, abiti sparsi per la stanza in attesa di una collocazione. E proprio ora che io parto, quelle parole mi risuonano forte in testa. Proprio ora che tento, non riuscendoci, a infilare tempere, vestiti e giochi in questo spazio ristretto che è la mia valigia, mi rendo conto che partire va ben oltre a tutto questo. Partire non è l'atto fisico di prendere il "volo", ma è tutto e molto di più.
E' una questione di TESTA: tenere la mente aperta per lasciare entrare l'altro e il suo mondo senza però dimenticare sé stessi e cosa ci ha portati fin qui.
E' una questione di CUORE: essere pronti ad amare, a voler bene, a stringere forte in un abbraccio, a lasciarsi emozionare, a donarsi e mettersi a servizio.
E' una questione di MANI: costruire castelli di Lego, sporcarsi con le tempere, stringere la mano di un nuovo amico o dell'amico di una vita.
E' una questione di PIEDI: mettersi in cammino, camminare verso l'alto e verso l'altro, giocare a pallone, andare lontano o restare vicino.
E' una questione di OCCHI: guardare oltre la superficie delle cose, vedere le differenze e farne un punto di forza, scorgere la gioia sul volto della gente.
E' una questione di BOCCA: parlare di cambiamento, condividere le idee, raccontare i propri sogni e la propria storia.
E' una questione di ORECCHIE: ascoltare i consigli e le opinioni, sentire i rumori che ci circondano, apprezzare il silenzio e gioire del rumore della vita.
Se partire non è solo questione di una valigia, quest'estate non parto solo io e i miei amici cantieristi, ma parti anche tu, si, proprio tu, tu che in questo momento sei sdraiato ancora nel letto aspettando che la giornata abbia inizio, tu che forse sei già in ufficio o al tavolo di una biblioteca, tu che quest'estate non hai ferie e non partirai nemmeno per un breve viaggio.
Io parto, ma tu non "restare". Lascia stare la valigia, metti in moto la tua testa, il tuo cuore, le tue mani, i tuoi piedi, gli occhi, la bocca, le orecchie. "Partiamo insieme verso il mondo, la vita, il significato, la gioia. Chi cammina già vede sorgere l’aurora."
Buon viaggio, buona vita! (Share the love!) ;)


Giu :)