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martedì 16 settembre 2014

LIBANO: A cuore scalzo

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“Ohana vuol dire famiglia. E famiglia vuol dire che nessuno viene abbandonato o dimenticato.”

Questa era la frase culto di Lilo & Stitch e perdonate la mia giovane età se posso ancora citare un cartone animato.

Un vecchio proverbio dice che non si può scegliere la propria famiglia. È il destino che sceglie per te. E anche se non ti piace, se non la ami o non la capisci… Ti devi arrangiare.
Nella mia prima adolescenza ho seguito un’altra scuola di pensiero: la famiglia in cui si nasce è solo un punto di partenza. Ti nutre, ti veste, si prende cura di te finché non sei pronto ad andare in giro per il mondo a cercare qualcosa di tuo.
Così per molti anni sono stata lieta della mia seconda famiglia: coloro che, per scelta, erano al mio fianco giorno dopo giorno.

Ora sono tornata a mettere nuovamente in discussione questo sacro concetto ed il significato stesso della parola “famiglia”.

Rincasata dopo queste tre intensissime settimane di cantiere ho provato a mettere ordine al groviglio di emozioni che avevo dentro ed una è affiorata subito, prepotente, sulle altre.
Io non mi sento sola. Perché Ohana significa che nessuno viene lasciato indietro.

E così se sei triste perché il tuo ragazzo non ti chiama, diventa compito mio farti riscoprire il buonumore: ogni sorriso è importante.

Se senti il bisogno di qualcuno che faccia follie con te, io posso essere la pazza che ti tiene per mano.

Se capitano serate in cui si ha solo voglia di stendersi sul proprio materasso e cancellare il mondo, il mattino dopo ci si saluta con un mega abbraccio.

Se è il tuo compleanno non importa quanto stanca io sia, vengo a lavare i piatti al posto tuo con un sorriso spaziale.

Ohana vuol dire svegliarsi alla 6.30 del mattino per poi ripiombare in un letto che sicuramente non è il tuo, ma con l’assoluta certezza che qualcuno che ti coccoli prima di svegliarti lo troverai sempre.

È il “Che figata di idea che hai avuto: realizziamola!”

Sono i discorsoni che partono così all’improvviso e che ti smuovono dentro. Allora si afferra che il concetto di ricchezza nella diversità non è solamente una questione di retorica, bensì sostanza purissima che ti smuove le cellule e ti spinge a voler vivere, sempre un po' di più.

È il “Ciò che è mio, è tuo” ripetuto per qualsiasi cosa, così che alla fine del cantiere anche il mio cuore era un po’ condiviso.

Ohana significa che poco a poco ci si lascia avvolgere dalle storie degli altri, che se ci sono delle cose che pesano dentro, quattro spalle per sopportarle sono meglio di due. E se le spalle sono 26… Beh fate voi i calcoli!

Significa lasciare che lo strato di timidezza si sciolga poco alla volta per lasciar spazio a ciò che si è veramente, senza vergognarsi troppo.

E quando le parole non bastano intervengono i colori. Accesi, come quelli di tanti post-it colorati.

E i suoni. Come le stonature su Tiziano Ferro mentre si preparano le bruschette.

E le emozioni. Come l’abbraccio un po’ invadente che forse non stavi cercando ma che, arrivato, è riuscito a sorprenderti.

Qualcuno potrebbe dire che siamo solo 13 estranei che hanno vissuto insieme tre settimane e che hanno appena grattato la superficie delle vite altrui, ma sentandosi galvanizzati pensano che questa sensazione di “familiarità” possa durare per sempre. Che in un tempo e in un luogo differenti, insieme, saremmo stati un disastro.
Io non so com’è davvero.

“Quando hai solo 18 anni quante cose che non sai…” cantava il buon Luciano.

Forse sono solo in un periodo che mi permette di credere ai tanti “sempre” della vita. Oppure ho trovato davvero un’altra famiglia. Una famiglia che anche questa volta non ho scelto io: ci sono inciampata dentro con tutta la voglia di vivere che avevo. È stata però una famiglia che mi ha sempre fatto sentire a casa, in ogni luogo, perché con il cuore c’eravamo, per davvero.

Forse “FAMIGLIA” significa molto semplicemente trovare qualcuno che, non importa come sia andata la giornata, alla fine di essa sia ancora lì seduto con te per un altro SA7TEN!
Martina P.



Stitch: “Stitch deve salire a bordo? Stitch può salutare?”
Capitano: “Va bene, si…”
S: “Grazie”
C: “Ma chi siete voi?”
S: “Questa è mia famiglia. L’ho trovata per conto mio. È piccola e disastrata, ma bella… Si, molto bella.”

https://www.youtube.com/watch?v=BGMa3QWlmAQ






Federico
Elena
Valentina



Chiara

Anna (Sardu)



Rubina




Mariairene
Francesca
Stefano
Martina
Erica

Michela

An(Ni)na




lunedì 25 agosto 2014

C'è un post...o in Libano!

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C’è un posto, in Libano, dove ad accoglierti c’è così tanta nebbia che nemmeno a Milano in pieno novembre.

C’è un posto, in Libano, che al primo impatto assomiglia ad una prigione e ti prende un po’ alla gola.

C’è un posto, in Libano, che sembra un limbo: ci sono tante donne che aspettano e aspettano ognuna con un passato troppo vicino e un futuro che rimane sempre troppo lontano. Allora sembrano tristi, ma forse sono solo delle esuli. Troppo lontane.

C’è un posto, in Libano, dove c’è sempre un gran via vai e ci sono donne che arrivano, donne che partono e donne che scappano perché non ne possono più.

C’è un posto, in Libano, dove ascolti storie che avevi letto solo in quei libri sugli stranieri che ti fanno leggere a scuola e ti fanno esclamare “Assurdo!” ma poi restano sempre un po’ troppo lontane.

C’è un posto, in Libano, dove i bambini non hanno una mamma, bensì 80 e non piangono di certo se una sconosciuta li prende in braccio. Ma è anche il posto dove si sente di più la mancanza di un “papà” con la barba e i muscoli per sollevarti fino al cielo.

C’è un posto, in Libano, dove il concetto di “mio” e “tuo” è un po’ diverso perché se ci si deve accontentare allora anche un “nostro” è meglio di qualsiasi cosa. Invece ci sono anche volte in cui non si tollerano sbagli e bisogna andare a sedare un litigio in piena notte perché “si era seduta sul mio letto”.

C’è un posto, in Libano, dove di sera si prega Dio davanti a una statuetta della Madonna e lo si fa con canti che vengono dal profondo dell’anima e dal profondo dell’Africa fatti di una religiosità a noi incomprensibile, ma che parlano sempre e solo di gioia.

C’è un posto, in Libano, dove se stai male ti passano la Bibbia sul corpo che guarisci prima.

C’è un posto, in Libano, dove se parte La Colita si balla tutti quanti e tutti insieme e posso solo dirvi che hanno reso speciale questo ballo anche per me.

C’è un posto, in Libano, in cui ci sono donne che vogliono solo sentirsi donne e così una volta tirati fuori fili, perline, trucchi e macchina fotografica non ti puoi più tirare indietro.

C’è un posto, in Libano, in cui apri il frigorifero e ci trovi solo chili di cipolla e le tipiche “piadine” utilizzate per fare il “rotolino” e vi giuro che alle 23 quando avete fame vi piange il cuore. Eppure adesso, che sono a casa, quando apro il frigor e vedo tutti questi colori, tutta questa abbondanza, tutte queste scatole e scatolette di marca diversa il cuore piange, ma perché non trovo un senso a quest’opulenza.

C’è un posto, in Libano, in cui l’ultima sera senti le donne urlare “I love Italia and I love you!” e allora ripensi ai primi giorni quando bisognava pregarle per farle alzare dalla sedia e venire a giocare con te e pensi che di strada ne hai davvero fatta.

C’è un posto, in Libano, dove vedi tanti sogni per il futuro che si scontrano con la realtà e allora “Mia figlia ha ottenuto i permessi per andare in Danimarca da suo padre. Io no. Io ho un tumore e devo restare qui. Ma forse più avanti riuscirò a raggiungerli. Però sono contenta: mia figlia è tutto ciò che ho.”

C’è un posto, in Libano, dove gli occhi ti parlano e sono occhi induriti da quello che hanno visto, occhi in cui intravedi le foreste pluviali del cuore dell’Africa, occhi dolci di una madre che consola il figlio che piange, occhi che non hanno un paese perché nel loro paese non ci possono più tornare e ci sono occhi stanchi che vorrebbero solo posarsi su un cuscino morbido e chiudersi, ma sanno che non possono. Non ancora.

C’è un posto, in Libano, dove basta un bimbo che si sbrodola di bolle di sapone insieme a te per farti sentire più leggera.

C’è un posto, in Libano, dove non è tutto facile come sembra e ci sono giorni in cui bisogna lottare per le cose, ma chi ha detto che nello sporcarsi le mani, i piedi, la faccia e il cuore, nel far fatica non si riscoprano le cose semplici e buone di noi e dell’altro che si erano date per scontate?

C’è un posto, in Libano, in cui io ti sorrido e tu mi sorridi perché non abbiamo altra idea sul come comunicare, ma così facendo il cuore mi si scalda un po’ di più.

C’è un posto, in Libano, che ti opprime quando ci sei dentro perché non puoi scappare da te stessa e cerchi sempre di uscirne, ma quando sei fuori non riesci a togliertelo da dentro e quella parte di te che è rimasta lì si sveglia presto, al mattino, perché magari può ancora dare una mano a preparare la colazione.

C’è un posto, in Libano, dove restare 2 settimane sui 365 giorni che ci sono in un anno assomiglia molto a voler riempire con un secchio un mare troppo grande.

Eppure c’è un posto, in Libano, dove non vai per cambiare il mondo o la vita di alcune donne perché di certo non puoi aiutarle a tornare nei loro paesi o a riabbracciare i loro cari.

È il posto in cui non è tanto importante se 2 settimane sono troppo poche perchè quando te ne vai la nebbia che ti ha accolto resta sempre, ma questa volta solo fuori e nel cuore brilla un po’ di sole in più.
 
Martina P.
 
 

"Appoggiati a me che se ci dovesse andar male insieme sapremo cadere."

"Chiudi gli occhi e sogna, Amore mio"


"Ci sarà una lontananza che diverrà la tua nuova casa"

"Balliamo sul mondo!"