Ovvero delle prospettive, dei punti di vista e della scrivania
"- Senti che lavoro – me ne
ero dimenticato – che lavoro fai?
* Bè, mi interesso di molte
cose… Cinema, teatro, fotografia, musica, leggo…
- Ehm… concretamente…
* Eh… non so cosa vuoi dire.
- Come non sai, cioè che
lavoro fai?
* Nulla di preciso.
- Vabbè, come campi?
* Mah, te l’ho dddetto,
gggiro, vedo gggente, mi muovo, conosco, faccio delle cose…”
Ecce Bombo
Io e le tre
carismatiche persone che vedete in foto - Megòn, Clodia e Micayella,
assodata versione libanese dei loro nomi - ci troviamo a Beirut da un mese e
mezzo oramai, in servizio civile ça va sans dire…
Il nostro
servizio – e cerchiamo di capire se sia possibile chiamarlo lavoro - sta coinvolgendo
tre aree: due sono shelter per migrant workers, e il terzo è il
campo palestinese di Dbayeh.
In tutti questi
posti - ad ora - io credo di
fare cose e vedere gente, motivo per cui rimando ad un prossimo post il
raccontarvi nel dettaglio cosa ci faccio qua.
Per il momento, mi concedo un’altra riflessione sul mio esserci, che in realtà è questione di punti di vista. Prendiamo questi due
scenari:
- Se dici “Basically I follow up this project involving
migrant workers and refugees, you know…” solitamente la reazione è “Oh
nice, that’s interesting” e vieni immaginato dietro una scrivania a tenere in
mano le sorti di un progetto, per la serie “cooperante in carriera”.
- Se al
contrario spieghi “I am a volunteer from Caritas Ambrosiana (Milan) and I am
working with migrant workers…” Ajajajajajaj, col “volunteer” crei
già confusione, poi dove puoi essere collocato, davanti o dietro la scrivania?
Forse si pensa troppo
spesso ad una dicotomia, per cui coloro che operano nel fantomatico mondo della
“cooperazione” vengono divisi proprio da una scrivania: se rispetto a questa ti collochi dietro
sei in ufficio a progettare, altrimenti sei davanti e quindi sul
campo.
Dopo un mese di
SCE mi torna in mente una parte del nostro progetto in cui si parlava di stili
di presenza: il modo di porsi in altre parole, uno stile che cambia nel
tempo e che si evolve, facendo sì (in teoria) che si possa entrare sempre più
nel contesto in cui ci si trova.
In queste prime settimane, io sto apprezzando l’entrare “in punta di piedi” in tutto ciò che facciamo.
In punta di
piedi nelle diverse tempistiche dietro l’organizzazione del lavoro, nella
formalità a volte rigorosa e altre quasi impalpabile nei rapporti di lavoro, e
ancora in punta di piedi nel valore che si dà al lavorare dietro una scrivania e nel valore che
si dà a chi la scrivania la vede poco.
Ho dei miei
personalissimi giudizi ovviamente, che cambieranno o si confermeranno, eppure
ciò che apprezzo di più, e credo sia una peculiarità di questo SCE, è proprio
il rimbalzare da tutti i lati della scrivania.
Peculiarità
questa molto vantaggiosa. Per cui ti puoi trovare a
seguire un progetto per una nuova cucina, e lì la scrivania
ti serve per contattare ingegneri e fornitori, scaricare preventivi, planimetrie,
bill of quantity (presto Team Libano vi svelerà anche questo arcano) ecc. Oppure ti puoi trovare seduta davanti alle scrivanie di persone che desideri
conoscere, perché seppur non sia scritto da nessuna parte che queste facciano
parte del “tuo” progetto, ci si rende conto possano essere una chiave di accesso
a una realtà troppo nebulosa e ben venga il conoscerle e il confrontarsi.
E ti puoi
trovare ancora dietro la scrivania,
con le mani in fermento, e i cassetti che mentre sei lì si aprono e chiudono…
magari non è nemmeno la tua, tuttavia diventa un laboratorio di idee per
progettare una lezione di inglese, una tabella che organizzi le chiamate delle
ospiti di un centro, un report da condividere coi colleghi o anche una tabella
che organizzi la distribuzione degli abiti o annoti i
compleanni.
Da quella scrivania ci passi alla
fine e all’inizio del lavoro sul campo: sul campo quando si
improvvisa una chiacchierata con un fornaio il cui forno è quasi nascosto sotto
terra in un campo palestinese; sei sul campo durante un giro di saluti
tra le camere delle donne che ti raccontano quante mutande hanno e perché si
sentano frustrate; sei sul campo durante una ginnastica mattutina che ti
lascia una sete pazzesca eppure ti avvicina col potentissimo linguaggio del
corpo a delle donne un po’ annoiate, che riscoprono il bello di mettersi in
gioco e in ridicolo. E – curioso no? – sei sul campo a parer mio anche
quando usi la scrivania
per ricordarti che c’è una lingua da imparare e tenere allenata, perché essere sul
campo forse non è tanto essere a Beirut, ma parlare CON Beirut prima che DI
Beirut.
Dove collocare
tutto ciò, in progettazione, cooperazione, volontariato…?
Non so voi, io lo
lascerei proprio serenamente in faccio
cose vedo gente, perché in fondo anche questo è solo questione di prospettive e punti
di vista.
Prospettive
e punti di vista (0): la giusta misura
M: “Per
me è dritto”
C: “Per
me è storto”
A: “Per
me è no! Lasciate perdere ragazze…”
|
Prospettive e punti di vista (1): il
turbolento incontro tra passato e presente |
Prospettive e punti di vista (2): il dolce incontro tra passato e presente |
Prospettive e punti di vista (3): de gustibus = “bello mangiare libanese eh, ma a una certa…”[1]
Una piccola chicca dopo questa carrellata di PROSPETTIVE E PUNTI DI VISTA: quando ci si trova di fronte a qualcosa che è disorganizzato e confusionario, qua si usa tuttora dire “al’haq ‘alā-l-ṭilyān” cioè “è colpa degli Italiani”; questo perché nel 1912 la flotta italiana bombardò la zona del porto e i quartieri centrali di Beirut, causando così una grande disorganizzazione nella città a livello urbanistico[2]
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