14/08/2014
La strada da Rayfoun a Wata al Jawz si inerpica attraverso le montagne, passando rapidamente dalla città al paesaggio brullo e bruciato dal sole dentro il quale, a un certo punto, si scorge una distesa di serre. Tipico paesaggio libanese, tipica montagna libanese, tipica strada libanese. Eppure, guardando con attenzione, avvicinandosi alle serre si possono scorgere delle persone: lavoratori, certo, ma anche donne, anziani e bambini; se sei un profugo siriano e hai bisogno di cibo e alloggio per la tua famiglia, anche una serra bassa e afosa può diventare casa. Ed è così che tredici famiglie siriane si pagano un telone sopra la testa lavorando nelle serre per una paga di un dollaro all'ora.
L'estate è calda: si cerca un filo d'ombra tra le serre per evitare di bruciare sotto il sole tra la polvere soffocante delle stradine. Dentro le serre la temperatura è ancora più alta e l'aria opprimente, tanto che uscendo si prova quasi sollievo. Se sei un bambino profugo dalla Siria e la tua famiglia vive in una serra, questi sono i luoghi della tua infanzia, giocata tra sole, polvere e povertà. Se sei anziano, questi sono i luoghi della tua vecchiaia, che invece di darti pace ti restituisce una gamba amputata a causa di un missile e le lacrime di veder vivere la tua famiglia in queste misere condizioni. Se sei padre o madre di famiglia, la vita nelle serre ti condanna a trascurare i tuoi figli per il lavoro e a non poter progettare nulla per il futuro: chi può sapere come sarà la situazione tra una settimana, un mese, un anno? In questo stato non si può decidere dove andare, cosa fare, che progetti avere. L'unica certezza è che l'inverno nelle serre è troppo rigido, perciò bisognerà spostarsi altrove.
Arriviamo a Wata al Jawz nelle nuvole di polvere sollevate dall'auto e subito la nostra presenza non passa inosservata: per dei bimbi abituati a vedere tutti i giorni serre, lavoro, fatica e poco altro noi siamo una grande novità! A dire il vero tutti i siriani ci osservano e parlano volentieri con noi; non esitano nemmeno ad aprirci le loro case, nonostante la miseria di una serra li metta continuamente di fronte alla situazione in cui si trovano a vivere e, peggio ancora, la loro famiglia si trova a vivere. Che futuro possono assicurare ai loro figli? Che prospettive di vita possono avere questi bambini? Potranno mai credere che la felicità esiste, anche per loro?
Dopo una breve visita ad alcune case, distribuiamo dei palloni ai bambini, che non vedono l'ora di giocare con qualcuno, qualcuno che è lì apposta per loro! Il fatto di essere profughi non li rende diversi dagli altri bimbi: anche loro vogliono giocare, anche loro sono impazienti, anche loro sono gelosi delle proprie cose e si litigano a vicenda i palloni appena ricevuti. Questi bambini non sono diversi dagli altri: altrettanto belli, altrettanto degni di una vita decorosa; perché allora dovrebbero avere diritti diversi? Ma non c'è tempo per farsi troppe domande: mentre siamo con loro la cosa più importante è farli divertire, stare con loro, far vivere loro dei momenti spensierati. Tentiamo così a fatica di farli giocare a bandiera e poi, quando il sole si fa davvero battente, ci spostiamo in una serra per dei bans. Il nostro (purtroppo) breve incontro con i siriani si conclude con la distribuzione di altri giochini e palloncini. O meglio, a sorpresa veniamo caldamente invitati ad aiutare i lavoratori a caricare casse di cetrioli su un camion. E al termine, altre mille foto!!!! Soprattutto con Erika, vero Franci?
Il ritorno è stato denso di pensieri, un po' confusi in quanto misti a tante emozioni. E' vita questa? O è solo sopravvivenza? Ed è una degna sopravvivenza? Mi sembra chiaro che la risposta è negativa: non si può vivere sotto una serra in mezzo alla polvere. Eppure quanta dignità in quegli anziani, quanta dedizione in quei padri di famiglia, quanta pazienza in quelle madri, quanta bellezza in quei bimbi! E allora penso: si può amare anche sotto una serra in mezzo alla polvere. Si può amare anche quando si è tragicamente profughi dal proprio Paese. Si può amare anche quando tutta la realtà attorno a te sembra urlarti che l'amore non esiste, ed esistono solo la guerra e la sofferenza. L'amore trasforma la sopravvivenza in vita. Quanto abbiamo da imparare da quelle famiglie…
Facciamo appena in tempo a tornare al nostro "campo base" per partire poi di nuovo, dopo una pasta (mangiabile!) velocissima, alla volta del convento di Harissa, che al momento ospita parecchie famiglie di cristiani Iracheni profughi perché perseguitati religiosi.
Il contesto è totalmente diverso da quello del mattino: il convento è immerso in una zona verde e ombreggiata, con una vista panoramica sulle zone sottostanti. Nulla fa pensare alle tragiche vicende che accomunano gli ospiti. Dopo qualche vicissitudine e una lunga attesa, incontriamo due profughi iracheni, fuggiti dalle persecuzioni insieme alla propria famiglia. "Chiedeteci tutto quello che volete".
Così ci hanno detto, vedendo la nostra timidezza e il nostro timore di essere indiscreti. E questo è stato il primo pugno nello stomaco: l'umiliazione della fuga e la disperazione della loro condizione non cedono il passo alla vergogna; questi uomini vogliono condividere con noi, giovani, sconosciuti, privilegiati, i ricordi e i sentimenti di una vicenda tanto vicina e tanto dolorosa. Ci parlano così del loro viaggio alla volta del Kurdistan, a piedi e con l'indispensabile addosso in quanto molti dei loro passaporti sono stati bloccati, impedendo così loro di prendere l'aereo. Della differenza tra il periodo della dittatura, in cui c'era aria di guerra ma si sentivano protetti, e il periodo post dittatura, in cui la situazione è progressivamente peggiorata portando alla discriminazione dei cristiani, costretti alla fuga. Del fatto che l'unico modo per risolvere le cose sarebbe un deciso intervento internazionale, al momento ben lontano dall'essere attuato. Del fatto che nemmeno per difendere loro stessi e la propria famiglia avrebbero rinnegato la loro fede cristiana: "Siamo nati cristiani, viviamo da cristiani, vogliamo morire da cristiani". Secondo colpo nello stomaco: di fronte a una così grande testimonianza di fede, come si può reagire? Con ammirazione, con stupore, con incredulità? La nostra risposta è stata la preghiera: non c'è lingua che tenga di fronte alla potenza del Padre Nostro, recitato tenendoci per mano e guardandoci un po' negli occhi e un po' al cielo. Possiamo credere ancora che la religione unisca e non divida, che la fede porti la pace e non la guerra, che, anche quando non possiamo fare nulla per chi soffre attorno a noi, possiamo sentirci fratelli e portare nel cuore il dolore degli altri. Fratelli. Fratelli italiani, fratelli iracheni, fratelli siriani. Fratelli.
Così ci hanno detto, vedendo la nostra timidezza e il nostro timore di essere indiscreti. E questo è stato il primo pugno nello stomaco: l'umiliazione della fuga e la disperazione della loro condizione non cedono il passo alla vergogna; questi uomini vogliono condividere con noi, giovani, sconosciuti, privilegiati, i ricordi e i sentimenti di una vicenda tanto vicina e tanto dolorosa. Ci parlano così del loro viaggio alla volta del Kurdistan, a piedi e con l'indispensabile addosso in quanto molti dei loro passaporti sono stati bloccati, impedendo così loro di prendere l'aereo. Della differenza tra il periodo della dittatura, in cui c'era aria di guerra ma si sentivano protetti, e il periodo post dittatura, in cui la situazione è progressivamente peggiorata portando alla discriminazione dei cristiani, costretti alla fuga. Del fatto che l'unico modo per risolvere le cose sarebbe un deciso intervento internazionale, al momento ben lontano dall'essere attuato. Del fatto che nemmeno per difendere loro stessi e la propria famiglia avrebbero rinnegato la loro fede cristiana: "Siamo nati cristiani, viviamo da cristiani, vogliamo morire da cristiani". Secondo colpo nello stomaco: di fronte a una così grande testimonianza di fede, come si può reagire? Con ammirazione, con stupore, con incredulità? La nostra risposta è stata la preghiera: non c'è lingua che tenga di fronte alla potenza del Padre Nostro, recitato tenendoci per mano e guardandoci un po' negli occhi e un po' al cielo. Possiamo credere ancora che la religione unisca e non divida, che la fede porti la pace e non la guerra, che, anche quando non possiamo fare nulla per chi soffre attorno a noi, possiamo sentirci fratelli e portare nel cuore il dolore degli altri. Fratelli. Fratelli italiani, fratelli iracheni, fratelli siriani. Fratelli.
Elena,
Cantiere Libano 2014
Grande Ele!!!!! Bellissimo articolo!! Ma allora è vero che anche i matematici hanno un cuore!! :P Buona fine esperienza a tutti!
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