Quando tutto sembrava pronto per partire, mi è stato annunciato, con
estrema casualità, che finalmente avrei potuto incontrare il vescovo, proprio
la mattina della mia partenza. Così questo momento solenne si è incastrato tra
una messa, uno zaino da preparare, il serbatoio da riempire con la bottiglietta
di plastica e un simpatico prete che mi parla della canzone di San Damiano. E’
un buon modo per iniziare il mio primo viaggio da sola su quest’isola. Non solo
per le benedizioni del Monseigneur,
ma anche per cominciare apprezzando l’imprevisto. Certo, con questo secondo
anno ai tropici ci sono ormai abituata, ma il fatto di viaggiare lo rende un
fattore supremo, al quale non ci si può sottrarre barricandosi in un luogo
sicuro, bisogna giocare.
Nonostante gli avvertimenti di un collega della Caritas Spagnola, l’equipe
animazione di Caritas Port-de-Paix sembra non voler credere che la strada del
nord, che da Anse-à-Foleur porta a Limbé e a Cap Haïtien, sia davvero così
impercorribile, fomentando così la mia fretta di partire: ed è così che mi
trovo con Karl, l’autista, su un sentiero di montagna difficilmente praticabile
anche a dorso di mulo. Ma proprio la sua esperienza e le benedizioni del
vescovo ci permettono di arrivare sani e salvi dopo 5 ore a Cap Haïtien, con solo una gomma a terra
e un pezzo dell’auto (di cui non capisco il nome) da riparare. La scorciatoia,
che avrebbe dovuto dimezzare il tempo di percorrenza rispetto alla strada
tradizionale, ha quasi allungato il viaggio, ma il paesaggio mozzafiato ha
ripagato ogni goccia di sudore freddo. Le Kay
pay, cime avvolte nelle nuvole, alberi da frutto, faraglioni e mare, una
baia segreta dove forse un giorno avrò il coraggio di lanciarmi con la tavola
da surf, e poi una brusca e casuale interruzione. Una liscia lingua di cemento
taglia la giungla per meno di 10 kilometri. Cos’è questo miraggio
fitzcarraldiano? Il paese di origine di un senatore, mi dice Karl, divertito
dal fatto che ancora io mi stupisca di queste cose.
Questo lirismo bucolico scompare del tutto avvicinandosi a Cap Haïtien, la città simbolo della
storia di questo paese. Ci sono le strade asfaltate, addirittura con la doppia
linea, gente che corre, anche una blan
in pantaloncini minimali con un cane al guinzaglio! Resto incollata al
finestrino, meravigliata. Lasciando il Far-Nouest
di Haiti mi rendo conto delle diverse realtà che sono questa terra, ma lo shock
vero e proprio resta ancora da assaporare.
Il giorno dopo parto in autobus alla volta di Santiago de los Caballeros,
Repubblica Dominicana. La strada che porta al confine ha veramente pochi buchi,
ed il paesaggio che si attraversa percorrendola sembra appartenere ad un’epoca
diversa rispetto a quella alla quale i miei occhi ( e la mia schiena) si sono abituati in missione per il nordovest
con la Caritas di Port-de-Paix. E poi passiamo Ouanaminthe, la città che “bouje toutan”, dove si mangia il cavallo
e le luci sono accese anche di giorno. Nessuna di queste leggende è a prima
vista vera, sono quasi delusa. Dopo il controllo alle due dogane dove
poliziotte quasi simpatiche eseguono una perquisizione meticolosa delle valigie
sospette (chi sa perché solo quelle degli Haitiani) possiamo ritornare
sull’autobus, passando attraverso le barricate dei ragazzini che ci chiedono il
pranzo al sacco che sanno benissimo essere dispensato da Caribetours.
Al di là c’è Dajabón, dove la spazzatura lascia spazio magicamente a
uno scenario rurale pettinato, casette colorate e paesini sperduti non molto
interessanti, ma che sembrano ridere. Dopo qualche ora siamo a Santiago, con la
sua periferia assolata e sorniona. Devo cambiare dei dollari per prendere i
prossimi mezzi, così mi mandano in una stanza a vetri dove c’è una coda
infinita, ma dove mi trovo direttamente e
spinta dalla folla davanti alla cassiera. Pensando di essere sulla
stessa isola di Haiti mi aspetto che sia una tattica di scippo o qualche
fregatura, ma niente di male succede, solo qualche risata della gente sorpresa
che io non sia americana. Il viaggio continua fino a Cabarete, una piccola
mecca caraibica per gli sport acquatici.
La spiaggia di Cap Haitien, Haiti |
Playa del Encuentro, Repubblica Dominicana |
Belle case, resort, supermercati, ristoranti, bancarelle, negozi di
souvenir, locali per ogni gusto, che se li si guarda bene più o meno tutti
uguali. Ragazzine mulatte con gli occhi blu, bambini poliglotti, coppie miste
di ogni età e provenienza, mozzarella italiana. Ma per me, soprattutto una
spiaggia che ogni mattina viene ripulita
da una piccola squadra piuttosto sorridente. Ci sono cinque baracchini che
affittano tavole da surf, vegetazione tropicale, belle onde e qualcuno sempre
disponibile ad offrire un passaggio o a scambiare due parole. E poi nessuno mi
urla più blan per la strada, anzi la
gente sembra divertirsi cercando di capire la provenienza del mio accento.
Dovrei essere felicissima, penso: surf, pizza, gelato e frutta, riposo,
nuovi amici. Ma le prime sensazioni che provo vedendo l’altra metà dell’isola
sono una certa rabbia e un certo sconcerto.
Questa volta le differenze non sono qualcosa che leggo in un libro sul PIL
dei due paesi, sulla storia della colonizzazione o qualche altra verità
raccontata, ma sono emozioni suscitate da una realtà che vedo, sento e annuso.
Certo, sono sicura che sotto la patina d’oro delle zone turistiche dominicane
ci siano ingiustizie e nicchie di povertà, ma vivo immediatamente di pancia il confronto,
e quello che percepisco sono crudeli diseguaglianze.
In pochi giorni ho incontrato
diversi lavoratori haitiani, ma è con Mesye
Roro che ho passato un’ora a parlare nel cuore della notte. Mi ferma per
chiedermi, sinceramente incuriosito, perché cammino sempre e non lo fermo mai.
E’ un taxista di moto, di notte, un muratore di giorno. Dopo cinque anni di
questa vita non è ancora riuscito a pagarsi il mezzo con il quale lavora. E’
così che capisco perché gli unici che chiedono l’elemosina da queste parti sono
dei neri mutilati. I lavoratori haitiani sono impiegati a delle condizioni
durissime soprattutto nel settore delle costruzioni, dove è facile farsi male,
oppure nei campi. Li ho sentiti descrivere più volte dagli stranieri che vivono
qui, che magari hanno attività, con parole di elogio come grandi lavoratori,
più educati e raffinati dei dominicani. Eppure qui, oltre a scontare il prezzo
di una vita faticosissima, sono vittime di razzismo ed episodi di violenza.
I turisti che incontro, ma anche diversi giovani
stranieri che vivono e lavorano a Cabarete, pensano che quando dico Haiti io
intenda Tahiti, e si sorprendano del fatto che per arrivare qui non abbia
dovuto prendere navi o aerei.
Girando tra i negozietti di
souvenir, è impossibile trovare una maglietta o una borsa con la mappa ricordo
delle vacanze diversa dal classico “moncherino”: c’è solo la metà destra di
Hispaniola, ma chi se ne accorge? Pochi hanno coscienza di dove si trovano.
Di solito la reazione dei
Dominicani quando mi chiedono da dove vengo è quella di cambiare argomento, sull’altra
metà dell’isola cade il silenzio.
Ogni mattina presto prendo la guagua per andare a surfare, un piccolo bus che sfreccia a più non
posso stipando gente ad ogni fermata, sul quale incontro sempre gli stessi tre
signori ricurvi con i loro sacchetti degli attrezzi. Come se ci conoscessimo
facciamo sempre qualche piccolo discorso in creolo. E’ terribile l’impressione
infastidita che mi sembra comparire sul volto degli altri passeggeri,
soprattutto un gendarme che torna a casa ogni mattina dopo il turno notturno.
Nell’immaginario collettivo, Haiti,
sinonimo di sciagure naturali e miseria, e la Repubblica Dominicana, meta di villaggi turistici e navi da crociera, non
possono essere sulla stessa isola.
Eppure di Hispaniola si tratta. Un
giorno a Playa Encuentro, per la prima volta, un Dominicano mi fa qualche domanda
su Haiti. Il tema è la cucina criolla, e
il mio amico sembra incuriosito quando gli racconto, stupita dal fatto che non
lo sappia, che anche “di là” la sinfonia di base è la stessa: diri ak pwa haitiano, arroz con habichuelas dominicano, riso e
fagioli, tanti tipi diversi di fagioli. Questo è in realtà il piatto tipico di
molti paesi dei Caraibi e del Sud America. I fagioli sono nativi americani, ma
non il riso, che è stato introdotto dai colonizzatori europei, accompagnando
gli schiavi che venivano strappati all’Africa occidentale, dove era già la
pietanza di base. Un’identità triangolare, tra Europa, Africa e America che è
frutto degli anni della colonizzazione. E se il cibo è elemento dell’identità
culturale, esiste su quest’isola un substrato comune. Eppure questa terra ha
alle spalle una storia difficile, di divisione ed ostilità, che si fa eco nella
diseguaglianza di oggi tra i due paesi.
Haiti, un tempo la ricca Perla
delle Antille, lottò per la sua indipendenza e la ottenne 60 anni prima della
Repubblica Dominicana. Entrambi i nuovi stati si confrontarono dall’inizio del
loro cammino solitario con la fatica di dover pagare il debito dovuto alla loro
indipendenza a Francia e Spagna, poi le dittature e le occupazioni americane.
Ma oggi Haiti è un pase dipendente,
che arranca per un piatto di riso al giorno, dove la schiavitù non è mai del
tutto finita. Invece la Dominicana, che appare con la sua bella faccia da paradiso
caraibico, attrae migliaia di turisti ogni anno, e cammina. I soldi non sono
tutto, ma PIL annuo pro capite di Haiti
è 813 dollari, quello della Repubblica Dominicana è di 7116.
E così faccio un sacco di domande,
alle quali non ho ancora trovato risposte. Ma una cosa è certa…quando a
Cabarete la radio della guagua ha
trasmesso “Pa gad alem”, una canzone
haitiana molto in voga al momento, ho sentito il cuore riempirsi di emozione.
Mi sono guardata intorno cercando un segno di condivisione sul volto dalla
gente, che è invece rimasta impassibile, non capendo forse neanche che si
trattasse di creolo. Dopo tre mesi mi sono innamorata di Haiti, o forse sto
imparando ad amarla, con tutti i suoi difetti e contraddizioni.
* Grazie a Sandro e Daniel per avermi aiutata con le immagini
Nessun commento:
Posta un commento