martedì 14 febbraio 2006

Una giornata intensa

Questa mattina il paesaggio fuori dalla finestra ha cambiato colore. Quando ho aperto la porta tutto era bianco e silenzioso.

Io, la neve e il vento. Soli.

Io: giaccone verde mimetico, guanti spessi e berretto ben calato a coprire le orecchie, al momento di uscire un'esitazione, e poi, via, nel bianco freddo di questa giornata.
La neve: come polvere, ghiaccio grattugiato finissimo, asciutta. Ogni folata di vento spostava quella che già si era posata sulla strada. Tranquilla è scesa per tutto il giorno, con costanza.

Il vento: freddissimo.

Per tutto il giorno sarà una dura battaglia.

E' lunedì, vado a Plovdiv per aiutare le suore di Madre Teresa nella preparazione e nella distribuzione del cibo alla mensa dei poveri che loro hanno. E' questo che mi porta ad uscire di casa nonostante le condizioni meteo mi spingerebbero a fare il contrario. Quando, arrivato a Plovdiv, scendo dall'autobus, scopro che in città, per qualche strano motivo, fa ancora più freddo che a Rakovski. Alla fermata dell'autobus cittadino non posso fermarmi dal tremare, in piedi, accanto ad un baracchino dietro al quale mi nascondo per ripararmi dal vento, chi aspetta accanto a me invece è tranquillo e fermo. Sull'autobus l'idea di scendere mi spaventa ma, una volta attraversata la città, per forza di cose scendo. E subito mi rifugio nel Cafe di un supermercato per prendere qualcosa di caldo, fare la colazione che ancora non ho fatto. The caldo e brioche. Quando ho finito mi preparo per uscire di nuovo.
Ciò che mi aspetta è quella che normalmente si chiamerebbe una passeggiata di cinque minuti ma che oggi ha tutta l'aria di essere una lunga traversata. I primi cinquanta metri vanno senza particolari sensazioni negative, poi i pensieri si riducono ad uno solo: "freddo, freddo, freddo, ... ".

Qui inizio a pensare a come raccontare questo momento, a quali particolari inserire, a come renderne la drammatica epicità. All'inizio metto le mani come paraocchi per proteggere il viso dalle folate, poi accelero, faccio qualche saltino per far circolare il sangue, proseguo e pian piano mi accorgo che quelle che non sento più sono le gambe, un rapido massaggio e via, supero il blok che mi proteggeva e il vento si fa ancora più forte, allora penso che da domani metterà sempre due paia di pantaloni, corricchio, salterello, cammino un po' all'indietro per dar tregua alle gambe, ora inizio a intravedere la chiesa delle suore di Madre Teresa, là dove devo andare, la vedo ma non la raggiungo mai, penso a quanto ho freddo e rido fra me e me, poi, finalmente, supero un cassonetto in cui qualcosa brucia e fuma e ... ci sono, ce l'ho fatta!, ancora qualche metro protetto dal muro, svolto l'angolo e finalmente suono il campanello.

Fuori con me ci sono già alcune persone che aspettano di entrare a mangiare. Quando suor Massimiliana apre entro io con loro, subito il caldo mi ristora, mi chiedo e chiedo come possano loro vivere in strada o in case abbandonate con questo freddo terribile, che mi fa sembrare pochi metri un'impresa epica. Raggiungo il calorifero e là mi raggiunge la suora, che mi offre un the che io di nuovo accetto, per ristorarmi. Mentre bevo e mangio qualche biscotto, le persone entrano, siedono, stanno un po' al caldo e aspettano la distribuzione del cibo. Dopo poco scendo anch'io in cucina, a ricevere le prime istruzioni.
Tagliare il formaggio, tagliare il pane, una fetta di formaggio ogni tre di pane, tutto per cinquanta persone circa. In questo tempo ho modo di parlare un po' con suor Massimiliana, di cosa fanno in questi giorni, di cosa facciamo noi, del freddo, di loro, ecc. Quando la prima distribuzione è finita, la suora mi invita ad un momento di preghiera cui io partecipo volentieri e al termine del quale mi viene offerto da mangiare. Quando ho finito scendo, finisco di tagliare il pane, apparecchio i tavoli e poi torno su a godermi un momento di pausa in cui bere un altro the caldo, leggere e pensare.

Verso le due arriva però una telefonata, in seguito alla quale andiamo tutti in cantina a preparare degli scatoloni pieni di scarpe e vestiti per bambini, sei scatoloni per dieci bambini, li portiamo su, li ammucchiamo e poi torniamo a quello che rimane della pausa. Dopo un altro momento di preghiera diamo da dare da mangiare agli uomini che vengono alle tre. Oggi sono pochi, poco più di una ventina. Dicono una preghiera, leggono il vangelo del giorno, una suora dice due parole e poi ... si mangia. Distribuire i piatti, il pane, il bis, il tris, fino a che la zuppa non finisce. Poi poco a poco se ne vanno tutti, anche se qualcuno resta a dare una mano per pulire. Dalle loro stanze scendono le signore che qui vivono, lavano le stoviglie mentre noi puliamo e laviamo la sala.
A un certo punto appare la direttrice di una ong. Io, con lo straccio in mano, la saluto, ma non mi riconosce. Dietro di lei ci sono degli uomini in divisa che poi scopro appartenere ad una sorta di assistenza sociale comunale dedicata alle emergenze. Lei parla un po' con le suore e poi, ancora con indosso i grembiuli, ci mettiamo a portare in un grosso camion gli scatoloni, che da sei sono diventati otto. Poco dopo, salendo per una scala di sei sette scalini, siamo noi ad entrare nel retro di questo camion speciale, che tanto ricorda quelli per il trasporto dei carcerati o i grossi carri del circo. Chiusi là dentro, senza vedere nulla, in compagnia della direttrice, veniamo sballottati per un lungo tempo fino al luogo di destinazione.

Quando scendiamo dal carro la situazione è a dir poco strana. Siamo in mezzo al nulla.
C'è una casa piccolissima e tre enormi mezzi delle forze per la salvezza dell'umanità: il nostro enorme camion, una jeep dello stesso ente e un'ambulanza.
Un bambino in maglione viola lascia la casa e inizia a camminare diretto verso il nulla, lasciandoci così esterrefatti. Nel frattempo noi ci guardiamo attorno e ciò che si vede sono solo campi e campi innevati e montagne anch'esse innevate, solo in lontananza si può scorgere un'altra casa isolata. Senza ben capire scarichiamo i nostri pacchi, fra noi un po' scherziamo sul numero che pare spropositato e poi entriamo in questa casa/stanza. Questa è completamente spoglia, circa venti metri quadrati ma ben riscaldati da una stufa a legna. I bambini ci sono e oltre a loro ci sono altrettante persone venute non si sa bene per cosa, forse per prender parte a diverso titolo a questo evento, ognuno in qualità di direttore di qualcosa. Tutti danno fondo alle loro capacità retoriche, chi chiedendo se vanno a scuola, chi chiedendo invece se pregano Dio, altri tacciono. Nessuno sembra esser là per ascoltare. I bambini sono stati appositamente lavati per l'arrivo dei visitatori, sono molto belli, sorridono molto, ci sono anche due gemelli di quattro mesi. La loro bellezza, i loro occhi, la loro giovialità non possono non colpire chi per un attimo si fermasse a guardare. E allora viene voglia di stare fra loro, scambiarsi parole e sguardi di complicità, ritagliarsi un angolo di intimità in questa confusione. Un po' vorrei che capissero che io e le suore non siamo come "loro" e in tutta questa abbondanza vorrei regalare a Venko il cioccolatino che ho in tasca, come se fosse un tesoro prezioso, ma non ne ho la forza. Lui, con il suo maglione viola, era andato a chiamare la mamma chissà dove, forse all'altra casa che si vedeva in lontananza, dove, in due stanze, con la nonna, vivono altri bambini e qualche adulto per un totale di circa venti persone. E' una famiglia rom molto allargata e, alla luce di questi numeri, forse i nostri pacchi non erano poi così tanti. Dopo un poco, senza aver fatto nulla che giustificasse quella calata da esercito, prendiamo la via del ritorno, questa volta però saliamo sull'autoambulanza, e, seduti su una portantina, torniamo alla casa delle suore.

Una volta là mi viene offerto ancora un the, che diligentemente rifiuto, e io, a piedi, vado a perder l'autobus. Quando salgo su quello dopo mi accorgo di avere un freddo cane ai piedi, invoco il caldo ma prima che questi si siano riscaldati devo scendere e raggiungere l'altra fermata dove aspetterò l'autobus per Rakovski. Dopo lunghissimi venti minuti, quando ormai disperavo, l'autobus arriva, salgo, mi siedo vicino al bocchettone dell'aria calda, mi libero delle scarpe e metto i piedi, le cui punte sono ormai congelate, a godere del getto caldo che i potenti mezzi bulgari offrono. Ormai la casa è vicina.

Una volta a Rakovski la giornata si può dire conclusa, pochi metri mi separano da casa, da una bella doccia bollente e, non prima di aver scritto qualcosa, dal letto.

Poi, domani, riposo.

Francesco Malossi,
volontario in servizio civile in Bulgaria

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