mercoledì 8 novembre 2006

Prime impressioni dal Nicaragua

Sul bimotore che ci porta da San José a Managua abbiamo un sussulto quando pochi secondi dopo il decollo i due motori, rigorosamente ad elica, sembrano fermarsi per un attimo, e ancora di più ci preoccupiamo quando il comandante annuncia alla trentina di passeggeri accaldati che stiamo per passare una turbolenza, che effettivamente ci farà trascorrere momenti indimenticabili nei cieli tra Costa Rica e Nicaragua.

Pare che quasi a volerci far abituare al clima umido e soffocante che si respira nella capitale nicaraguense, ci abbiano dato l'unico aereo di linea al mondo in cui l'aria condizionata non funziona!

Mi addormento, sono troppo stanco dopo quasi venti ore di volo, e mi risveglio con il nostro prezioso autobus con le ali che rimbalza come una pallina da ping-pong sulla pista di atterraggio... meglio rimbalzare che schiantarsi al suolo, no?
Siamo finalmente arrivati; quello che ci aspetta è la caotica capitale, Managua, sonnecchiante appena il sole lascia i suoi cieli e piena di traffico nelle calde e umide giornate di quello che qui chiamano inverno.
Affacciata sul grande lago potrebbe essere un gioiello, ma come subito ti dicono e come subito ti accorgi, Managua non è una città concepita per camminare. I suoi vialoni con benzinai ad ogni angolo, grossi mezzi per il trasporto delle merci come nei film americani, autobus ricolmi in ogni lato, tutte le case ad un unico piano, niente che ricordi una storia che la potrebbe identificare, darle un'anima, darle la parvenza di una città vissuta da esseri umani invece che da macchine.

Managua è stata completamente distrutta nel terremoto del '72, e dopodichè, completamente ricostruita. Ironia della sorte uno dei pochi edifici che è rimasto in piedi, solido come una roccia mentre la città cadeva come un castello di carte, è quello su cui si trovava al momento del sisma il sanguinario dittatore Somoza insieme ai suoi galoppini. Adesso l'edificio ospita uno dei più lussuosi hotel capitolini: come prima il popolo nicaraguense era tenuto sotto scacco da una becera ed arrogante oligarchia con a capo il suo imperatore, adesso è tenuto in scacco dal dio Dollaro e dalle sue concubine, le politiche neo-liberiste.

Il tessuto sociale del Nicaragua vede un 80% della popolazione vivere in condizione di povertà, il restante 20%, quello che possiede quasi l'80% delle risorse del paese, vive nella ricchezza più assoluta.
Sembra di tornare indietro nel tempo, quando i nobili vivevano nei loro castelli e i servi della gleba coltivavano le loro terre.
Adesso i servi della gleba lavorano nelle fabbriche dei ricchi, quelle che qui chiamano "zonas francas", e in Messico "maquiladoras". Luoghi dove il diritto non esiste, dove se arrivi in ritardo di un minuto ti decurtano una intera giornata di lavoro.
Luoghi che sorgono ai lati dei quartieri più poveri per trovare facilmente mano d'opera a basso costo.
Luoghi dove non esistono controlli sanitari a favore dei lavoratori, dove se respiri dei gas velenosi non puoi fare causa al datore di lavoro.
Luoghi dove i proprietari non pagano le tasse perchè per legge i primi dieci anni dall'installazione dell'impianto sono gratuiti.
Luoghi dove se qualcuno osa lamentarsi viene licenziato.

Il mio amico Felix, che lavora nel centro di "Redes de Solidaridad" in cui presto servizio, un giorno mi ha detto che "é vero che sono posti in cui i lavoratori vengono sfruttati, ma tutta la gente che vive qui a Nueva Vida (quartiere periferico dove sorge il centro e dove sta nascendo una nuova "zona franca", ndr) e che passa le sue giornate a far niente e senza sapere come mantenere la propria famiglia, almeno potrà avere un salario".
Questo è vero, ho pensato... ma allora è questa l'idea di progresso che esportiamo in tutto il mondo con le nostre imprese e la nostra tecnologia?
Si, perchè le industrie che si installano qui non confezionano abiti che saranno vestiti dai bambini di Nueva Vida, sono abiti che saranno vestiti dai bambini, donne ed uomini europei, statunitensi, giapponesi. Abiti che ad unità saranno venduti ad un prezzo che potrà equivalere grosso modo al salario mensile di un operaio che lavora qui.
È così che queste persone diventano i servi della gleba che lavorano per noi.

Vedere la povertà è sconvolgente, ma mai quanto viverla.
O meglio...
... forse quando la vivi è paradossalmente meno dura di quando la vedi e sei abituato a vivere con un livello minimo che nel "non avere nulla" può corrispondere al massimo.

Nueva Vida è un insediamento che si è formato dopo l'uragano Mitch, che ha portato morte e distruzione in varie parti del paese.
Le popolazioni che vivevano sulla costa e che sono state tra le più colpite, hanno perso tutto e sono arrivate qui. Questo è un fenomeno tipico: la migrazione verso le città in caso di disastri o anche solo per cercare fortuna o sopravvivenza in condizione di povertà estrema, è una pratica ormai assodata e ovvia.
Le Nazioni Unite hanno annunciato all'inizio di quest'anno che la popolazione urbana per la prima volta nella storia dell'umanità, ha superato quella campestre.
La povertà qui a Nueva Vida non è solo materiale.
La povertà è anche fatta di madri che a 34 anni hanno nove figli da almeno cinque uomini differenti, da bambini abbandonati che per sopravvivere passano le loro giornate nella vicina discarica, da uomini che pur avendo un figlio malato invece di usare i soldi per curarlo, li usano per ubriacarsi.
La povertà è fatta di ignoranza e di mancanza di educazione.
È fatta di superstizione e di poca fiducia nella medicina e nelle istituzioni.
È fatta di mancanza di interesse verso le persone che la vivono, di indifferenza.

È facile per un ragazzo di Nueva Vida entrare in una pandilla (banda giovanile), cominciare a tirare la colla, rubare nelle case, tanto altro futuro non c'è.
Non esistono sogni, nessuno pensa ad un futuro migliore che lo possa portare fuori da questo inferno.
Una delle cose che più ti lascia attonito è proprio questo; tutti noi abbiamo progetti e cerchiamo chi più chi meno di costruire qualcosa che possa dare un senso alle nostre vite.
Qui è molto difficile e sopratutto i giovani non hanno speranze, progetti, non hanno mai visto e non si immaginano una vita fuori da qui e non si immaginano un Nueva Vida diverso.
Qui bisogna lottare anche per sognare.

In tutto questo il centro di Redes de Solidaridad appare come una piccola isola felice dove qualcosa si può e si vuole cambiare. Quando entri al mattino e vedi le persone che iniziano a lavorare e i bimbi che vanno a scuola e i ragazzi che lasciano il barrio per venire qui ad apprendere un mestiere e cercare finalmente di avere dei sogni e degli obiettivi, almeno un po' di speranza ti torna.
È un seme che si inoltra nei solchi della terra e che non si sa se darà vita ad un albero o se marcirà travolto dalle torrenziali piogge tropicali. Un lavoro lento e duro in cui qualche persona crede; non certo i politicanti locali occupati ad accaparrarsi qualche peso in più, ma delle persone che credono in questo popolo che storicamente ha dato prova di grande unità e potenza, ma che negli ultimi anni stanco della guerra e su cui si giocano interessi internazionali enormi, ha lasciato il suo destino in mano ad altri.

Glauco Sponza

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