Dopo il ritorno a Cochabamba dalle vacanze
natalizie e dopo essermi ambientata di nuovo ho deciso che è arrivato il
momento di pensare, di riflettere e di scrivere due parole sulla mia percezione di Cochabamba o di quello
che ho potuto vedere e sentire. Mi sono resa conto che questa città ha qualcosa di magico, come se ci fosse qualcosa di magnetico che ti attrae e ti spinge a tornare o almeno a me.
Il primo impatto in ogni nuova cittá è sempre un
po’ traumatico. Peró delle volte rifletterci aiuta.
Oggi il mio impatto riguarda il carcere. Per la prima volta
sono entrata in un carcere di soli uomini in Bolivia. É difficile descrivere ció che ho visto e le sensazioni che ho provato sono state discordanti. Per esempio alcune dinamiche interne al carcere non le ho capite, ed altre ho delle difficoltá ad accettarle. Ma di una cosa sono sicura, il carcere ha per me una calamita che mi spinge a tornare
per saperne di piú. Come se il desiderio di scoprire, insito nell’essere umano,
si trasformasse anche in concreto aiuto per il prossimo. Quando sono uscita dal
carcere ho pensato: voglio saperne di più, voglio tornarci e non smettevo di fare domande a chi mi ha accompagnato. Volevo sapere come vivevano, come passavano il loro tempo, cosa facevano. Ma soprattutto cosa
potevo o posso fare io per loro, tenendo presente come lo fanno loro.
Quando qualcuno arriva qui per la prima volta
e si scontra con questo mondo, il primo pensiero è com’è diverso, come sono
distanti da noi, come sono arretrati. Poi, con il tempo, vivendo un po’ ti rendi
conto che forse non sono così distanti da un mondo che alcuni di noi hanno
sentito solamente nei racconti dei nostri nonni. Io mi sento fortunata perché è
vero che non ho dovuto vivere dei tempi in cui c’erano ristrettezze economiche
o grosse difficoltà, però sono anche fortunata perché vedendole qui, posso
apprezzare di più quello che ho e quello che qualcun altro ha fatto per me
affinché io potessi vivere in un modo migliore.
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