Siamo stati in un posto fuori dal tempo, fuori dal mondo, dove tutto pare essersi fermato, dove il progresso, la tecnologia, la televisione, la luce non sono arrivati.
Siamo stati in un posto che persino per i Kenyani e troppo lontano per andarci, di cui loro stessi non sanno niente: chi ci abita, come si vive...
Siamo stati nella terra dei Pokot, una tribù Kalenjin, ancora legata alle tradizioni. Al confine con l'Uganda e il Sud Sudan, in Kapenguria, in un villaggio chiamato Tamugh.
Abbiamo impiegato 14 ore, 4 mezzi di trasporto, tra cui un camion. Abbiamo attraversato fiumi in piena e strade scoscese.
Le case sono costruite con il fango, spesso solo capanne; il tetto a volte in paglia, a volte in lamiera. L'elettricità è un lusso di pochi, la televisione non esiste, il segnale non arriva. Siamo in mezzo alle colline e alle montagne, terre in cui ancora la gente combatte per difendere la propria mandria di mucche. Pokot, Maasai, Ugandesi armati e pronti a sparare.
Al nostro arrivo la comunità si raduna per un saluto, la gente canta e soprattutto balla e salta come solo i Pokot e i Maasai sanno fare.
Le donne portano sulla schiena i loro bimbi, attorcigliati nei Batik, le tipiche stoffe kenyane colorate e con un proverbio kiswahili stampato ai bordi. Indossano collane molto grandi e colorate, orecchini abbinati e bracciali in acciaio, color argento, bronzo o oro: ne indossano tanti, occupano anche metà braccio, e sono il simbolo che sono sposate.
Gli uomini non lavorano, si occupano solo del raccolto. Si radunano nel centro del villaggio a giocare a biliardo. La donna si occupa della casa, dei figli, delle mucche, delle capre, dei polli, dell'orto.
Il piatto tipico è il latte, contenuto nei Vibuyu, delle giare in legno allungato, se sei donna, o bombate, se sei uomo. Viene bevuto con il sangue,oppure fermentato o mischiato alla cenere di alberi tipici della zona.
La gente si cura con le piante, sanno dove andare a cercarle, i loro effetti, alcune prevengono persino la malaria.
Sembra di tuffarsi nel passato, quello che di solito i nostri nonni ci raccontano (o almeno i miei, che hanno vissuto in fattorie..). Ma questa è realtà, che però porta con se molti problemi.
Il più evidente è la mancanza d'acqua, la gente deve percorrere chilometri, impiegano ore, per poter avere acqua potabile, o anche solo per lavarsi.
Siamo stati ospiti di Martin, pokot nato e vissuto qui, dove tutt'ora vive con la sua famiglia, quando non è a Nairobi a lavorare. E' catechista nelle carceri, ma non si è dimenticato del suo villaggio. Da anni infatti si impegna a costruire pozzi, dighe e sistemi per trasportare l'acqua in tutta la valle. Un lavoro ammirevole e importante.
Ha collegato un pozzo alla scuola, al dispensario, un'altro ad una chiesa lontana due ore a piedi.
E ora, lontani da Nairobi, dall’acqua che arriva diretta alla nostra tanica e al nostro rubinetto, ci rendiamo conto di cosa davvero succede nel corno d’Africa. La siccità peggiore degli ultimi 60 anni minaccia la vita della popolazione del Nord del Kenya, esposta alla fame, alla sete, alle malattie.
E dopo quattro giorni siamo tornati alla nostra vita nella capitale più consapevoli, di cosa significa avere l’acqua, dei rischi che la sua mancanza comporta, del fatto che basta andare un po’ più al nord e la gente soffre e fatica, ma sempre combatte per poter ottenere un futuro migliore.
Mi suona il cellulare, mi arriva un sms della Safaricom :“dona dei soldi, Kenyans for Kenyans”. E allora penso: “qualcosa si sta smuovendo”.
Accendo la tv e guardo il telegiornale. Si parla poco della siccità, dei turkana (tribù del nord) vittima principale della crisi. Il governo sostiene che nessuno sia morto, che il problema non è così grave. Unica notizia importante: le elezioni del 2012.
Brava Simo, sembrava di essere lì con te. Abbraccio.
RispondiElimina....e passeremo ancora davanti ad una bella vetrina chiedendoci dove spendere la nostra tredicesima.....
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