giovedì 15 settembre 2011

Il passato davanti a sé


Ognuno dei libri che ho letto in questo ultimo periodo mi ha aiutata nella comprensione dell’universo che mi circonda e come per magia le loro parole hanno acquistato un senso particolare nella tela di esperienze che sto tessendo.
Uno dei primi libri che ho letto una volta arrivata Kindu è stato “Il passato davanti a sé” di Gilbert Gatore, regalo di un’amica prima della tanto sperata partenza. Il primo paese africano in cui ho messo piede non è stato infatti la Repubblica Democratica del Congo, bensì il Ruanda anche se per un veloce passaggio. Ho avuto l’occasione di attraversarlo in auto e di poter osservare fugacemente questo piccolo paese ornato da mille colline. E così questo libro, che racconta un pezzo di storia del Ruanda, mi ha accompagnata in questo primo assaggio di Africa.
Il passato davanti a sé” è un libro in cui il confine tra spazio onirico e spazio reale è incerto. Ma il contesto di riferimento del libro che ne è causa, ragione e fine in se stessa è un evento reale. Un evento umano, tragicamente e desolatamente umano: il genocidio della popolazione di etnia tutsi che ha avuto luogo in Ruanda nel 1994. È il racconto del tentativo di convivere con una tragedia di enormi proporzioni. Metaforicamente è il tentativo di convivere con la tragedia dell’essere creatura umana. Della convivenza di male e bene, dello sbiadito e confuso limite che talvolta impedisce all’uomo di oltrepassare ciò che è moralmente accettabile. Di momenti in cui il confine scompare e la follia diviene collettiva ce ne sono stati, ce ne sono e, malgrado tutto, sempre ce ne saranno nella storia dell’uomo. Nel 1994 in Ruanda la follia ha contagiato la stragrande maggioranza della popolazione e l’istinto di uccidere, di eliminare il diverso, l’altro, ha preso il sopravvento sulla capacità di giudizio. Di passaggio a Kigali mi è capitato di visitare il museo del genocidio. In una stanza esagonale sei nicchie accolgono, appese in file ordinate, le foto di alcune delle persone che sono state vittime di questa follia. La cifra esatta è incalcolabile, ma secondo stime ufficiali si aggirerebbe attorno agli 800.000 – 1.000.000. Ad un prete, testimone del massacro che ha avuto come teatro il Ruanda, è stato chiesto se la sua fede in Dio fosse stata minata dall’aver assistito ad un genocidio. “No, la mia fede in Dio è intatta. È la mia fede negli esseri umani che è andata distrutta per sempre”. Ed è forse la stessa impossibilità di recuperare la fiducia nell’essere umano che spinge Gatore a costruire questo romanzo a due voci: la voce del genocidario e la voce della sopravvissuta. Che spinge Gatore ad indagare i più reconditi recessi dell’animo umano, mostrandoci la tragedia di chi è assassino, di chi sa che non può cercare perdono e la tragedia di chi, sopravvissuto, non trova in sé la forza di perdonare e di andare avanti. Tanto più che il mondo che lo circonda è abitato da individui che hanno scelto di ignorare le tragedie dell’umanità, di quella più vicina a loro come di quella più distante.

L’oscenità del mondo non è nella sfilata dell’orrore e dell’ingiustizia, bensì nell’atteggiamento di chi non sa dire altro che “è tremendo, certo, ma…”, di chi non sa fare altro che allusioni tra un caffè e una battuta, altro che compiere il rito dell’indignazione per poi passare ad altro: alla vita normale.

Il lettore si ritrova così a partecipare in prima persona a questa indagine e, spinto a prendere parte per una delle due voci che si rincorrono nel libro, si ritrae impaurito quando ai sentimenti che prova per l’una e l’altra viene dato un volto. Quando all’improvviso ne viene svelato l’orrore. Gatore conduce con grande maestria la sua riflessione sulla tragedia ruandese su due piani paralleli, il soggettivo e l’oggettivo, spingendo il lettore a riflettere in entrambe le direzioni.


Olivia

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