Quando parti dalla Comunità Papa Giovanni XXIII per andare a
fare attività educativa di strada con i bambini non ti puoi immaginare cosa
troverai al tuo arrivo.
I ragazzi che un tempo vivevano sulla strada e che ora sono
accolti qui da Simone sono vestiti bene, puliti, parlano un buon inglese e sono
molto affetuosi. Ti accompagnano in questa mattinata tenendoti per mano,
abbracciandoti, chiedendoti di raccontare loro qualcosa sulla tua vita in
Italia, facendoti da ciceroni tra le vie di un quartiere nel quale sembra
meglio assicurarsi di non passare mai da soli.
Le loro risate e i giochi che accompagnano la buona mezz’ora
di cammino si interrompono bruscamente quando in lontananza si inizia ad
intravedere il campo da calcio: i sorrisi si spengono, le battute sciocche
stonano e tu capisci che stai per entrare in un altro mondo, completamente
diverso da quello in cui stavi vivendo fino ad un attimo fa, e che anche tu
devi rallentare, guardarti intorno, respirare.
Il ragazzo che ti stava accompagnando si defila con lo
sguardo basso e triste, e tu ti senti per un istante sola in mezzo ad un enorme
campo da calcio fatto di terra battuta che rapidamente si sta popolando di
persone di ogni tipo.
Senti saluti intorno a te, vedi mani che si stringono e abbracci.
Ti viene spontaneo cercare mani, presentarti, abbracciare.
E’ solo allora che ti accorgi di quelle bottigliette sporche
e schiacciate che iniziano a creare il primo imbarazzo: dove la metto per
salutarti? In bocca? In tasca?
Non ci fai caso, sorridi e ti presenti. Si cambia mano a
volte per agevolare la cosa.
Poi ci si mette in cerchio, tutti insieme.
Noi volontari italiani (i bianchi), Simone, Ben, i ragazzi
della Papa Giovanni e i bambini di strada.
Non è tanto il diverso colore della pelle che stona, quanto
il diverso colore dei vestiti.
Candidi e puliti i nostri ( che già avevamo scelto dal
nostro guardaroba quelli più malconci) e luridi e zozzi i loro, che anche con
un sole cocente indossano uno sopra l’altro due paia di pantaloni e almeno un
altro paio di magliette con tanto di giacca sopra.
Vestiti da lavare al Boma Rescue Center di Korogocho |
Non perchè faccia freddo. Ma perchè quando vivi per strada
non puoi permetterti di toglierti niente, perchè non hai un posto sicuro dove
lasciarlo.
La formazione a cerchio richiede di utilizzare entrambe le
mani per tenersi stretti l’uno all’altro. E la difficoltà iniziale riguardo al
dove mettere la bottiglietta aumenta: i bambini, chi più e chi meno, sono tutti
dipenenti da quella colla che esala dalla bottiglietta e non riescono proprio a
separarsene nemmeno per pochi secondi.
Qualcuno risolve mettendola in bocca, qualcun’altro nello
scollo della maglietta per averla sempre vicina alla bocca e al naso, pronta da
sniffare.
Il bambino alla mia destra è invece alle prese con un pezzo
di maglione lercio, impregnato di cherosene, che a intervalli regolari di pochi
secondi deve respirare.
Stessa difficoltà della bottiglietta all’inizio, perchè sia
io che Enrico gli tendiamo le mani, e per poterle stringere entrambe deve
liberarle.
E’ il momento più difficile della mattinata: mettere da
parte quel fagotto per qualche secondo o qualche minuto.
I ragazzi più grandi accelerano la procedura, prendendo a
calci quelli che ancora non hanno messo via le sostanze. Fanno a pugni per un
pò, poi tornano nel cerchio come se niente fosse.
La manica della giacca è un altro punto perfetto dove
infilare colla e cherosene, perchè da lì è un attimo avvicinarla al viso.
Con la guida dell’educatore al centro, e a turno di qualcuno
di noi “grandi”, facciamo riscaldamento generale prima della partita di calcio:
salti, flessioni, giravolte, persino yoga!
Resto incredula nel vedere come questi bambini che
continuano a sniffare riescano comunque a raggiungere performance soddisfacenti
negli esercizi sulla coordinazione in movimento e sull’equilibrio.
Qualcuno proprio non ce la fa, e affronta ogni esercizio
ridendo a crepapelle e divincolandosi a casaccio o arrovellandosi senza
raccapezzarsi...ma qualcun’altro, soprattutto i più grandicelli, sembrano
essere buoni atleti. Il mio cervello non riesce a capacitarsene.
Poi ripesca pian piano nozionilegate all’effetto dell’abuso
delle droghe studiate all’Università.
L’assuefazione e il bisogno di aumentare sempre le dosi
perchè le droghe possano avere l’effetto desiderato.
Li guardo, uno più fragile dell’altro, e non lo accetto: mi
sembra tutto così ingiusto!
Com’è possibile che dei bambini così piccoli e indifesi
siano già a questi livelli di dipendenza?
Poi scatta il meccanismo di difesa: il mio cervello decide
di non vedere più la colla e il cherosene ma solo i bambini. Bambini (alcuni
anche un pò cresciuti) con tanto bisogno di giocare e divertirsi, per i quali per
questo paio d’ore siamo chiamati ad essere presenti al cento per cento.
E allora prima dell’inizio della partita di calcio io mi
stacco dalle squadre in formazione per andare a raggiungere il gruppo di disegno.
Per la prima volta abbiamo portato qui foglie e pennarelli,
ed è affascinate osservare da fuori i disegni che, liberamente, la loro
creatività e immaginazione, mescolate alle loro storie di vita, stanno
generando.
Ed ecco che sui fogli compaiono i primi tratti, prima
indistinti e poi sempre più chiari.
C’è chi disegna un matatu in prospettiva perfetta, chi degli
alberi, chi una casa e chi ancora un cane, fedele compagno che li protegge e
scalda nelle notti fredde.
C’è chi rappresenta sè stesso come un omone grande e
squadrato con una bottiglietta piena di colla stretta tra le mani e avvicinata
al viso, chi cita il nome di una delle più diffuse gang giovanili di Nairobi,
chi disegna un adulto e un bambino tristemente accompagnato dalla scritta “love
is blind”...ma c’è anche chi, in mezzo a tutto questo, da vita ai sempre
attuali e intramontabili Scooby-doo, Topolino, Spongebob.
Alcuni dei disegni dei bambini |
Noi volontari oggi siamo davvero tanti, e mi accorgo che
questo gruppo sta funzionando davvero molto bene. Faccio i complimenti ai
bambini per le loro capacità artistiche e mi spingo un pò più in la, con il
gruppo dei più piccini, dove altre volontarie stanno facendo animazone
proponendo giochi e bans.
Mi aggrego a loro, cantando e ballando fino a che il sole,
troppo forte per me, non mi costringe a ritirarmi all’ombra per prendermi una
pausa.
Mi siedo a bordo campo, all’ombra di un piccolo edificio che
sembra sia stato messo lì apposta per ristorarmi.
Da qui vedo tutto quello che succede attorno, e più di tutto
mi colpisce l’atteggiamento dei ragazzini della Papa Giovanni XXIII, che si
muovono lenti e spenti tra la folla attiva e brulicante di persone che giocano,
cantano, ballano e chiacchierano.
Mi chiedo quali possano essere i loro pensieri venendo qui e
rivivendo per qualche ora quella vita dura e maledetta che anche a loro è
toccato sperimentare prima di trovare nella Comunità una nuova casa e famiglia
accogliente e sicura in cui stare.
Li vedo spenti, quasi irriconoscibili rispetto al solito,
guardarsi intorno come se non volessero più vedere quel mondo a cui fino a poco
tempo fa anche loro appartenevano.
E’ nel mezzo di questi pensieri che mi si siede accanto S. che
fino a poco tempo fa stava giocando con me nel gruppo dei piccoli, nonostante
abbia almeno sedici anni.
Si mette a chiacchierare con me in un inglese perfetto che
gli invidio e mi chiede tante cose su di me, sulla mia vita, sui miei progetti.
E’ una chiacchierata bella, sincera, lucida. Di quelle che
non ti aspetteresti proprio con ragazzini sotto l’effetto di colla, con i quali
la maggior parte dei discorsi sfiorano i limiti dell’assurdo, saltano di palo
in frasca e faticano a trovare una conclusione logica.
Assisto ad una discussione tra alcuni bambini. Non capisco
nulla di cosa stia succedendo, ma tra uno spintone, qualche calcio e sberla,
uno di loro afferra un masso grande quanto due o tre mattoni, e minaccia di
lanciarlo contro al suo avversario. Mi chiedo se le loro condizioni gli
permettano di avere una percezione reale del rischio e soprattutto se
riuscirebbero a controllarsi e a fermarsi prima di scagliarlo davvero.
Faccio un respiro profondo, mi alzo e con indifferenza
glielo sfilo gentilmente dalle mani. Lui non oppone resistenza e continua
concentrato a litigare. Ma a mani nude. E questo già mi pare un successo.
I cani sono sempre li che si aggirano intorno. Annusano,
ringhiano, si avvicinano girandogli attorno quasi per calmarli.
I bambini li spostano, li spingono e li trascinano a sè, ci
si siedono sopra a cavalcioni e li incitano a muoversi...insomma, gliene
combinano di tutti i colori. Ma loro niente, sempre docili e tranquilli,
intenti più a proteggere loro che sè stessi.
Un bimbo che avrà si e no quattro anni inizia a girarmi attorno.
Si avvicina, mi scruta, ma appena lo guardo scappa via.
Poi torna di nuovo, gli tendo la mano, e la scena si ripete
almeno una decina di volte.
S. se la ride, e discutiamo così della paura dell’uomo
bianco, così simile a quella che in Italia i bambini hanno dell’ “uomo nero”,
una delle minacce preferite dagli ignari genitori, che senza volerlo iniziano a
gettare nei cuori semi di una non innata paura del diverso.
Ride S. mentre gliene parlo.
Ma io, che ho bene in mente quello che nel frattempo sta
succedendo nella “mia” Italia, non riesco proprio a fargli compagnia nemmeno
con un sorriso.
Chiacchieriamo fitto fitto ancora per un pò, e nel frattempo
il piccolino si avvicina passo passo.
Un altro bimbo, più o meno della sua età, mi sorride e mi si
avvicina di più. Non scappa, lo invito a sedersi accanto a me. Giochiamo un pò
con le nostre mani e ridiamo.
Lo stringo forte e lo annuso. Ha appiccicato addosso
quell’odore di strada che riempiva la stanza del dormitorio a Como durante
“l’Emergenza Freddo”, quando da volontaria restavo all’accoglienza a fare
quattro chiacchere di fronte ad un thè caldo con chi nel resto della giornata
non aveva avuto un posto dove stare. Erano sempre belle serate, ricche di
giochi, musica, incontri e strorie incredibili, che avrei continuato volentieri
ad ascoltare per tutta la notte.
Mi impressiona pensare che bambini così piccoli possano
riuscire a sopravvivere alla dura e spietata vita di strada, fatta di freddo e
di fame, competizione continua, abusi e sofferenze.
Vita di strada che è soprattutto assenza di quello che nelle
lezioni di circo sociale ci avevano sempre raccomandato di aver cura di
ricreare: uno spazio “sicuro e divertente”.
Resilienza. Qui la si può quasi toccare con mano.
Accarezzo e bacio la sua pelle sporca, anche per fare
qualche pernacchia sul suo braccino.
I suoi vestiti pieni di terra rossa sporcano i miei e mi
sembra di tornare a quando, in Madagascar, camminavo su per la collina
rientrando a casa dopo un pomeriggio trascorso a giocare con i bimbi del
Rambon-Danitra, e mi sembrava che tutti guardassero con stupore i miei vestiti
sempre zozzi e un pò logori.
E mi ritorna in mente anche quel giorno in cui, sotto la
pioggia, prestai la mia giacca al piccolo T. e poi indossandola sentivo di
avere ancora addosso il suo profumo di bambino un pò selvaggio.
Quanta tenerezza in quei ricordi!
Intanto Simone mi chiama: per noi volontari è ora di
salutare tutti e di andare via per raggiungere a piedi il posto in cui i
bambini vivono...o meglio si rifugiano la notte.
Loro nel frattempo andranno con l’educatore a mangiare: a
ciascuno di loro, al termine dell’attività, viene offerto un pranzo completo in
uno dei piccoli “ristorantini” delle baracche del Ghiturai 45. Cinquanta
scellini (meno di 50 centesimi) per chapati, riso, fagioli o cavoli, avocado e
the caldo. Un lusso che molti di loro non possono permettersi mai, e al quale
sopperiscono sniffando colla o cherosene (ben più economici) per non sentire i
morsi della fame.
Saluto i miei nuovi piccoli amici, e quasi mi dispiace
doverli lasciare e andarmene via senza di loro.
Cerco di immaginare, lungo la strada, come sarà fatto il
posto in cui vivono.
Immagino un giaciglio nascosto, a bordo strada, magari
riparato da delle lamiere, pieno di materassi disfatti e coperte di lana
sporche.
Invece, arrivati ad una rotonda, Simone dice “eccoci
arrivati, è qui che dormono”.
Mi guardo intorno con aria interrogativa...cosa mi sono
persa? Forse ho capito male e ci siamo già passati. Essendo l’ultima della fila
non mi sarò accorta.
Alzo lo sguardo e non voglio credere a quello che vedo. Gli
occhi si sgranano e poi istintivamente si ritraggono. Non capisco se sia per
l’incredulità o per rispetto, per non rischiare di posare lo sguardo troppo a
lungo su quel luogo disperato.
E’ una rotonda enorme, uno spazio aperto e indifeso, di
passaggio, al centro di un enorme incrocio sotto gli occhi di tutti, tutto il giorno
e tutta la notte. Ma che nessuno vive davvero, a parte loro. Che restano
invisibili.
Un “non-luogo” direbbe qualche antropologo moderno.
Le lacrime iniziano a spingere quando Simone ci invita ad
alzare ulteriormente lo sguardo per scorgere, sopra alle nostre teste, i loro
giacigli. Sono veri e propri tuguri, più simili a delle tane o a delle tombe
che a dei letti. Piccoli spazi stretti e lunghi con le pareti di cemento,
fessure tra una trave e l’altra di questo enorme cavalcavia, sospese a più di
dieci metri d’altezza e raggiungibili solo arrampicandosi ai piloni con l’aiuto
di una corda ormai sdrucita. Il vuoto sotto, l’autostrada a fare da tetto. Tra
le due uno spazio concavo in cui infilarsi e sdraiarsi (troppo basso anche solo
per starci seduti) da cui si vedono spuntare catini e coperte.
Passo in rassegna nella mia testa quel che so sulla
Dichiarazione Universale dei diritti del Fanciullo, e quello che proprio
continua a tormentarmi è il diritto di vivere in modo “sicuro”: garanzia di
cure mediche e protezioni sociali, cibo, casa, divertimento. Ma cosa c’è di
sicuro qui? Non sono forse anche loro bambini? Perchè ci sono bambini di serie
A, fortunati e coccolati, che io da educatrice in Italia addirittura ho il
divieto di far correre nel prato a piedi scalzi per non rischiare che si
facciano male, e altri di serie B ai quali questi diritti non spettano nemmeno
nelle forme più elementari, anche solo per garantirne la dignità di esseri
umani, per non farli regredire a bestie, per far si che non vivano guidati
sempre solo dalla crudeltà dell’istinto di sopravvivenza?
Rivedo le storie e le vite dei bambini che ho incontrato
nella mia breve esperienza di educatrice in questi sei anni dalla mia laurea.
Storie di incuria, abbandoni, maltrattamenti, abusi, rifiuti. Storie di dolore
e sofferenza, a cui ogni volta mi dicevo “peggio di così non si può stare”. E
mi arrabbiavo con il destino che a volte sembrava essersi accanito su piccole
vite indifese.
Ma ora? Dov’è, se c’è, un limite al peggio? Qual’è la soglia
di dolore e di sofferenza che la vita può infliggere e a cui si può riuscire a
resitere?
Non è solo un’infanzia, ma anche un’umanità schiacchiata,
calpestata, ignorata.
Che pur essendo lì, nel mezzo di una immensa rotonda
cittadina, riesce a restare incredibilmente invisibile.
INVISIBILE. E’ questo che fa più male.
Mi sento colpevole per tutte le volte in cui sono di certo
passata per rotonde e cavalcavia come questi e non ho visto nulla. Come è
possibile? Forse non ho voluto vedere?
Il groppo in gola aumenta ancora quando Simone si avvicina
ad un materasso sbattuto a terra sul quale, tremante sotto ad una coperta,
spunta la testa di un ragazzino di una decina di anni.
E’ stato circonciso da poco, e dovrebbe stare in ospedale
per evitare le infezioni, che in queste condizioni igieniche pessime sono
all’ordine del giorno. La cosa più logica da fare sarebbe chiamare un’ambulanza
o portarlo in ospedale e farlo ricoverare. Ma non si può: ne va del suo onore.
E’ un rito di iniziazione all’età adulta a cui tutti i bambini devono
sottoporsi per essere accettati. E non sarebbe giusto intervenire. Perchè dopo
l’ospedale lui dovrebbe ritornare in strada, e senza la sua dignità e il suo
orgoglio la vita per lui sarebbe ancora più dura.
Mi sento piccola e impotente.
Dovrei rispondere alle tante domande che i ragazzi del campo
estivo di cui sono coordinatrice mi continuano a fare ininterrottamente.
E invece mi spengo. Voglio solo un pò di silezio. Chiedo
loro un attimo di tregua: ne ho proprio bisogno.
Cammino lasciando andare avanti tutti quanti per poter
restare finalmente un pò da sola con i miei pensieri e le mie domande, con la
mia rabbia che non so placare, con le risposte concrete che sento di dover
dare.
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____ ____ ____
Mi aiuterà Padre Maurizio, missionario comboniano che lavora
in Kenya poco distante da noi e che ci regalerà un momento di riflessione al
termine di una visita di alcuni centri per ragazzi di strada a Korogocho, ad
interrogarmi davvero sulla mia responsabilità personale, sulla mia scala di
valori, sulle mie scelte di vita.
“ Dobbiamo continuare a
scandalizzarci! Non dobbiamo mai abituarci alle ingiustizie!
Dobbiamo decidere che persone
vogliamo essere, che valori portare avanti...ad ogni costo!
Donando noi stessi, quello che siamo.
Vivendo una vita che valga la pena di
essere vissuta. (...)
Non dobbiamo avere paura di
rischiare!
Abbiamo troppa paura di perdere le
nostre sicurezze
ma la domanda che dobbiamo farci è:
ne vale la pena?”
Ora che ho
visto con i miei occhi non posso più fingere di non sapere.
Sento di
avere un mandato, una responsabilità personale a cui non posso e non voglio
venire meno.
Ora che sono
stata testimone ho il dovere di raccontare, di denunciare, di scegliere da che
parte stare, di agire.
Soprattutto
ho il dovere di scegliere quali siano i valori che voglio difendere e in quale
misura io sia disposta a spendere la mia vita per essi, anche rinunciando alle
mie sicurezze e ai miei sogni certa che, come ci ha testimoniato Padre Maurizio
“ Donare la vita agli
altri non significa che te ne portino via un pò, ma che la si può condividere”
... moltiplicando la gioia!
Alice Viganò
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