venerdì 24 agosto 2018

Nairobi. Invisibili


Quando parti dalla Comunità Papa Giovanni XXIII per andare a fare attività educativa di strada con i bambini non ti puoi immaginare cosa troverai al tuo arrivo.
I ragazzi che un tempo vivevano sulla strada e che ora sono accolti qui da Simone sono vestiti bene, puliti, parlano un buon inglese e sono molto affetuosi. Ti accompagnano in questa mattinata tenendoti per mano, abbracciandoti, chiedendoti di raccontare loro qualcosa sulla tua vita in Italia, facendoti da ciceroni tra le vie di un quartiere nel quale sembra meglio assicurarsi di non passare mai da soli.
Le loro risate e i giochi che accompagnano la buona mezz’ora di cammino si interrompono bruscamente quando in lontananza si inizia ad intravedere il campo da calcio: i sorrisi si spengono, le battute sciocche stonano e tu capisci che stai per entrare in un altro mondo, completamente diverso da quello in cui stavi vivendo fino ad un attimo fa, e che anche tu devi rallentare, guardarti intorno, respirare.
Il ragazzo che ti stava accompagnando si defila con lo sguardo basso e triste, e tu ti senti per un istante sola in mezzo ad un enorme campo da calcio fatto di terra battuta che rapidamente si sta popolando di persone di ogni tipo.
Senti saluti intorno a te, vedi mani che si stringono e abbracci.
Ti viene spontaneo cercare mani, presentarti, abbracciare.
E’ solo allora che ti accorgi di quelle bottigliette sporche e schiacciate che iniziano a creare il primo imbarazzo: dove la metto per salutarti? In bocca? In tasca?
Non ci fai caso, sorridi e ti presenti. Si cambia mano a volte per agevolare la cosa.
Poi ci si mette in cerchio, tutti insieme.
Noi volontari italiani (i bianchi), Simone, Ben, i ragazzi della Papa Giovanni e i bambini di strada.
Non è tanto il diverso colore della pelle che stona, quanto il diverso colore dei vestiti.
Candidi e puliti i nostri ( che già avevamo scelto dal nostro guardaroba quelli più malconci) e luridi e zozzi i loro, che anche con un sole cocente indossano uno sopra l’altro due paia di pantaloni e almeno un altro paio di magliette con tanto di giacca sopra.

Vestiti da lavare al Boma Rescue Center di Korogocho

Non perchè faccia freddo. Ma perchè quando vivi per strada non puoi permetterti di toglierti niente, perchè non hai un posto sicuro dove lasciarlo.

La formazione a cerchio richiede di utilizzare entrambe le mani per tenersi stretti l’uno all’altro. E la difficoltà iniziale riguardo al dove mettere la bottiglietta aumenta: i bambini, chi più e chi meno, sono tutti dipenenti da quella colla che esala dalla bottiglietta e non riescono proprio a separarsene nemmeno per pochi secondi.
Qualcuno risolve mettendola in bocca, qualcun’altro nello scollo della maglietta per averla sempre vicina alla bocca e al naso, pronta da sniffare.
Il bambino alla mia destra è invece alle prese con un pezzo di maglione lercio, impregnato di cherosene, che a intervalli regolari di pochi secondi deve respirare.
Stessa difficoltà della bottiglietta all’inizio, perchè sia io che Enrico gli tendiamo le mani, e per poterle stringere entrambe deve liberarle.
E’ il momento più difficile della mattinata: mettere da parte quel fagotto per qualche secondo o qualche minuto.
I ragazzi più grandi accelerano la procedura, prendendo a calci quelli che ancora non hanno messo via le sostanze. Fanno a pugni per un pò, poi tornano nel cerchio come se niente fosse.

La manica della giacca è un altro punto perfetto dove infilare colla e cherosene, perchè da lì è un attimo avvicinarla al viso.
Con la guida dell’educatore al centro, e a turno di qualcuno di noi “grandi”, facciamo riscaldamento generale prima della partita di calcio: salti, flessioni, giravolte, persino yoga!
Resto incredula nel vedere come questi bambini che continuano a sniffare riescano comunque a raggiungere performance soddisfacenti negli esercizi sulla coordinazione in movimento e sull’equilibrio.
Qualcuno proprio non ce la fa, e affronta ogni esercizio ridendo a crepapelle e divincolandosi a casaccio o arrovellandosi senza raccapezzarsi...ma qualcun’altro, soprattutto i più grandicelli, sembrano essere buoni atleti. Il mio cervello non riesce a capacitarsene.
Poi ripesca pian piano nozionilegate all’effetto dell’abuso delle droghe studiate all’Università.
L’assuefazione e il bisogno di aumentare sempre le dosi perchè le droghe possano avere l’effetto desiderato.
Li guardo, uno più fragile dell’altro, e non lo accetto: mi sembra tutto così ingiusto!
Com’è possibile che dei bambini così piccoli e indifesi siano già a questi livelli di dipendenza?

Poi scatta il meccanismo di difesa: il mio cervello decide di non vedere più la colla e il cherosene ma solo i bambini. Bambini (alcuni anche un pò cresciuti) con tanto bisogno di giocare e divertirsi, per i quali per questo paio d’ore siamo chiamati ad essere presenti al cento per cento.

E allora prima dell’inizio della partita di calcio io mi stacco dalle squadre in formazione per andare a raggiungere il gruppo di disegno.
Per la prima volta abbiamo portato qui foglie e pennarelli, ed è affascinate osservare da fuori i disegni che, liberamente, la loro creatività e immaginazione, mescolate alle loro storie di vita, stanno generando.
Ed ecco che sui fogli compaiono i primi tratti, prima indistinti e poi sempre più chiari.
C’è chi disegna un matatu in prospettiva perfetta, chi degli alberi, chi una casa e chi ancora un cane, fedele compagno che li protegge e scalda nelle notti fredde.
C’è chi rappresenta sè stesso come un omone grande e squadrato con una bottiglietta piena di colla stretta tra le mani e avvicinata al viso, chi cita il nome di una delle più diffuse gang giovanili di Nairobi, chi disegna un adulto e un bambino tristemente accompagnato dalla scritta “love is blind”...ma c’è anche chi, in mezzo a tutto questo, da vita ai sempre attuali e intramontabili Scooby-doo, Topolino, Spongebob.

Alcuni dei disegni dei bambini

Noi volontari oggi siamo davvero tanti, e mi accorgo che questo gruppo sta funzionando davvero molto bene. Faccio i complimenti ai bambini per le loro capacità artistiche e mi spingo un pò più in la, con il gruppo dei più piccini, dove altre volontarie stanno facendo animazone proponendo giochi e bans.
Mi aggrego a loro, cantando e ballando fino a che il sole, troppo forte per me, non mi costringe a ritirarmi all’ombra per prendermi una pausa.
Mi siedo a bordo campo, all’ombra di un piccolo edificio che sembra sia stato messo lì apposta per ristorarmi.

Da qui vedo tutto quello che succede attorno, e più di tutto mi colpisce l’atteggiamento dei ragazzini della Papa Giovanni XXIII, che si muovono lenti e spenti tra la folla attiva e brulicante di persone che giocano, cantano, ballano e chiacchierano.
Mi chiedo quali possano essere i loro pensieri venendo qui e rivivendo per qualche ora quella vita dura e maledetta che anche a loro è toccato sperimentare prima di trovare nella Comunità una nuova casa e famiglia accogliente e sicura in cui stare.
Li vedo spenti, quasi irriconoscibili rispetto al solito, guardarsi intorno come se non volessero più vedere quel mondo a cui fino a poco tempo fa anche loro appartenevano.
E’ nel mezzo di questi pensieri che mi si siede accanto S. che fino a poco tempo fa stava giocando con me nel gruppo dei piccoli, nonostante abbia almeno sedici anni.
Si mette a chiacchierare con me in un inglese perfetto che gli invidio e mi chiede tante cose su di me, sulla mia vita, sui miei progetti.
E’ una chiacchierata bella, sincera, lucida. Di quelle che non ti aspetteresti proprio con ragazzini sotto l’effetto di colla, con i quali la maggior parte dei discorsi sfiorano i limiti dell’assurdo, saltano di palo in frasca e faticano a trovare una conclusione logica.

Assisto ad una discussione tra alcuni bambini. Non capisco nulla di cosa stia succedendo, ma tra uno spintone, qualche calcio e sberla, uno di loro afferra un masso grande quanto due o tre mattoni, e minaccia di lanciarlo contro al suo avversario. Mi chiedo se le loro condizioni gli permettano di avere una percezione reale del rischio e soprattutto se riuscirebbero a controllarsi e a fermarsi prima di scagliarlo davvero.
Faccio un respiro profondo, mi alzo e con indifferenza glielo sfilo gentilmente dalle mani. Lui non oppone resistenza e continua concentrato a litigare. Ma a mani nude. E questo già mi pare un successo.
I cani sono sempre li che si aggirano intorno. Annusano, ringhiano, si avvicinano girandogli attorno quasi per calmarli.
I bambini li spostano, li spingono e li trascinano a sè, ci si siedono sopra a cavalcioni e li incitano a muoversi...insomma, gliene combinano di tutti i colori. Ma loro niente, sempre docili e tranquilli, intenti più a proteggere loro che sè stessi.

Un bimbo che avrà si e no quattro anni inizia a girarmi attorno.
Si avvicina, mi scruta, ma appena lo guardo scappa via.
Poi torna di nuovo, gli tendo la mano, e la scena si ripete almeno una decina di volte.
S. se la ride, e discutiamo così della paura dell’uomo bianco, così simile a quella che in Italia i bambini hanno dell’ “uomo nero”, una delle minacce preferite dagli ignari genitori, che senza volerlo iniziano a gettare nei cuori semi di una non innata paura del diverso.
Ride S. mentre gliene parlo.
Ma io, che ho bene in mente quello che nel frattempo sta succedendo nella “mia” Italia, non riesco proprio a fargli compagnia nemmeno con un sorriso.
Chiacchieriamo fitto fitto ancora per un pò, e nel frattempo il piccolino si avvicina passo passo.

Un altro bimbo, più o meno della sua età, mi sorride e mi si avvicina di più. Non scappa, lo invito a sedersi accanto a me. Giochiamo un pò con le nostre mani e ridiamo.
Lo stringo forte e lo annuso. Ha appiccicato addosso quell’odore di strada che riempiva la stanza del dormitorio a Como durante “l’Emergenza Freddo”, quando da volontaria restavo all’accoglienza a fare quattro chiacchere di fronte ad un thè caldo con chi nel resto della giornata non aveva avuto un posto dove stare. Erano sempre belle serate, ricche di giochi, musica, incontri e strorie incredibili, che avrei continuato volentieri ad ascoltare per tutta la notte.
Mi impressiona pensare che bambini così piccoli possano riuscire a sopravvivere alla dura e spietata vita di strada, fatta di freddo e di fame, competizione continua, abusi e sofferenze.
Vita di strada che è soprattutto assenza di quello che nelle lezioni di circo sociale ci avevano sempre raccomandato di aver cura di ricreare: uno spazio “sicuro e divertente”.
Resilienza. Qui la si può quasi toccare con mano.
Accarezzo e bacio la sua pelle sporca, anche per fare qualche pernacchia sul suo braccino.

I suoi vestiti pieni di terra rossa sporcano i miei e mi sembra di tornare a quando, in Madagascar, camminavo su per la collina rientrando a casa dopo un pomeriggio trascorso a giocare con i bimbi del Rambon-Danitra, e mi sembrava che tutti guardassero con stupore i miei vestiti sempre zozzi e un pò logori.

E mi ritorna in mente anche quel giorno in cui, sotto la pioggia, prestai la mia giacca al piccolo T. e poi indossandola sentivo di avere ancora addosso il suo profumo di bambino un pò selvaggio.
Quanta tenerezza in quei ricordi!

Intanto Simone mi chiama: per noi volontari è ora di salutare tutti e di andare via per raggiungere a piedi il posto in cui i bambini vivono...o meglio si rifugiano la notte.
Loro nel frattempo andranno con l’educatore a mangiare: a ciascuno di loro, al termine dell’attività, viene offerto un pranzo completo in uno dei piccoli “ristorantini” delle baracche del Ghiturai 45. Cinquanta scellini (meno di 50 centesimi) per chapati, riso, fagioli o cavoli, avocado e the caldo. Un lusso che molti di loro non possono permettersi mai, e al quale sopperiscono sniffando colla o cherosene (ben più economici) per non sentire i morsi della fame.

Saluto i miei nuovi piccoli amici, e quasi mi dispiace doverli lasciare e andarmene via senza di loro.
Cerco di immaginare, lungo la strada, come sarà fatto il posto in cui vivono.
Immagino un giaciglio nascosto, a bordo strada, magari riparato da delle lamiere, pieno di materassi disfatti e coperte di lana sporche.
Invece, arrivati ad una rotonda, Simone dice “eccoci arrivati, è qui che dormono”.
Mi guardo intorno con aria interrogativa...cosa mi sono persa? Forse ho capito male e ci siamo già passati. Essendo l’ultima della fila non mi sarò accorta.
Alzo lo sguardo e non voglio credere a quello che vedo. Gli occhi si sgranano e poi istintivamente si ritraggono. Non capisco se sia per l’incredulità o per rispetto, per non rischiare di posare lo sguardo troppo a lungo su quel luogo disperato.
E’ una rotonda enorme, uno spazio aperto e indifeso, di passaggio, al centro di un enorme incrocio sotto gli occhi di tutti, tutto il giorno e tutta la notte. Ma che nessuno vive davvero, a parte loro. Che restano invisibili.
Un “non-luogo” direbbe qualche antropologo moderno.
Le lacrime iniziano a spingere quando Simone ci invita ad alzare ulteriormente lo sguardo per scorgere, sopra alle nostre teste, i loro giacigli. Sono veri e propri tuguri, più simili a delle tane o a delle tombe che a dei letti. Piccoli spazi stretti e lunghi con le pareti di cemento, fessure tra una trave e l’altra di questo enorme cavalcavia, sospese a più di dieci metri d’altezza e raggiungibili solo arrampicandosi ai piloni con l’aiuto di una corda ormai sdrucita. Il vuoto sotto, l’autostrada a fare da tetto. Tra le due uno spazio concavo in cui infilarsi e sdraiarsi (troppo basso anche solo per starci seduti) da cui si vedono spuntare catini e coperte.

Passo in rassegna nella mia testa quel che so sulla Dichiarazione Universale dei diritti del Fanciullo, e quello che proprio continua a tormentarmi è il diritto di vivere in modo “sicuro”: garanzia di cure mediche e protezioni sociali, cibo, casa, divertimento. Ma cosa c’è di sicuro qui? Non sono forse anche loro bambini? Perchè ci sono bambini di serie A, fortunati e coccolati, che io da educatrice in Italia addirittura ho il divieto di far correre nel prato a piedi scalzi per non rischiare che si facciano male, e altri di serie B ai quali questi diritti non spettano nemmeno nelle forme più elementari, anche solo per garantirne la dignità di esseri umani, per non farli regredire a bestie, per far si che non vivano guidati sempre solo dalla crudeltà dell’istinto di sopravvivenza?

Rivedo le storie e le vite dei bambini che ho incontrato nella mia breve esperienza di educatrice in questi sei anni dalla mia laurea. Storie di incuria, abbandoni, maltrattamenti, abusi, rifiuti. Storie di dolore e sofferenza, a cui ogni volta mi dicevo “peggio di così non si può stare”. E mi arrabbiavo con il destino che a volte sembrava essersi accanito su piccole vite indifese.
Ma ora? Dov’è, se c’è, un limite al peggio? Qual’è la soglia di dolore e di sofferenza che la vita può infliggere e a cui si può riuscire a resitere?
Non è solo un’infanzia, ma anche un’umanità schiacchiata, calpestata, ignorata.
Che pur essendo lì, nel mezzo di una immensa rotonda cittadina, riesce a restare incredibilmente invisibile.

INVISIBILE. E’ questo che fa più male.

Mi sento colpevole per tutte le volte in cui sono di certo passata per rotonde e cavalcavia come questi e non ho visto nulla. Come è possibile? Forse non ho voluto vedere?
Il groppo in gola aumenta ancora quando Simone si avvicina ad un materasso sbattuto a terra sul quale, tremante sotto ad una coperta, spunta la testa di un ragazzino di una decina di anni.
E’ stato circonciso da poco, e dovrebbe stare in ospedale per evitare le infezioni, che in queste condizioni igieniche pessime sono all’ordine del giorno. La cosa più logica da fare sarebbe chiamare un’ambulanza o portarlo in ospedale e farlo ricoverare. Ma non si può: ne va del suo onore. E’ un rito di iniziazione all’età adulta a cui tutti i bambini devono sottoporsi per essere accettati. E non sarebbe giusto intervenire. Perchè dopo l’ospedale lui dovrebbe ritornare in strada, e senza la sua dignità e il suo orgoglio la vita per lui sarebbe ancora più dura.

Mi sento piccola e impotente.
Dovrei rispondere alle tante domande che i ragazzi del campo estivo di cui sono coordinatrice mi continuano a fare ininterrottamente.
E invece mi spengo. Voglio solo un pò di silezio. Chiedo loro un attimo di tregua: ne ho proprio bisogno.
Cammino lasciando andare avanti tutti quanti per poter restare finalmente un pò da sola con i miei pensieri e le mie domande, con la mia rabbia che non so placare, con le risposte concrete che sento di dover dare.
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Mi aiuterà Padre Maurizio, missionario comboniano che lavora in Kenya poco distante da noi e che ci regalerà un momento di riflessione al termine di una visita di alcuni centri per ragazzi di strada a Korogocho, ad interrogarmi davvero sulla mia responsabilità personale, sulla mia scala di valori, sulle mie scelte di vita.

“ Dobbiamo continuare a scandalizzarci! Non dobbiamo mai abituarci alle ingiustizie!
Dobbiamo decidere che persone vogliamo essere, che valori portare avanti...ad ogni costo!
Donando noi stessi, quello che siamo.
Vivendo una vita che valga la pena di essere vissuta. (...)
Non dobbiamo avere paura di rischiare!
Abbiamo troppa paura di perdere le nostre sicurezze
ma la domanda che dobbiamo farci è: ne vale la pena?”

  
Ora che ho visto con i miei occhi non posso più fingere di non sapere.
Sento di avere un mandato, una responsabilità personale a cui non posso e non voglio venire meno.
Ora che sono stata testimone ho il dovere di raccontare, di denunciare, di scegliere da che parte stare, di agire.
Soprattutto ho il dovere di scegliere quali siano i valori che voglio difendere e in quale misura io sia disposta a spendere la mia vita per essi, anche rinunciando alle mie sicurezze e ai miei sogni certa che, come ci ha testimoniato Padre Maurizio

“ Donare la vita agli altri non significa che te ne portino via un pò, ma che la si può condividere”
 ... moltiplicando la gioia!




Alice Viganò

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