Rendo pubblica una pagina del mio
diariodiviaggio: racconta una delle
giornate più intense vissuta durante il #CantiereNAIROBI.
8 Agosto 2018
Scrivo questo post appena rientrata da Githurai 45, una
tenuta che si trova al confine della contea di Kiambu e della contea di
Nairobi, lungo Thika Road.
Giusto il tempo di farmi una doccia approfittando
dell’acqua corrente che domani potrebbe non esserci più. Qui a Kahawa West in
questo periodo l’acqua corrente è garantita solo un giorno a settimana,
solitamente il martedì. Oggi è mercoledì, quindi siamo fortunati.
Essendo in dieci ogni martedì dobbiamo riempire le
taniche di riserva e i boccioni da venti litri, per avere acqua in caso di
necessità.
Sono tornata a casa da poco e non so dire esattamente
cosa provo. La visita a Githurai 45 mi ha sconvolto, turbato.
Sono arrabbiata
triste
de-moralizzata
delusa
scardinata.
Ma andiamo con ordine. Sveglia ore 7:00. Come ogni
mattina Giacomo irrompe nelle nostre camere preparandoci al nuovo giorno con
una pistola d’acqua.
Si prospetta una giornata impegnativa. Non tanto
fisicamente, quanto a livello emotivo.
Destinazione: Githurai 45.
Simone, responsabile di una comunità per bambini di
strada gestita dalla Papa Giovanni XXXIII, ci aspetta alle 10 nella loro sede,
la “G9”, vicino alla baraccopoli di Soweto, a sud-est di Nairobi.
Ci incamminiamo verso Githurai 45 insieme a lui, ai
volontari che stanno svolgendo il servizio presso questa comunità e ai bambini
che vi vivono. Uno di loro, John [i nomi
dei bambini in questo articolo sono stati modificati per rispettare la loro
privacy, nda], mi prende per mano
con tanta naturalezza prima di uscire dal cancello, senza dirmi una parola,
stringendomela forte.
Abbiamo raggiunto il campo da calcio in venti minuti
circa e per tutto il tempo siamo stati mano nella mano passando attraverso
baracche
fango
immondizia
sporco
acqua putrida e puzzolente
capre
mucche
donne che cucinavano per terra
bambini che facevano la pipì in mezzo ai rifiuti
odore di marcio
di cibo putrefatto
rifiuti organici
bambini seduti per terra, nel fango, con vestiti strappati
e nemmeno della loro taglia e sesso.
Si stacca da me solamente una volta arrivati al campo da
calcio a cui eravamo diretti solo perché devo presentarmi ad un ragazzo
stringendogli la mano: mi serve proprio la destra.
Durante il tragitto abbiamo parlato tanto: nel pomeriggio
sarebbe tornato a casa dalla sua famiglia a Kahawa West, nello stesso quartiere
dove alloggiamo noi di Caritas. Tornando verso casa, infatti, l’ho rivisto
appena fuori da un supermarket e ci siamo salutati.
Il campo di calcio. Un campo di terra rossa. Terra rossa
che sporca tutti indistintamente.
Terra rossa sui vestiti
Terra rossa nei capelli
Terra rossa sotto le unghie
Terra rossa sulle scarpe
Terra rossa sulla parte di caviglia tra la scarpa e il
pantalone che inevitabilmente rimane scoperta
Terra rossa sullo zaino
Terra rossa negli occhi.
Ci sono decine di bambini. Entro nel campo, sempre tenuta
stretta da John.
Una delle figure che più mi colpisce è quella che io
credevo essere una bambina.
Indossa una felpa rosa col pelo nel cappuccio
jeans rotti e strappati
infradito rosa.
Sotto la felpa si intravede il colletto di una camicia a
quadri rossi bianchi e neri.
Aveva i capelli molto corti
gli occhi gialli
la bava alla bocca
cammina ciondolando
è molto sporca
puzza
completamente ricoperta di terra rossa
terra rossa sotto le unghie delle mani e dei piedi
una ferita rimarginata da poco sul polso, di un colore
che fa pensare ad una possibile infezione in corso
e una bottiglietta di plastica molto sporca
contenente colla.
Sniffa colla in continuazione, senza tregua
[Un problema molto diffuso qui è l’uso e conseguente
abuso di colla e cherosene. Costano molto poco, meno del cibo, ed eliminano la
sensazione di fame.]
è completamente drogata
anestetizzata
lontana dalla percezione della realtà.
Parla in swahili lentamente e in modo cantilenante. Al
mio “Habari!” Ciao, come stai?
risponde “Nzuri sana” Sto molto bene!.
Solo in un secondo (o terzo?) momento scopro che è un
maschietto, un bambino.
Mi hanno tratto in inganno la felpa e le infradito rosa,
oltre al suo sguardo enigmatico e perso.
Mi dice di chiamarsi James, anche se gli altri bambini lo
chiamano diversamente. A me piace ricordarlo come James.
James non è il solo con la bottiglietta di colla in mano.
La maggior parte dei bambini e ragazzi ne ha una, insieme ad un fazzoletto
intriso di cherosene.
James e gli altri hanno costantemente in bocca e sotto il
naso la colla. Non la spostano nemmeno un momento, nemmeno mentre ti rivolgono
la parola. A tratti la nascondono tra le due clavicole, sotto la felpa, quando
le mani devono essere obbligatoriamente libere.
Ci mettiamo in cerchio per iniziare i giochi. James viene
accanto a me, alla mia sinistra e mi prende per mano.
La stringe forte.
La sua mano è sporca
è ruvida
ma mi stringe forte.
In una mano ha la mia
nell’altra la colla.
Mi lascia per un istante per poi riattaccarsi incrociando
le sue dita con le mie.
Mette la colla sotto la felpa in modo tale che abbassando
il mento sarebbe riuscita comunque ad inalarla. Con l’altra mano mi accarezza
il braccio, alza la testa e mi guarda con i suoi occhi spenti e gialli, che
ogni tanto (forse inconsciamente) gira all’indietro.
Occhi che non appartengono ad un bambino di nove anni.
James mi guarda
sorride
sbava
e continua ad accarezzarmi il braccio.
Guarda le mie unghie e le mie dita, pulite. Mette accanto
la sua mano come volesse confrontarle.
Io lo lascio fare, e lo guardo sorridendo.
Il tutto penso non sia durato più di 15 minuti, ma a me è
parso un’eternità.
Dopo un paio d’ore di giochi Simone ci propone di
mostrarci il posto che i bambini e ragazzini di strada utilizzano come “base”,
dove vivono come una famiglia proteggendosi a vicenda. È un grande spiazzo di
cemento al di sotto di un ponte.
Puzza vomitevole di rifiuti organici
immondizia
terra
fango.
In quel momento c’erano solo tre bambini.
Uno di loro era sdraiato sopra ad un pezzo di cartone,
sotto ad una coperta leggera. Non riesce né a camminare né a stare seduto.
È stato circonciso pochi giorni fa in ospedale e
rimandato a casa (in strada) dopo due giorni. La ferita non si cicatrizza e ha
fatto infezione.
Un altro bambino ha la sua bottiglietta di colla e non la
toglie da sotto il naso nemmeno per un istante. Dice di consumarne una al
giorno.
Questi bambini dormono lì
sotto il ponte
incastrati nelle fosse tra l’asfalto e l’immondizia
usando vecchie gomme d’ auto come cuscini
tra le travi in cima ai pilastri che reggono il ponte.
Attaccate ad ogni pilastro ci sono delle corde che i
bambini usano per salire a 12 metri di altezza.
A quest’altezza ci sono cartoni, bottigliette e ciabatte
segno che lì qualcuno prova a vivere
o a sopravvivere.
Mi allontano da questa “base” insieme agli altri ragazzi,
salutando personalmente i tre bambini.
Aspetto che anche il ragazzo sdraiato, poco più lontano,
mi veda. Ho qui e ora davanti agli occhi l’immagine del suo saluto:
un piccolo cenno con la testa e uno sguardo rassegnato.
I miei occhi sono gonfi di lacrime.
È difficile accettare il proprio essere impotenti di fronte
ad una realtà così devastata ed ingiusta.
Ci incamminiamo verso Soweto. Attraversiamo un ponte, una
decina di metri sopra ad un fiume color marrone sporchissimo entro cui alcuni
bambini sguazzano gridando e tre donne lavano i panni.
Il fiume passa attraverso campi verdi coltivati dove
lavorano molte persone. In lontananza inizia a scorgersi Soweto.
Ho pianto tanto
Di dolore e di rabbia.
Ricordo esattamente il nodo che avevo in gola mentre
camminavo tra le baracche.
Un nodo grandissimo
Soffocante
Intriso di tutte le parole indicibili e impronunciabili
in quel momento.
Mi è venuto spontaneo fare un confronto con i nostri
bambini:
bambini che hanno una mamma
bambini che hanno una famiglia
bambini che hanno un tetto sotto cui dormire
bambini che sanno leggere e scrivere
bambini che hanno più di un pasto al giorno garantito
bambini che possono cambiarsi i vestiti se questi sono
sporchi
bambini che possono bere un bicchiere d’acqua se hanno
sete
bambini che possono infilarsi sotto una coperta calda se
sono ammalati
bambini che possono fare una doccia
bambini che possono giocare
bambini che la domenica vanno al parco col la mamma e
papà.
Gli street children
sono bambini che non hanno il diritto di essere bambini. A Nairobi sono decine
di migliaia.
Bambini senza mamma e papà
Bambini abbandonati in strada all’età di tre anni
Bambini figli di atti di prostituzione
Bambini senza un letto su cui dormire
Bambini senza un tetto sotto cui ripararsi
Bambini senza un posto che possono chiamare casa
Bambini che sono costretti a rubare, per sopravvivere
Bambini che leccano i sassi, per il disperato bisogno di
avere qualcosa sotto i denti
È grande il senso di impotenza che provi davanti a queste
realtà.
È grande e ti distrugge ti logora. Cosa puoi fare tu?
Così finisce la mia pagina di diario di quel giorno.
Recentemente ho letto in “Korogocho” di Alex Zanotelli, padre comboniano che ha vissuto dal
1994 al 2002 proprio nella baraccopoli di Korogocho, una definizione di
missione che mi ha colpito molto e che condivido totalmente: Mission
is to sit where people sit and let God happen, “Fare missione è sedersi dove la gente si siede e lasciare che Dio
avvenga.”.
Forse la risposta a questo senso di impotenza è proprio
questa: non possiamo pretendere di salvare il mondo facendo grandi cose.
Possiamo partire dallo stare, anziché dal fare.
È una cosa che ho sperimentato tanto durante queste tre
settimane e non c’è niente di più vero.
A chi da casa mi chiedeva “Cosa hai fatto oggi?” spesso rispondevo “sono stata con i ragazzi”.
Sono stata ad
ascoltare le loro storie i loro sogni progetti speranze e ho condiviso qualcosa
di me, affinché fosse una vera condivisione e scambio.
Quando sono partita per l’Africa ero consapevole che
avrei trovato tanta povertà, ma finché
non la vedi con i tuoi occhi
non la tocchi con le tue mani
non sai davvero cos’è. E una volta incontrata non puoi
più far finta di niente, voltarle le spalle e aspettare che siano gli altri a
fare il primo passo per cambiare qualcosa.
Devi esserne testimone
Devi uscire dal bozzolo
Devi fare qualcosa affinché la vita vinca.
Elisa De Capitani
Nessun commento:
Posta un commento