Il mio cantiere è fatto di incontri.
Quelli che ogni sera condividevamo ad alta voce intorno al
tavolo di casa.
Sono tanti, troppi incontri, per poterli condividere tutti in
un unico post, soprattutto quando si cerca di dare a ognuno il giusto peso.
Ogni ragazzo di Cafasso, ogni persona di Kahawa e ogni detenuto della YCTC mi
ha dato qualcosa che cercherò di conservare per il futuro.
Ho scelto perciò di raccontare di due incontri simbolici con
due ragazzi che, in modo diametralmente opposto, sono entrati prepotentemente
nei miei ricordi.
Kenya. Nairobi County. Kamiti Prison. YCTC.
Ho conosciuto I. il primo giorno in cui siamo entrati allo
Youth Correctional Training Centre di Nairobi, il carcere minorile maschile
dove due volte a settimana Giacomo e Alice svolgono il loro servizio. Quando lo
vedo per la prima volta, I. mi fa quasi paura. Ha sedici, massimo diciassette
anni, e mi si avvicina con lo sguardo furbo. Cerca subito il contatto fisico
mentre io mi ritraggo: non sono ancora pronta per lasciarlo entrare nel mio
spazio personale. Indossa dei jeans lisi e una canottiera bianca, simbolo del
fatto che è ancora in attesa di giudizio, altrimenti avrebbe addosso una
divisa. Ai piedi ha delle orribili ciabatte di plastica con solo il pollice
coperto. Ciabatte che vedo ovunque ai piedi di chiunque.
Lo saluto con un sorriso e gli dico Habari?, cioè
“Come stai?”, e poi mi scanso, mettendomi in un angolo del campo da calcio in
attesa che inizi la partita. Vorrei essere più gentile e più espansiva, ma
entrare in un carcere minorile maschile con più di cinquanta ragazzi è uscire
decisamente dalla mia comfort zone.
I ragazzi che mi guardano incuriositi sono adolescenti, ma il
loro sguardo, come lo sguardo di I., è quello di uomini già fatti e finiti.
Provo a parlare con due o tre ragazzi in divisa blu e che fanno parte della mia
squadra, ma uno mi chiama muzungu (bianca), fa un commento sul mio corpo
e m’innervosisco. Non dovrei prendermela, è umano e siamo tra le prime ragazze
– bianche – con cui questi ragazzi entrano in contatto; eppure non riesco a
sentirmi a mio agio.
Scelgo di giocare a calcio perché so che per me è il modo più
facile per interagire con un branco di adolescenti puzzolenti con gli ormoni su
di giri. Io e I. siamo in squadre diverse. Io ho la maglietta, lui no. Io sono
libera, lui è ancora in attesa di giudizio. Lui sorride, io sono nervosa. Mi
sorride ancora e mi incoraggia con il pollice in su. Sorrido anch’io e cerco di
non pensare alla paura, ma solo alla voglia di esserci e di non fare schifo a
calcio. Il secondo proposito non è semplice. Mentre giochiamo, capita più volte
che I. e io ci tiriamo delle spallate. Nessuno dei due ha dei piedi fini, ma
entrambi non abbiamo paura del contatto. Probabilmente ho ancora il segno di
una delle volte in cui mi ha tirato una gomitata per rubarmi la palla.
Finita la partita ci sediamo sul prato. Non ho più paura di
lui dopo quelle spallate. Mi chiede se in Italia ci sono le zebre e se il
sistema carcerario italiano è simile a quello keniano. Non so cosa rispondere
all’ultima domanda, quindi ripiego sulla gastronomia. Mi chiede dei miei sogni
e quanto costano le mie scarpe. Thirty euros?!, esclama basito. Per lui
sono una somma di denaro con cui rifarsi tutto il guardaroba.
Sul prato abbiamo iniziato a conoscerci e a parlare. Sempre a
distanza, io seduta da una parte e lui di fronte. Non ha mai più provato ad
abbracciarmi e per questo riusciamo a chiacchierare di tutto. Glisso sempre
sulle domande troppo personali, evito di chiedergli del suo passato, ma lui si
apre e mi racconta tante cose, soprattutto di sua mamma. Chissà se tutto quello
che mi ha raccontato sia vero. In quel momento per me è la verità e mi basta.
Alla fine del primo giorno lo saluto con una fraterna stretta
di mano.
Lunedì 13. Non dimenticherò gli occhi lucidi e impazienti di
I. quando viene chiamato da una guardia. Mi guarda e mi dice che deve andare
dal giudice. Abbraccia Alice e mi saluta con la mano. Mi viene un groppo in
gola e mi chiedo come facciano i servizio-civilisti a trattenere le lacrime
ogni volta. Potrei non vedere più I. e parlare con lui di religione e chapati.
Oppure potrei vederlo con la divisa blu, e quindi sapere che è stato processato
per un crimine che effettivamente ha commesso. Non so cosa augurarmi, ma
soprattutto non so cosa augurare a lui. Il carcere non si dovrebbe mai augurare
a nessuno, ma penso che quattro mesi alla YCTC potranno forse portarlo a
Cafasso e a rimettersi in sesto. Non lo
conosco abbastanza bene, ma mi piace pensare che si meriti anche lui una
seconda possibilità. A Cafasso d’altronde si dice che there is no saint
without a past nor a sinner without a future.
Mi è bastato quel primo giorno per affezionarmi a lui e per
riconoscere il suo volto in mezzo a quelli dei tanti altri ragazzi che
aspettano di sapere se indosseranno la divisa blu o se verranno rispediti nei
loro fatiscenti quartieri in cui è difficile essere santi. Vederlo partire per
l’ignoto ha sollevato in me più interrogativi che risposte e ho maturato
sentimenti agrodolci, misti a un pizzico di saudade. Auguro a I. che la
vita sia un po’ più buona con lui, a prescindere dalla sentenza, mentre un
altro ragazzo mi riporta alla realtà del prato dentro la YCTC.
Ripensando a quella prima impressione, non avrei mai pensato
che sarebbe stata questione di un attimo riconoscere il volto sorridente di I.
tra le divise blu il giovedì dopo e che sarei andata io, per prima, ad
abbracciarlo.
Kenya. Nairobi County. Kamiti Prison. St Joseph Cafasso
Consolation House.
K. è un ragazzone ben piazzato, alto (ma questo vuol dire ben
poco visto quanto sono bassa) e con uno sguardo vispo. Ha un senso
dell’umorismo e un mondo dentro più grandi di quanto intuisco dai suoi lunghi
silenzi. Con K. ho parlato per la prima volta dopo due settimane di cantiere e
mi pento di non aver passato più tempo con lui.
Si è aperto con me lentamente, ma mi piace pensare che
l’abbia fatto proprio perché volesse e non fosse costretto. Lui e N., piccolino
nei suoi sedici anni, sono simili in questo. A inizio cantiere stavano appena
sulla porta quando noi arrivavamo, troppo timidi o troppo orgogliosi per
sedersi vicino a noi. Scappavano via subito per svolgere i loro duties:
K. con le mie amate mucche e N. in cucina.
Siamo diventati amici giocando in
silenzio a carte, pronunciando in swahili a mezza voce i quattro semi. Sia
ringraziata mia nonna che mi ha messo in mano un mazzo di carte prima ancora
che imparassi a leggere!
K. fa braccialetti e sembra mio cugino, eccetto che per il
colore della pelle. È un diciottenne fondamentalmente buono (goodness è
la parola che gli ho scritto sul braccio l’ultimo giorno) e meno “paperottolo”
di quello che vorrei ammettere. Se esiste una cosa su cui continuo ad
arrovellarmi, è come sia possibile che un ragazzo come lui possa essere andato
in carcere. Come lui, ma anche come N., NJ., M. e tutti gli altri ragazzi di
Cafasso. K. con la divisa blu mi sembra stonare più del crème caramel con i
cetriolini. Come può essere stato possibile?
K. sta quasi sempre in silenzio, ma, quando non è presente,
la sua assenza entra nella sala comune e la fa da padrona. K., il nostro
italiano onorario, mi manca anche ora nel silenzio della mia camera perché
questo silenzio non è paragonabile a quello che condividevamo mentre
spannocchiavamo al sole di mezzogiorno.
K. sono certa che trarrà giovamento da Cafasso e che avrà una
seconda possibilità coi fiocchi. Se la merita davvero. Sebbene io non conosca
il suo passato e non conoscerò il suo futuro, so che è proprio un bravo
ragazzone di campagna che merita il meglio della vita. Da lui ho imparato
lezioni per la vita che vanno al di là di mungere le mucche e fare braccialetti
di perline un po’ pacchiani. Mi ha insegnato ad avvicinarmi a qualcuno senza
bisogno di parole e a stare in ascolto nel silenzio, anche se io sono
logorroica.
Non dimenticherò il tuo abbraccio, l’ultimo giorno, quando mi
hai detto di tua spontanea volontà I will miss you. Quattro parole e un
abbraccio che avranno per sempre un posto nei miei ricordi.
Asante sana, uomo pelato.
Silvia Brambilla
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