Confina con Israele -da cui è
stato invaso e bombardato circa dieci anni fa- e con la Siria, attualmente
martoriata da una guerra civile.
L'instabilità politica del paese
ha determinato un vuoto della carica presidenziale che si protrae dal maggio del 2014, causato da un vacillante
equilibrio tra le molteplici realtà confessionali presenti.
Si tratta quindi di un paese che
lotta per mantenere un'apparente situazione di stabilità e allo stesso tempo
riceve centinaia di migliaia di profughi scappati dalla guerra in Siria. Il
numero effettivo di rifugiati attuali è tuttavia controverso: oscilla tra la
stima dell'UNHCR, che ha registrato poco più di un milione di rifugiati e
richiedenti asilo, e un'ipotesi meno ufficiale ma più plausibile che prevede la
presenza in Libano di oltre due milioni di profughi.
Il numero è spaventoso,
soprattutto se paragonato ai 900,000 siriani registrati in tutta Europa.
Questi due milioni di uomini,
donne e bambini sono bloccati in una sorta di limbo tra la vita passata e un
futuro incerto, che costruisce le propria fondamenta sulla base di visti negati
e confini serrati.
Ognuno ha una propria storia, che
meriterebbe di essere raccontata a chiunque pensi che tutti i siriani sono in
qualche modo responsabili del conflitto nel loro paese e dell' ingente massa di
profughi che sbarcano sulle nostre spiagge. A chi sostiene che "sono
problemi loro e della guerra che si fanno a vicenda".
In migliaia vivono in campi
profughi improvvisati vicino al confine siriano, sopravvivono grazie ad aiuti
umanitari che gli forniscono i mezzi di sussistenza di base necessari per
potersi ancora definire dignitosamente umani.
Tra le tante storie che si incrociano
in Libano c'è quella di Fatma, originaria di Aleppo, che adesso vive in un
campo profughi palestinese. E' madre di sei figli maschi tra i 10 e i 26 anni.
Lavorano tutti, ad eccezione del più piccolo. Nessun lavoro fisso, solo impieghi
improvvisati e incerti che gli permettono di pagare faticosamente l'affitto
della casa.
Nella stessa strada del campo
abitano Sabah, una ragazza di ventisei anni di Homs, e sua figlia nata un anno
fa in Libano. Sabah è più fortunata di Fatma, dato che suo marito lavora in un
ristorante e tutti i mesi porta a casa uno stipendio fisso di 400 dollari, 300
dei quali servono per pagare l'affitto delle due stanze in cui vivono. La casa
in cui abitavano in Siria non c'è più. Khalas.
Solo un cumulo di macerie.
Poi c'è la storia di Jusef, che a
Damasco ha studiato ingegneria perché voleva fare l'ingegnere. Ma in Siria non
si costruisce più nulla dato che tutto si distrugge, dunque Yusef lavora in
Libano come giornalista, raccontando gli svolgimenti di una guerra che non ha
mai voluto.
Fadi invece ad Aleppo faceva il
pittore. Sul tavolo del suo nuovo studio a Beirut sono impilati i cataloghi
delle mostre a cui ha partecipato durante gli anni, tra cui la rinomata
Biennale di Venezia. Tra le poche cose che ha portato con sé in Libano ci sono le
tele dei suoi dipinti, che ha poi rimontato su telai ora ammucchiati e
impolverati nel suo nuovo studio, che in realtà non è altro che la sua camera
da letto.
Sono siriani anche gli uomini
stanchi che la sera tornano a Beirut dopo una giornata di lavoro nel nord del paese.
Li si incontra la sera sui van provenienti da Tripoli e li si riconosce per i
pantaloni sporchi di terra o le mani macchiate di vernice.
Cheap labour, o manodopera a buon
mercato, ovvero uno dei motivi per cui i libanesi sostengono che i lavoratori
siriani stanno distruggendo l'economia del paese: i salari si abbassano e i
costi della vita si impennano.
Sempre più frequentemente per le
vie della città si incontrano tassisti che parlano arabo con un accento che non è
proprio libanese, la cui differenza è tuttavia quasi impercettibile. A volte accade
che l'autista si scusa quando sbaglia strada: conosce a memoria quelle di
Damasco, ma nelle strade di Beirut a volte si perde.
Tutte storie diverse, accomunate
da un' unica caratteristica: sono tutte storie sbagliate. Storie in divenire che
sarebbero dovute essere altro. Storie in transito, interrotte da eventi che non
hanno niente a che fare né con il loro credo né con la loro convinzione
politica.
Storie in attesa di compiersi.
Perchè Sabah, come molte altre
donne, sogna di riportare sua figlia a Homs, anche se la sua casa non esiste
più.
E come Fadi, tanti altri
vorrebbero poter continuare a dipingere.
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