sabato 5 marzo 2016

Le storie sbagliate di Beirut



Il Libano, che alcuni ancora ricordano nostalgicamente come la Svizzera del Medio Oriente, si estende su una superficie più piccola di quella dell'Abruzzo e conta una popolazione di 4.5 milioni di abitanti, ovvero meno della metà dei cittadini lombardi.
Confina con Israele -da cui è stato invaso e bombardato circa dieci anni fa- e con la Siria, attualmente martoriata da una guerra civile.
 
L'instabilità politica del paese ha determinato un vuoto della carica presidenziale che si protrae  dal maggio del 2014, causato da un vacillante equilibrio tra le molteplici realtà confessionali presenti.
Si tratta quindi di un paese che lotta per mantenere un'apparente situazione di stabilità e allo stesso tempo riceve centinaia di migliaia di profughi scappati dalla guerra in Siria. Il numero effettivo di rifugiati attuali è tuttavia controverso: oscilla tra la stima dell'UNHCR, che ha registrato poco più di un milione di rifugiati e richiedenti asilo, e un'ipotesi meno ufficiale ma più plausibile che prevede la presenza in Libano di oltre due milioni di profughi.
Il numero è spaventoso, soprattutto se paragonato ai 900,000 siriani registrati in tutta Europa.

Questi due milioni di uomini, donne e bambini sono bloccati in una sorta di limbo tra la vita passata e un futuro incerto, che costruisce le propria fondamenta sulla base di visti negati e confini serrati.
Ognuno ha una propria storia, che meriterebbe di essere raccontata a chiunque pensi che tutti i siriani sono in qualche modo responsabili del conflitto nel loro paese e dell' ingente massa di profughi che sbarcano sulle nostre spiagge. A chi sostiene che "sono problemi loro e della guerra che si fanno a vicenda".

In migliaia vivono in campi profughi improvvisati vicino al confine siriano, sopravvivono grazie ad aiuti umanitari che gli forniscono i mezzi di sussistenza di base necessari per potersi ancora definire dignitosamente umani.
Tra le tante storie che si incrociano in Libano c'è quella di Fatma, originaria di Aleppo, che adesso vive in un campo profughi palestinese. E' madre di sei figli maschi tra i 10 e i 26 anni. Lavorano tutti, ad eccezione del più piccolo. Nessun lavoro fisso, solo impieghi improvvisati e incerti che gli permettono di pagare faticosamente l'affitto della casa.
Nella stessa strada del campo abitano Sabah, una ragazza di ventisei anni di Homs, e sua figlia nata un anno fa in Libano. Sabah è più fortunata di Fatma, dato che suo marito lavora in un ristorante e tutti i mesi porta a casa uno stipendio fisso di 400 dollari, 300 dei quali servono per pagare l'affitto delle due stanze in cui vivono. La casa in cui abitavano in Siria non c'è più. Khalas. Solo un cumulo di macerie.

Poi c'è la storia di Jusef, che a Damasco ha studiato ingegneria perché voleva fare l'ingegnere. Ma in Siria non si costruisce più nulla dato che tutto si distrugge, dunque Yusef lavora in Libano come giornalista, raccontando gli svolgimenti di una guerra che non ha mai voluto.
Fadi invece ad Aleppo faceva il pittore. Sul tavolo del suo nuovo studio a Beirut sono impilati i cataloghi delle mostre a cui ha partecipato durante gli anni, tra cui la rinomata Biennale di Venezia. Tra le poche cose che ha portato con sé in Libano ci sono le tele dei suoi dipinti, che ha poi rimontato su telai ora ammucchiati e impolverati nel suo nuovo studio, che in realtà non è altro che la sua camera da letto.

Sono siriani anche gli uomini stanchi che la sera tornano a Beirut dopo una giornata di lavoro nel nord del paese. Li si incontra la sera sui van provenienti da Tripoli e li si riconosce per i pantaloni sporchi di terra o le mani macchiate di vernice.
Cheap labour, o manodopera a buon mercato, ovvero uno dei motivi per cui i libanesi sostengono che i lavoratori siriani stanno distruggendo l'economia del paese: i salari si abbassano e i costi della vita si impennano.
Sempre più frequentemente per le vie della città si incontrano tassisti che parlano arabo con un accento che non è proprio libanese, la cui differenza è tuttavia quasi impercettibile. A volte accade che l'autista si scusa quando sbaglia strada: conosce a memoria quelle di Damasco, ma nelle strade di Beirut a volte si perde.

Tutte storie diverse, accomunate da un' unica caratteristica: sono tutte storie sbagliate. Storie in divenire che sarebbero dovute essere altro. Storie in transito, interrotte da eventi che non hanno niente a che fare né con il loro credo né con la loro convinzione politica.
Storie in attesa di compiersi.
Perchè Sabah, come molte altre donne, sogna di riportare sua figlia a Homs, anche se la sua casa non esiste più.
E come Fadi, tanti altri vorrebbero poter continuare a dipingere.


 

Tutti i nomi dei protagonisti di questo post sono stati modificati


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