sabato 30 settembre 2006

Da un seme un albero

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Per raggiungere il villaggio di Anna Nagar, nell’isola di South Andaman, bisogna arrampicarsi su una collina immersa nella vegetazione, in tutto il suo splendore nella stagione monsonica. La strada carrozzabile non ci arriva, quindi seguiamo il sentiero che sale tra case di bambù seminascoste dai cespugli e pendii dove alberi enormi sembrano sfidare le leggi fisiche e i terremoti frequenti. Raggiungiamo una radura, dove una lunga tettoia di lamiera e un minuscolo negozietto ci dicono che siamo arrivati.
Lentamente si fanno avanti le donne ad accoglierci. Dopo  averci offerto acqua da bere e per lavarci le mani, secondo il loro rituale di benvenuto, incontriamo il gruppo al completo.
Anna, la portavoce, è una signora sulla cinquantina, vedova da diversi anni, che però, dati i costumi più “morbidi” delle isole rispetto al continente, non porta il sari bianco né ha l’aria dimessa. Al contrario, è adorna dei consueti gioielli  e porta un sari dai colori vivaci.
Ci racconta di come, nel dicembre 2005, dieci donne del suo villaggio si siano unite in un gruppo di risparmio e abbiano iniziato a mettere da parte 100 rupie (circa due euro) al mese ciascuna, per aprire un piccolo negozio nella “piazza” del villaggio, accanto alla chiesa.
Tutto il villaggio, a cominciare dai loro mariti, è contento e orgoglioso di loro. Il negozietto, pochi pali di legno con il tetto di lamiera, gentilmente addossato ad una casa di bambù, vende tutti quei piccoli generi di consumo che non si troverebbero se non ad una buona mezz’ora di cammino da qui, o addirittura in città. Una bella comodità:  non è piu’ necessario fare tanta strada per comprare lo shampoo o anche solo una scatola di fiammiferi! La bottega  è diventata anche il fulcro della vita sociale del villaggio, specialmente la domenica mattina, dopo la messa, ci si ferma qui per un tè e un dolcetto in compagnia.
Anna e le altre donne sono contente, ma hanno anche i piedi per terra: dal ricavato di ogni giorno mettono rigorosamente da parte dieci rupie, per poter avere una piccola somma sempre disponibile. E sono anche molto caute: per conservare i loro risparmi, hanno scelto di non pagare nessuno per procurarsi i pali necessari a sostenere la struttura del negozio, ma sono andate loro stesse nella foresta a tagliarli. Allo stesso modo, quando scendono a valle per procurarsi gli articoli da vendere, li portano loro stesse sulle spalle, per risparmiare sul portatore. Per la gestione si sono organizzate in turni, e nelle riunioni settimanali del gruppo discutono eventuali nuovi acquisti, responsabilità, problemi. La segretaria annota tutto sul diario. Se gli affari andranno bene forse potranno costruire un negozio vero dalla struttura più solida e soprattutto che si possa chiudere con un lucchetto.
Quando chiediamo loro cos’è cambiato nella loro vita da quando c’è il gruppo, rispondono quasi in coro: «Abbiamo visto di saper fare cose che mai avremmo pensato. E ci sentiamo più forti, perché finalmente sentiamo di poter contribuire anche noi ad aiutare le nostre famiglie, invece di starcene sedute a casa!». Questa frase colpisce come uno schiaffo le mie orecchie. Ma come? Che significa? Da quando sono qui non ho mai visto, neppure una volta, una sola donna seduta a non far nulla. Le donne sono sempre all’opera: se non è per seguire i bambini è per pulire, cucinare, lavare, raccogliere la legna, prendere l’acqua e se stanno sedute a chiacchierare, nel frattempo, lavorano: intrecciano corde, fiori, frasche di cocco, di bambù.  Mai le ho viste “con le mani in mano”. Non è un contributo alla famiglia, questo? Non è importante?
Quando lo faccio notare, una ragazza mi risponde pacatamente: «Didi, sorella, queste cose sono scontate, sono i nostri doveri quotidiani, fanno parte dell’essere donna. Ma nessuno ci dice mai grazie per questo. Ora invece i nostri mariti sono orgogliosi di noi, i nostri bambini sono contenti, perchè con i soldi che guadagniamo possiamo comprare loro i quaderni, l’uniforme, la merenda per la scuola e sono soldi guadagnati da noi, non li abbiamo chiesti a nessuno. Questo fa sentire orgogliose anche noi».
Salutiamo le donne e scendiamo il pendio sulla via di casa. Guardandoci indietro, riusciamo ancora a scorgere quei quattro leggeri pali di legno e la tettoia di lamiera del negozietto che luccica al sole. E mi viene in mente che forse, davvero, il seme più piccolo, senza fare alcun rumore, senza che nessuno lo veda, con il tempo può far nascere un grande albero. Come questi, grandi e maestosi, che costeggiano il sentiero verso la città.
 
Elisa Rossignoli, coordinatrice Cantieri della Solidarietà 2006

Isole Andamane, India

Il mio primo campo

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L'estate scorsa ho partecipato ai Cantieri della solidarietà della Caritas, destinazione Bulgaria, nel paese di Malchika, vicino al confine con la Romania. Il gruppo era un po' particolare: 8 ragazze italiane e 7 ragazzi bulgari ospitati da Padre Remo, missionario passionista. Ogni mattina andavamo al villaggio vicino e ci suddividevamo in tre gruppi: chi andava a visitare gli anziani, chi faceva animazione con i bambini, chi si impegnava in lavori manuali per ristrutturare la chiesa.
 

La prima domanda che sorge spontanea è: perché? Perché decidere di partire per i Cantieri dopo il fatidico esame di maturità? Non è facile rispondere: è un sogno che coltivo da tantissimo tempo, un'attrazione irresistibile verso questo tipo di esperienze che spesso mi era capitato di sentire attraverso i racconti di giovani entusiasti. Forse sono stati complici la mia passione per i viaggi o la curiosità di conoscere altre culture, ma più di tutto penso che la "molla" decisiva sia stato il desiderio di voler portare fuori dalle mura della mia parrocchia, della mia città, della mia nazione quell'esperienza di servizio e in particolare di animazione con i bambini che ho via via consolidato in oratorio.
E così sono arrivati i fatidici 18 anni, il passaporto, il consenso più o meno convinto di mamma e papà, e il sogno è diventato realtà. Ricordo bene quel pomeriggio, mercoledì 5 aprile, quando Sergio mi ha detto: "Parti per la Bulgaria!". Sono passati in fretta i mesi prima della partenza, con tutti i dubbi che mi assalivano: come mi troverò?come ci capiremo? sarò capace? E ancora più velocemente sono passate le due settimane di Cantiere.
E' difficile raccontare le cose ho vissuto, perché è stato più che altro un sovrapporsi di emozioni intensissime; provo a farlo servendomi di tre parole chiave: accoglienza, incontro, reciprocità.

Accoglienza: è in assoluto la prima emozione che ho provato quando sono atterrata sul suolo bulgaro, accoglienza a braccia aperte da parte di Padre Remo, dei ragazzi che avrebbero vissuto con noi, degli abitanti di Tranciviska, il villaggio dove svolgevamo il nostro servizio, degli anziani che andavamo a trovare a casa. In Bulgaria posso dire di essermi davvero sentita a casa. Certo, mi capitava di pensare alla famiglia o agli amici, ma non ho mai avvertito quella sensazione di nostalgia tipica di quando non ti senti totalmente a tuo agio, di quando ti senti straniero.


Incontro: il Cantiere della solidarietà è un'esperienza che si vive proprio "sulla strada", non come turisti che visitano un luogo ma come operai che in quella realtà si sporcano le mani. Inevitabile, quindi, l'emozione dell'incontro con tante, tantissime persone che di fronte a noi aprivano la porta di casa e la porta del cuore, condizione indispensabile per riuscire a capirsi al di là della lingua. Ed è così che li incontravi: nella loro sconcertante semplicità e nel loro straordinario desiderio di stringere relazioni.

Reciprocità: sembra un'affermazione quasi assurda: se andiamo a lavorare in un Cantiere di solidarietà, non siamo forse noi a dare qualcosa? E invece no, ed è questo che è stato forse l'aspetto più sconcertante: non sono in grado di calcolare se abbiamo dato di più noi a loro o loro a noi. E' una bilancia in perfetto equilibrio: da una parte c'è il nostro tempo, la nostra energia, il nostro lavoro, ma dall'altra, in misura uguale, ci sono gratitudine, affetto e lezioni di semplicità e di essenzialità, perché i poveri e gli ammalati che abbiamo incontrato sono davvero i migliori maestri di queste virtù.
 
Tutto questo è stato per me anche una profonda esperienza sul piano della fede. Lo spirito di servizio che animava ogni nostra giornata, il tempo totalmente dedicato agli altri, l'incontro con tante persone, la vita di gruppo sono tutti elementi che avevano un forte "sapore" di Vangelo. Il Cantiere è un luogo privilegiato per vivere questa dimensione perché sei lontano dai doveri di tutti i giorni, dalla quotidianità spesso un po' alienante di casa, è una totale immersione nel servizio, è un continuo spendere tempo per gli altri. Ma non solo l'aspetto "concreto" della fede, e cioé il servizio, è stato valorizzato; anche la preghiera ha assunto una forma e un contenuto particolare. Ogni sera ci riunivamo insieme, italiani e bulgari, e due di noi proponevano una lettura e una preghiera su cui riflettere. Era il momento della condivisione delle gioie e delle difficoltà della giornata, delle esperienze fatte e di quelle mancate, quasi a voler offrire tutto questo al Signore.
 
Un brano in particolare mi ha aiutato a comprendere la dimensione di un Incontro con la "I", un brano che mi ha accompagnato fin dal momento della partenza: "…e' Gesù che suscita in voi il desiderio di fare della vostra vita qualcosa di grande, la volontà di seguire un'ideale, il rifiuto di lasciarvi inghiottire dalla mediocrità, il coraggio di impegnarvi con umiltà e perseveranza per migliorare voi stessi e la società rendendola più umana e fraterna…cari giovani del secolo che inizia, dicendo sì a Cristo, voi dite sì a ogni vostro più nobile ideale…non abbiate paura egli vi guiderà, vi darà la forza di seguirlo ogni giorno e in ogni situazione."(Giovanni Paolo II, Tor Vergata agosto 2000).

Concludo con un'ultima immagine: è quella dell'impronta. Per me l'esperienza del Cantiere ha significato questo: un'impronta indelebile che mi suscita ricordi bellissimi e che ogni volta mi dona quello slancio entusiasta tipico di quanto si torna da un'esperienza straordinaria. E' un'impronta che mi aiutato a orientare gli studi, è un impronta che mi ha convinto a voler ripetere questa meravigliosa avventura. Penso che tutto ciò che vi ho raccontato si possa in realtà racchiudere in questa frase che ho sentito un giorno durante la testimonianza di un missionario: "portare la gioia agli altri ti fa gustare il vero sapore della vita". L''esperienza dei cantieri ha reso reale proprio questo.

Miriam Ambrosini
volontaria nei Cantieri della Solidarietà 2006
Malchika - Bulgaria

lunedì 18 settembre 2006

Nuove esperienze

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Ora ho scoperto davvero cosa significhi imparare. Senza che ce ne rendiamo conto, ogni giorno siamo circondati da situazioni e da stimoli che in qualche modo riescono ad influire sul nostro modo di essere, che ci cambiano, che ci fanno vedere le cose in maniera sempre nuova e ci fanno in tal modo crescere.

Quello che ho imparato da questo viaggio è stato capire come ascoltare. E' un po' come fare un nuovo gioco, un piccolo "esercizio" che si può fare ogni volta che si vuole in qualunque luogo. Parlo dei momenti in cui ho appreso come ci si può fermare un attimo di più a pensare, pensare a tutto ciò che ti capita nell'arco di una giornata, alle piccole cose particolari, a riflettere ed apprezzare un po' di più la meravigliosa vita che conduciamo e le possibilità che ci offre.Giocare con bambini meno fortunati di quelli che siamo abituati a incontrare, aiutare un ragazzo disabile a terminare un disegno, lavorare la terra di una persona anziana o malata, fare visita a chi non è abituato a vedere il mondo che lo circonda: sono queste le attività che mi hanno aiutato ad aprire gli occhi su molte cose.

Partire con Caritas Ambrosiana alla volta del Montenegro è stata per me un'occasione importante per fare altre cose: vedere com'è fatto un pezzettino di mondo, viaggiare, scoprire cosa significa essere un volontario e calarsi in questo importante ruolo, ma soprattutto conoscere nuove realtà che erano per me solo immagini viste alla televisione o righe lette su un giornale.

Scegliere di dare una piccolissima parte di sé stessi non è una cosa cosi difficile come spesso può sembrare. Anzi … direi che è anche divertimento, ma affrontato con uno spirito diverso, che esce dai soliti schemi della quotidianità e nel quale ognuno di noi, unico e diverso da tutti gli altri, può trovare eprovare nuove emozioni.

Massimiliano Salina
volontario nei Cantieri della Solidarietà