Da due settimane abbiamo una casa qui a Cochabamba. Non che prima vivessimo in strada, sarebbe stata un po’ estrema come esperienza di servizio civile.. Vivevamo in una chiesa.
Ad essere precisi, nella casa parrocchiale di Condebamba. Nell’umile periferia di Cochabamba, un chiesa bianchissima e due preti grandiosi, un giardino con la frutta, una cucina grande e la mitica Irene cuoca. Molta gente in giro a diverse ore del giorno e anche della notte. Nessun party, cari miei, piuttosto molte storie e bisogni in cerca di soluzione e soddisfazione.
Per circa tre mesi, quando raccontavo che vivevo in una chiesa, amici e sconosciuti mi facevano quella faccia lì. Quella che ti dice che, insomma, chi ti sta davanti non può essere proprio sincero perché sta male fare commenti acidi su luoghi religiosi... ma che, appunto, qualcuno ci starebbe pure. Ma come, non esci? E i tuoi spazi? Ma vai a messa tutti i giorni? E se un giorno non torni o torni tardi? Quella batteria di domande che io stessa mi sono posta e che tre mesi or sono avrei fatto a mia volta.
In realtà la difficoltà più grande non stava nelle mancate uscite o nelle rinunce a chissà quale divertimento, di fatto poche e anche giustificate. La cosa più tosta, ho capito, è stato vivere dove non c’è orario per dare una mano, e neppure limite ad ascoltare. Tutto entra nella tua casa senza chiedere permesso. Storie belle e sorrisi, vicende tristi e impensabili senza distinzione. Difficile confrontarsi con tanto bisogno e solida generosità. Lo standard è alto, e la mia disponibilità, ho scoperto, fatta di una pasta più molle. Non lo dico con moralismo o chissà quale senso del peccato. Solo credo mi abbia messo molto in discussione convivere con questo mondo senza troppe pareti.
Ieri Martina è tornata a casa, quella che condividiamo io e lei nel centro della città, e mi ha inondato della vita di Condebamba. Passata di lì, ha trovato riunioni in sala, Padre Sergio – il mitico parroco di Condebamba – appresso a non so quale faccenda della sua comunità, i bimbetti fuori dalla chiesa che le danno un assalto di abbracci. In me si sono mischiati conforto e nostalgia: che serenità guardare la mia cucina con la porta chiusa, ma che perdita - di occasioni per imparare, conoscere e crescere - lasciare fuori tutta quella vita!
Eh cara Mariella, ne ho avuto un piccolo assaggio anche io di quello che hai provato quando sono stato con Giulia tre settimane in Romania. Eravamo in un "monastero-hotel-collegio" gestito da frati. Con loro c'era un gruppo di 16 adolescenti che facevano vita da collegio. Io e giulia facevamo vita da hotel. I frati vita da monastero.
RispondiEliminaAnche se io e giulia avevamo le nostre camere singole dove rintanarci nei momenti di solitudine appena uscivamo spesso e volentieri ci confondevamo con le persone che abitano li (frati e adolescenti). Anche le cene e i pranzi pian piano li abbiamo condivisi. Siamo stati così poco che abbiamo condiviso solo la loro felicità e gioia di vivere, ma di sicuro ogni adolescente che abitava con noi nel "monastero-hotel-collegio" portava una storia fatta di alti e bassi che mi sarebbe piaciuta condividere più profondamente.
Ma sicuramente la nostra presenza ha toccato i loro cuori e siamo felici di aver scombussolato per 3 settimane la vita di questo posto.
Tornato nella mia casa a Chisinau ho provato un pò di nostalgia di quel posto!