Che ci faccio io qui? Domanda che a volte arriva come un pugno alla testa. A dire il vero un paio di cose intellettuali, con cui non vi tedierò – ora no! – e poi c’è Vinto.
Martedì e giovedì pome, ore 17 circa, scappo traballando tra le mie valigie – computer, libri, pranzo al sacco come all’asilo – e salgo sul mio primo scassato bus. Circa 40 minuti su una strada diroccata, tutta dritta a parte le rotonde, e trafficatissima. Il mio viaggio si ferma a Quillacollo, romanticamente nota come l’antitesi/complemento a Tiwanaku, casa del sole, per la cultura andina è dove la luna riposa. Nulla di romantico in questa caotica piazza stile mercato in cui sbarco.
Mi intrufolo tra mille bus e persone e salgo su un camioncino di quelli tipo “il mezzo di trasporto adatto per il tuo lavoro!”, solo con i finestrini, muchas veces inchiudibili. Passa aria manco fossero una retina. In totale un’ora per arrivare da quella piccola banda di giovani che mi è stata regalata. Sette: Juan Carlos, Celedonio, Victor, Gerardo, Gregorio, Limber, Teófanes. Tutti ragazzi, tra i 15 e i 20 anni.
Tre mesi fa ho iniziato con la migliore vena efficientista. Sono qui a fare matematica e inglese, ecco. E facciamo, caschi il mondo, matematica e inglese. Però mancava sempre qualcosa. Alla fine, mi dicevo, tu non sai nulla di questi ragazzi, potrebbero essere chiunque, e loro di te. Così tra qualche cazzotto – metaforico, tranquilli! – qualche distenzione e l’insostituibile condivisione di qualche chicco di grano tostato o cioccolata, mi sembra di imparare qualcosa. A volte dolci, a volte conflittuali. Curiosi e a tratti sfuggenti, mi stanno insegnando che una vena di tenerezza e disponibilità a farsi trasformare, ricompensano. Umanamente con dei sorrisi, dei grazie, qualche storia sulla loro vita e mille domande sulla mia. E, ne sono certa, così loro impareranno meglio anche l’inglese!
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