La stanza è di medie dimensioni, ma ben curata. La luce filtra poco e la lampadina, che dovrebbe essere il centro dell’attenzione di un lampadario mancante, è accesa. Due ventilatori girevoli sparati al massimo creano una brezza piacevole, anche perché discontinua, a meno che uno non decida di assecondare il movimento del ventilatore, facendo tre passi in su e tre in giù. Ma quando i ventilatori sono due ed il loro fuoco è incrociato, allora è meglio evitare figuracce e aspettare il vento costruito fermo sul posto.
Il colore alle pareti è chiaro, e tende al giallo, probabilmente per enfatizzare la luce artificiale. Finestre nessuna. La stanza è in realtà un piccolo soggiorno, trasformata temporaneamente in camera da letto. Così, su alcuni tavolini in legno e vetro poggiano dei cuscini; la camicia da notte è piegata sul divano e di fronte a quello stesso divano, un letto da una piazza e mezza. Alcune tigri in peluche osservano dalla loro posizione privilegiata la scena, e sembrano un po’ infastidite dal momentaneo contrattempo. Su una parete, un quadro. Una bambina con due fiocchetti azzurri tra i suoi capelli a caschetto, gli occhi grigio-verdi. Piange, mentre guarda una bandiera della Palestina.
Accanto al letto, i trentatré grani di un rosario in legno gigante, una Madonna con bambino e qualche foto. Dei fiori rossi in un vaso, su un mobiletto. Sembrano finti in realtà, troppo rossi, troppo perfetti. Dietro, altre foto. Yasser Arafat e Hassan Nasrallah, che si guardano e si sorridono. Paradossi medio orientali.
Le urla sibilate, quasi timide, si diffondono un po’ dappertutto. Se si avesse il tempo di ascoltarle bene, probabilmente entrerebbero nelle ossa, probabilmente trasformerebbero la pelle in brivido. Un urlo se viene estrapolato dal contesto, è solo un rumore, più o meno forte. Se ad un urlo invece associ uno sguardo, degli odori, del sudore, allora non è un rumore.
È vita. È resistenza.
Tant Jamìle è sdraiata sul letto, due bende bagnate sui piedi nudi, un asciugamano in testa, agli occhi, le lacrime. E urla. E sembra di ascoltare attraverso questo suo urlo, così debole e sottile, ma anche così intenso e potente, la voce di tutto un popolo. L’operazione è riuscita, ma è ritornata dall’ospedale con alcune infezioni su una gamba. Ma d’altra parte se vinci decine e decine di punti sulla coscia per ricostruire il tuo femore rotto in una banale caduta, non hai diritto a lamentarti, se nel frattempo accadono alcuni imprevisti. Ma per Tant Jamìle, gli imprevisti saranno sempre più spesso quotidianità. Il suo passo lento ma sicuro, sarà una sedia a rotelle, o un walker, se le andrà bene. Il suo prendere l’iniziativa, sarà un per favore. Forse nelle sue urla l’umiliazione contava più del dolore. Forse le sue lacrime mentre veniva pisciata, lavata, e vestita erano umiliazione. E forse era umiliazione il chiedermi una mano per alzarla, per tenerla mentre le veniva pulito il culo, mentre le venivano disinfettate le piaghe, mentre le veniva tolto il pannolone. Non c’è niente di peggio che conoscere persone umiliate appartenenti ad una società umiliata.
Scopro gli anziani in un campo profughi, nonostante abbia vissuto tutta la mia vita in una zona dove la media di decessi è di due alla settimana, nonostante sia italiano, from Italy, la patria dei vecchi per definizione ormai, battuta solo dal paese dei giapu. E nel campo profughi mi accorgo che il mondo non è solo nord-sud, poveri e ricchi. È anche vecchiaia e giovinezza, salute e malattia.
Ma essere poveri, vecchi e storpi umilia il sangue, e scolorisce il bianco degli occhi, come le troppe centrifughe di una maglietta usata.
Ed in questo bianco sbiadito, non riconosco, e mai riconoscerò giustizia.
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