Un posto dove la pioggia annega la terra, i tuoni la assordano e i fulmini la spaccano. Un posto dove basta che non piova per una settimana e la polvere si infila dappertutto, negli occhi dei tassisti di moto, nei folti capelli di giovani muzungu; un posto dove la terra lascia l’erba al lato della strada di un inaspettato marroncino/rossastro.
Un posto dove è difficile mantenere la numerosa famiglia e sono soprattutto le donne che svolgono i lavori più duri, che trasportano pesi sulla testa e sulla schiena, che coltivano e cucinano...le donne o i bambini, ovviamente.
Un posto dove la terra è fertile da non credere, ma l’unica frutta che si trova sempre senza problemi sono arance verdi (aspre, ottime col sale) e banane. Un posto dove si fatica molto, ma non manca mai il tempo per cantare, suonare e ballare.
Un posto dove la figura del bianco è indissolubilmente legata alla ricchezza.
Muzungu, unipe makuta. “Bianco, dammi i soldi.”
Un posto dove un bianco che parla, o almeno prova a parlare, swahili è accolto da grandi risate forse di stupore, di contentezza, di soddisfazione, di gratitudine.
Un posto dove il tuo nome diventa un’opinione, se sei bianco, e non ti chiami più chiara né magda, bensì Mariiiiie, Moniiiic -rieccheggiano le “i” delle voci acute dei bambini, muzungu, se non chinois (sì, esatto, proprio cinese!, essendo i cinesi la comunità non nera più numerosa sul territorio).
Un posto dove non si chiede per favore, ma non si risparmiano i ringraziamenti, AKSANTI!
Un posto dove un saluto vale molto di più, dove a jambo! si può rispondere jambo sana!, o tradotto in francese “bonjour beaucoup”, come a ricambiare con un saluto ancor più convinto e deciso.
Un posto dove il cervello (bongoo) ha solo una O in più delle bugie...e nella lingua della capitale se aggiungi una “m” davanti alle bugie, si trasformano in soldi. Un posto dove debole è facile, teketeke (che però forse è anche “liquido, molle”), e forte è difficile, ngufu.
Un posto dove per strada chiunque ti chiede se vai o se torni, se sei stanca, se ti riposi, soprattutto se siete due delle poche bianche (uniche?) che girano a piedi in città.
Un posto dove guerra è vita.
Una regione (Nord-kivu) dove ancora oggi eserciti irregolari come Mai-Mai e FDLR, ancora arruolano ragazzini e ragazzine a combattere o a diventare schiave sessuali, in una guerra infinita.
Una regione in cui sono presenti, come gocce nel mare, centri per ex bambini soldato, per reiserirli nelle famiglie dopo periodi di minimo tre mesi.
Un centro di questi dove un ragazzo si fa chiamare generale e non gioca con gli altri; ma se una ragazza lo cerca e lo prende per mano, entra nel cerchio, prende e passa la palla. Un centro dove una ragazza e 18 ragazzi sono contenti per l’arrivo di tre italiani per qualche giorno, scrivono una lettera di ringraziamento, preparano una rappresentazione per raccontare la loro storia.
Un posto dove i ragazzi ti conquistano e non sai perché, non parlate la stessa lingua, ma solo i loro occhi che tornano a brillare danno un senso al tuo essere lì.
Un posto dove la stella polare è sotto l’orizzonte e la croix du sud è sempre là, un aquilone sopra il banano.
Un posto dove le stelle sono perennemente indecise fra il brillare al massimo e il nascondersi, così continuano a fare capolino, dal loro mondo al questo.
Un posto che è in mille posti insieme, che è lago, vulcano, poi foresta, savana. Ancora tutto da scoprire ma già famigliare. Un posto pieno, un posto vivo, con le sue ombre e le sue luci.