mercoledì 23 marzo 2016

Bordertown

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Per gli europei della mia generazione, nati sotto la buona stella degli accordi di Schengen, il confine ha sempre rappresentato un concetto immateriale più che dei veri e propri limiti fisici. Una tale libertà di movimento al di fuori dei nostri confini nazionali, ci ha permesso di crescere con radici saldamente ancorate ben oltre le nostre frontiere. Forti della consapevolezza che non sono le frontiere a fare la differenza tra le persone, ci sentiamo ormai cittadini del mondo intero e patrioti dell’umanità nel suo complesso, per prendere a prestito le parole di Charlie Chaplin.

Almeno in Europa, gli unici confini che abbiamo sempre dovuto affrontare erano quelli generati dalle nostre menti, i confini che noi stessi abbiamo tracciato. E’ sempre stata una questione di linee: le linee che ci separavano dal raggiungimento dei nostri traguardi prima scolastici e poi professionali, le linee intangibili che abbiamo tracciato per separarci dalle persone che ci circondano, che dopo tante delusioni, abbiamo trasformato in barriere con la speranza che nessuno più le oltrepassasse.

E mentre ora l’Unione Europea è affaccendata a ripristinare frontiere e confini, tra muri e chilometri di filo spinato, gli europei della mia generazione, che si sono vissuti il Vecchio Continente senza visti né passaporti, da queste linee si sentono soffocare. Proprio quando ci si prova a sporgere per allargare lo sguardo oltre il confine è lì, in bilico su quella linea tra il noto e l’ignoto, che si prova quel senso di vuoto, un misto di paura e desiderio che spinge i più avventurosi a fare le valigie e correre il rischio, varcare i confini, mossi dalla brama di scoprire cosa ci sia dall'altra parte.

Da Ranong (Thailandia) la città più vicina del Myanmar è Kawthaung raggiungibile in soli 15 minuti di barca
Alla base di queste premesse, può suonare a tratti paradossale che ora mi trovi a Ranong, città di confine tra Thailandia e Myanmar. Ranong è uno di quei posti sulla Terra in cui il confine riesce a risultare impercettibile e al contempo più imponente di qualsiasi barriera. L’elevata presenza di migranti irregolari provenienti dal Myanmar, che da decenni fuggono da guerre inter-etniche ed estrema povertà, rende le stime ufficiali sugli abitanti della città poco realistiche, forse raggiungono i 100.000, di cui i thailandesi rappresentano una risicata minoranza. A Ranong si indossano abiti tradizionali Mon, Kachin e Shan e si parla la lingua birmana. Si mangia Chin, Rakine e Karen e all’ingresso delle abitazioni, affianco alla statua di Buddha, troneggia l’effige di Aung San Suu Kyi. A Ranong si vive in Thailandia, ma si vive il Myanmar.

Abiti tradizionali birmani
Ammassati in baracche che affittano a caro prezzo, perché per legge non possono possedere proprietà, i migranti lavorano per pochi spiccioli e in condizioni estremamente precarie sulle barche da pesca, nella cantieristica navale, nell'edilizia, nella filiera ittica, nelle fabbriche di lavorazione delle materie prime e in tutti quei lavori che i thailandesi non sono più disposti a compiere. I migranti irregolari non hanno accesso alle cure mediche, mentre per quelli regolari spesso risultano troppo costose. Solo il 20% percento dei loro figli riesce ad avere accesso ad una qualche forma di istruzione, anche se poi il 90% di essi abbandona la scuola all'età di 12 anni per seguire i propri genitori nelle fabbriche o per prendere il posto dei genitori che non hanno più. Ranong è anche la città con il più alto tasso di diffusione di HIV di tutta la Thailandia, un virus che la maggior parte di essi scopre troppo tardi di aver contratto.  


Alla fine della Seconda guerra mondiale, mossi dalla riscoperta del livello di atrocità che sono in grado di commettere gli unici esseri governati dalla ragione, alcuni rappresentanti del genere umano hanno redatto una bellissima dichiarazione universale che sancisce i diritti fondamentali. Diritto all'uguaglianza, all'istruzione, alla salute, ad adeguate condizioni di vita e alla proprietà, tra gli altri. Eppure ogni volta che viene tracciata una linea di confine per paura, ad un rappresentante in più dell’umanità uno di questi diritti viene negato. Siamo davvero sicuri di sapere cosa perdiamo quando chiediamo i confini indietro?    

In ambo i lati del confine le insegne e i cartelloni pubblicitari sono scritti sia in lingua birmana sia in lingua tailandese



Martina Dominici, 
casco bianco Caritas Italiana in servizio in Thailandia

sabato 5 marzo 2016

Le storie sbagliate di Beirut

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Il Libano, che alcuni ancora ricordano nostalgicamente come la Svizzera del Medio Oriente, si estende su una superficie più piccola di quella dell'Abruzzo e conta una popolazione di 4.5 milioni di abitanti, ovvero meno della metà dei cittadini lombardi.
Confina con Israele -da cui è stato invaso e bombardato circa dieci anni fa- e con la Siria, attualmente martoriata da una guerra civile.
 
L'instabilità politica del paese ha determinato un vuoto della carica presidenziale che si protrae  dal maggio del 2014, causato da un vacillante equilibrio tra le molteplici realtà confessionali presenti.
Si tratta quindi di un paese che lotta per mantenere un'apparente situazione di stabilità e allo stesso tempo riceve centinaia di migliaia di profughi scappati dalla guerra in Siria. Il numero effettivo di rifugiati attuali è tuttavia controverso: oscilla tra la stima dell'UNHCR, che ha registrato poco più di un milione di rifugiati e richiedenti asilo, e un'ipotesi meno ufficiale ma più plausibile che prevede la presenza in Libano di oltre due milioni di profughi.
Il numero è spaventoso, soprattutto se paragonato ai 900,000 siriani registrati in tutta Europa.

Questi due milioni di uomini, donne e bambini sono bloccati in una sorta di limbo tra la vita passata e un futuro incerto, che costruisce le propria fondamenta sulla base di visti negati e confini serrati.
Ognuno ha una propria storia, che meriterebbe di essere raccontata a chiunque pensi che tutti i siriani sono in qualche modo responsabili del conflitto nel loro paese e dell' ingente massa di profughi che sbarcano sulle nostre spiagge. A chi sostiene che "sono problemi loro e della guerra che si fanno a vicenda".

In migliaia vivono in campi profughi improvvisati vicino al confine siriano, sopravvivono grazie ad aiuti umanitari che gli forniscono i mezzi di sussistenza di base necessari per potersi ancora definire dignitosamente umani.
Tra le tante storie che si incrociano in Libano c'è quella di Fatma, originaria di Aleppo, che adesso vive in un campo profughi palestinese. E' madre di sei figli maschi tra i 10 e i 26 anni. Lavorano tutti, ad eccezione del più piccolo. Nessun lavoro fisso, solo impieghi improvvisati e incerti che gli permettono di pagare faticosamente l'affitto della casa.
Nella stessa strada del campo abitano Sabah, una ragazza di ventisei anni di Homs, e sua figlia nata un anno fa in Libano. Sabah è più fortunata di Fatma, dato che suo marito lavora in un ristorante e tutti i mesi porta a casa uno stipendio fisso di 400 dollari, 300 dei quali servono per pagare l'affitto delle due stanze in cui vivono. La casa in cui abitavano in Siria non c'è più. Khalas. Solo un cumulo di macerie.

Poi c'è la storia di Jusef, che a Damasco ha studiato ingegneria perché voleva fare l'ingegnere. Ma in Siria non si costruisce più nulla dato che tutto si distrugge, dunque Yusef lavora in Libano come giornalista, raccontando gli svolgimenti di una guerra che non ha mai voluto.
Fadi invece ad Aleppo faceva il pittore. Sul tavolo del suo nuovo studio a Beirut sono impilati i cataloghi delle mostre a cui ha partecipato durante gli anni, tra cui la rinomata Biennale di Venezia. Tra le poche cose che ha portato con sé in Libano ci sono le tele dei suoi dipinti, che ha poi rimontato su telai ora ammucchiati e impolverati nel suo nuovo studio, che in realtà non è altro che la sua camera da letto.

Sono siriani anche gli uomini stanchi che la sera tornano a Beirut dopo una giornata di lavoro nel nord del paese. Li si incontra la sera sui van provenienti da Tripoli e li si riconosce per i pantaloni sporchi di terra o le mani macchiate di vernice.
Cheap labour, o manodopera a buon mercato, ovvero uno dei motivi per cui i libanesi sostengono che i lavoratori siriani stanno distruggendo l'economia del paese: i salari si abbassano e i costi della vita si impennano.
Sempre più frequentemente per le vie della città si incontrano tassisti che parlano arabo con un accento che non è proprio libanese, la cui differenza è tuttavia quasi impercettibile. A volte accade che l'autista si scusa quando sbaglia strada: conosce a memoria quelle di Damasco, ma nelle strade di Beirut a volte si perde.

Tutte storie diverse, accomunate da un' unica caratteristica: sono tutte storie sbagliate. Storie in divenire che sarebbero dovute essere altro. Storie in transito, interrotte da eventi che non hanno niente a che fare né con il loro credo né con la loro convinzione politica.
Storie in attesa di compiersi.
Perchè Sabah, come molte altre donne, sogna di riportare sua figlia a Homs, anche se la sua casa non esiste più.
E come Fadi, tanti altri vorrebbero poter continuare a dipingere.


 

Tutti i nomi dei protagonisti di questo post sono stati modificati


Never judge the unknown - a trip to the North

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On Monday this week I had the chance and pleasure of joining an NGO called International Humanitarian Relief (IHR) for a distribution of shoes and clothes coming from Norway to Syrian families in the Akaar Region, North of Lebanon. In fact, most the refugees live outside of Beirut and closer to the Syrian border, whether North or East. Hence, the majority of projects which aim at assisting and supporting the refugees are mainly in the Beqaa Valley - Zahle on the East, and in the Akkar region, North of Lebanon. That’s why I wanted to get out of Beirut, to explore unknown landscapes, to meet new people, exchange smiles and be helpful to the people who need it the most. 

It was with curiosity and an open mind that I joined IHR staff on this field visit to Halba, just 20 km away from the Northern Syrian border. 
 



The day started very early, at 6:30 am. I got picked up by the local staff with a Mitsubishi 4x4 at 7:15ish; the journey was very pleasant and it took approximately two hours. We stopped twice, first to pick up a colleague in Tripoli and second to have breakfast, of course. I had a bite of "lahme b'ajin" with some pomegranate juice  and "knefe", both incredibly tasty.

We reached the IHR Al-Amal Vocational Center on the outskirt of Halba around 10ish. The day was beautiful, sunny and warm. 


Al-Amal Vocational Center IHR


The first thing we did after meeting and chatting with the staff of the center, it was to organize and to carry out the distribution. To my surprise everything was brand new: the shoes looked very nice and stylish, for all ranges, women, men and teenagers. All the boxes were piled in a neat and precise way, exactly like the way you would see them in a shop. Same for the clothes which were very pretty and of good quality like cotton, wool and silk.


Distribution of clothes and shoes from Norway - Photography [Courtesy of IHR]



Donated new shoes 
One by one the beneficiaries arrived; they were holding a ticket which meant they were entitled to receive the aid. Each person could take one pair of shoes and a piece of clothing, usually a jacket or two sweaters. As far as I understood, most of these people were the Syrian refugees students who are currently participating at the professional courses at the center, plus other families living in the Halba area who were identified as particularly vulnerable. 



Project Syria

The good thing was that they got to choose themselves among a variety of clothes and shoes according to their need and taste. I mainly helped with find the right piece of clothing.  Their eyes were looking at me, many with curiosity other with indifference.  I was able to talk to them by using survival words and sentences that I have learnt in Arabic class, and with a little help from the English speaking staff I managed to communicate.  Most of the girls wanted a jacket that was “tawhill” - long. I was struggling to find jackets below the knee, but most of the girls were satisfied with what we found. They walked away with huge smiles and proud of their new piece of clothing. Many wanted a jacket for themselves or for their baba. 

The best part of the day was to visit the vocational center. I didn’t expect it to be so organized and efficient, but yes it was. The Director of the shelter really wanted me to go around as he said “visitors bring motivation to our students”. Everyone was so kind and extremely helpful.
The aim of the project in this center is to train the Syrian refugees of the area for six months in one of the following courses: electrical, electronics and mechanics, sewing, cooking, make-up and hairdressing. Such classes last six months and allow them to learn a job and gain an income from it. Not just humanitarianism, but development.  

So one by one we visited each room on the first floor of the center. I was received with happiness and joy. There was a genuine interest among people to show their piece of work and their products, both from the student and the teacher side.
They were so excited about the class! You could tell they were really enjoying coming to the center. Some of the young women were saying they were traveling for more than one hour by bus to reach the center just to participate at the course.


Sewing class - Photography [Courtesy of IHR]



Life is sweeter with a cake - Photography [Courtesy of IHR]


Sewing trials - Photography [Courtesy of IHR]


Young ladies attending the class


One of the sewing machine

 
Loving the freshly baked cheesecake - Photography [Courtesy of IHR]



Bakery class - Photography [Courtesy of IHR]


Photography [Courtesy of IHR]

“I teach them a word of French, English and German everyday, everyday”, said the Director of the center - “I want them to learn other languages, it is so important!” he added. In fact one of the problem Syrians face when arriving in Lebanon is the language; even though Arabic is one of the national official languages, ordinary people speak perfect French and English as well, and most of the time classes in public school are taught in these languages.
The Director also proudly shown me the kitchen of the center, which he has converted into a small playground for the kids whose mum participate at the class. In this way they don’t skip it “just” because they have to look after their kids. 

The teacher of the sewing class (picture below) was of Syrian nationality. He wanted to share his story, one similar to many, perhaps… He proudly said he had many years of experience in this sector: he had a successful business in Homs with around sixty employees. However, because of the war he was forced to flee and he had to leave everything behind. “The government took everything from me, everything…” 
But it seemed to me that what it didn’t take was his passion and will to teach others anything he knew about sewing and making clothes. What a spirit!  


The visit finished with an amazing late lunch, Lebanese style, in a local restaurant. And what’s a Lebanese meal without Arghile and coffee? Not a Lebanese meal! 


Lebanese meal with the crew of IHR

 
The three vices in Lebanon: arghile, coffee and cigarette.
It was a real pleasure meeting such wonderful people. Keep strong!

Much love,
Michi :)