«Il campo è come un magnete. Ti
tiene sempre incatenato a sé. Per un po’ va bene ma poi diventa troppo. Io sono
qui da nove mesi. Alcuni da un anno e mezzo, due anni. Sono impazziti. Io provo
ad andarmene ma poi il magnete mi riattrae sempre indietro. Spero un giorno di
voltargli finalmente le spalle così che questa calamita smetta di attrarmi»
Queste sono le parole sincere e
dirette di N. (15 anni, Afghanistan). Le condividiamo sul pullmino che ci porta
alla fermata del bus per Belgrado. Noi andremo a passare il weekend nella
capitale serba, N. e tutti gli altri volti incontrati no, non possono. Un
weekend fuoriporta, una nuova città europea da visitare, una cosa tanto banale
quanto scontata per noi, abituati a prendere l’aereo e viaggiare in giro per
l’Europa e per il mondo in totale libertà. Ci è sempre piaciuta tanto questa
libertà.
Adesso, invece, ne sentiamo tutto il peso.
Sabato rientreremo a casa, nelle
nostre città. Quante persone che vivono nel campo vorrebbero salire sul nostro aereo
e venire in Italia… Eppure, non hanno questa possibilità, questa libertà. La
forza magnetica del campo è troppo forte. Se sei un profugo, l’unica
possibilità che hai è rischiare ed andare al game sul confine. È un gioco: qualcuno vince, qualcuno perde. Tu
speri di essere tra i più unici che rari, riuscire a varcare quella fottuta
frontiera e vincere. Un gioco pericoloso, che mette a rischio la tua vita con un’altissima
percentuale di “sconfitta”. Ne sei consapevole perché ci hai già provato quattro,
cinque, infinite volte. E alla fine ritorni sempre qui, in questo posto che non
è un inferno ma non è neanche un paradiso. È un limbo. Un nulla a metà fra la
vita che hai lasciato nel tuo paese, fra le certezze che avevi costruito e
conquistato, la gente che parla la tua lingua e coltiva le tue tradizioni e un
futuro di cui non sai nulla, che puoi solo immaginare nell’attesa perenne che
riempie le tue giornate. Forse, non vuoi neanche pensare al domani, forse l’unica
cosa che ti permette di non impazzire è concentrarti sul qui ed ora. E noi
quattro veniamo qui, condividiamo due settimane con te, pianifichiamo tutto
momento per momento. Noi possiamo farlo (e forse non riusciamo a non farlo), a
noi non pesa pensare al domani.
Siamo arrivati nel campo di
Bogovadja con bagagli carichi di idee, proposte, materiali per cercare di dare
un senso a questo tempo, accoglienza a queste persone. Eppure, siamo noi ad
essere stati accolti da voi. Forse non è facile accettare la nostra presenza al
campo. Invece ci avete accolti. Avete ascoltato le nostre proposte, avete
risposto al nostro entusiasmo lasciandoci a bocca aperta. Ci aspettavamo di
essere noi a dare, accogliere, insegnare qualcosa. In realtà, siete voi a
sorprenderci e dare a noi molto di più. Ci lasciate tanto su cui riflettere: a
casa inizierà la vera sfida dell’accogliere. Sarà allora che dovremo
rielaborare tutte queste domande assordanti che ci stanno puntellando il
cervello, che dovremo rispondere a questo senso di ingiustizia, di rancore che
sta maturando in noi nello scoprire che un quindicenne che parla sette lingue
non può andare a scuola perché non ci sono i soldi per pagare l’autobus, che
una ragazza iraniana colta e laureata deve passare le sue giornate a giocare a
pallavolo, che una famiglia con sette bambini non possiede neanche una valigia
ed è costretta a trasportare le sue cose in sacchi per la spazzatura e che,
ancora, un ragazzo palestinese non ha potuto mai vedere la sua terra d’origine
e chissà se mai la vedrà. L’ingiustizia è tanta da nausearci e impedirci di
dormire.
A tutti noi la scelta di non
voltare la faccia da un’altra parte e di lasciarci trasformare dai padri, dalle
madri, dai figli migranti che abbiamo incontrato: se cambiamo noi cambia anche
il mondo.
Matteo, Martina, Milena, Sofia
(Serbia 1)