Sono sempre le stesse facce, il martedì. È come darsi appuntamento. C’è il venerabile anziano che arriva sempre e solo fino alla porta del parlatoio ma non entra. C’è un ragazzo giovane, con la barba, che passa tutto il tempo a guardarsi la punta delle scarpe a punta. Ci sono quei due genitori distrutti dal dolore, che si tengono su a vicenda, che si sorreggono anche fisicamente.
Poi ci siamo noi. E sempre la stessa scena. Chi siete venuti a visitare? Come si chiama di cognome? Perché venite? Siete amici? Perché intanto che ci siete non visitate tutta la prigione, eh? Domande inutili, urlate dall’altra parte del bancone, risatine. E i documenti, e la trascrizione in arabo dei nostri assurdi nomi europei, e la trascrizione degli assurdi nomi delle nostre ‘amiche’ latine, e c’è sempre un problema, sempre un errore, poi le discussioni, la perquisizione fisica, le guardie che ci squadrano perché ancora non hanno capito cosa ci andiamo a fare, in un posto del genere.
Faceva freddo. Solita attesa, sotto la solita tettoia, in un solito martedì di febbraio.
Sono scesi tutti dallo stesso taxi. I due più piccoli ridevano, si spintonavano, correvano in giro. La grande, dall’alto dei suoi forse 14 anni, ha pagato il tassista, ha recuperato tutti e tre i fratelli, li ha fatti sedere sulle panchine di metallo, gelide, fuori dalla prigione di Juweideh, Amman, Giordania.
Glielo si leggeva in viso, quel viso non più da bambina ma non ancora da donna, il peso di quel martedì mattina. I piccoli continuavano a fare rumore, a scappare rincorrendosi. Quella un po’ più grande, la seconda del gruppetto, avrà avuto una decina d’anni, mi spiava. Quando incrociavo il suo sguardo, mi sorrideva. Non poteva farci nulla. Mi trovava buffa, forse. Dovevamo essere ben strani, quattro personaggi che parlano lingue diverse e che aspettano, di martedì mattina, al freddo, sotto la tettoia, davanti all’unico carcere femminile del paese.
Finalmente ci hanno chiamati per il controllo dei documenti. Le guardie, per farsi volere bene, ci hanno fatto passare avanti tutti i giordani della fila, tutti tranne loro. Li abbiamo fatti passare avanti noi.
La più grande neanche ci arrivava al banco. Stava in punta di piedi, allungata verso la guardia, con dei fogli in mano. Chi siete? Chi siete venuti a visitare? Come si chiama di cognome? Perché venite?
Veniamo a trovare la mamma.
Mi sono passati davanti, i piccoli correndo, quella un po’ più grandina sorridendomi. Sono entrati nello sgabuzzino della perquisizione. Le guardie hanno perquisito quattro bambini soli.
Al parlatoio erano affianco a me. Io tentavo disperatamente di capire cosa la mia ‘amica’ mi dicesse, di là dal vetro, sopra le urla delle guardie e i pianti dei parenti. I piccolini si rincorrevano, su e giù per il corridoio. Una guardia li ha presi su e in malo modo li ha riportati alla sorella grande. Lei ha passato la cornetta a tutti e tre. A turno hanno salutato la mamma.
Fuori aspettavo che i colleghi finissero, fumando una sigaretta. I quattro fratelli sono usciti. I piccoli sempre correndo. Quella un po’ più grandina mi ha sorriso. Devo essere proprio buffa, qui. La grande camminava guardando a terra e strattonando la sorella che restava indietro. All’incrocio ha fatto un gesto. Un taxi si è fermato e si è portato via i quattro bambini. Soli.
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