INTERVISTATORE: “In questi primi dieci anni di regno Lei ha radicalmente trasformato l’economia della Giordania. Si tratta di un Paese senza risorse naturali che è riuscito a crescere in modo costante e consistente. Come ci è riuscito? Quali sono le lezioni che Lei ha imparato da questa esperienza?”
RE: “Prima di tutto, mai arrendersi. Non accettare “no” come risposta. Ci sono settori della società giordana che alle mie proposte di riforma sociale non fanno che rispondermi “tsk”, che questa cosa non potrà mai accadere perché è impossibile, perché non ci sono i soldi, ecc.. Ma non bisogna lasciarsi intimidire dai “no” che arrivano dalla società. Si cade, ci si rialza e si continua a provare. Io sono quel tipo di persona che vuole che le cose siano fatte oggi, e non domani. Dobbiamo dare un futuro alle giovani generazioni, bisogna dar loro un’istruzione, e la Giordania può davvero rappresentare un modello per l’intero Medio Oriente. Bisogna avere coraggio, non accettare la sconfitta e non accettare un “no” come una risposta ai nostri tentativi di cambiare le cose”.
Un uomo del fare, di quelli che piacciono tanto anche a noi in Italia. Così re Abd’Allah di Giordania ha cercato di presentarsi all’opinione pubblica internazionale. In questa intervista, condotta da Fareed Zakaria di Newsweek International in occasione del World Economic Forum di Davos di qualche giorno fa, Abd’Allah non si è risparmiato, parlando per oltre mezz’ora sui grandi temi della politica interna e regionale del suo Paese: la questione palestinese, le relazioni regionali e internazionali con l’Iran, la promozione di riforme economico-sociali in Giordania e lo stato del processo democratico nel suo Paese. Dimostrando anche doti di eccellente comunicatore.
RE: “Prima di tutto, mai arrendersi. Non accettare “no” come risposta. Ci sono settori della società giordana che alle mie proposte di riforma sociale non fanno che rispondermi “tsk”, che questa cosa non potrà mai accadere perché è impossibile, perché non ci sono i soldi, ecc.. Ma non bisogna lasciarsi intimidire dai “no” che arrivano dalla società. Si cade, ci si rialza e si continua a provare. Io sono quel tipo di persona che vuole che le cose siano fatte oggi, e non domani. Dobbiamo dare un futuro alle giovani generazioni, bisogna dar loro un’istruzione, e la Giordania può davvero rappresentare un modello per l’intero Medio Oriente. Bisogna avere coraggio, non accettare la sconfitta e non accettare un “no” come una risposta ai nostri tentativi di cambiare le cose”.
Un uomo del fare, di quelli che piacciono tanto anche a noi in Italia. Così re Abd’Allah di Giordania ha cercato di presentarsi all’opinione pubblica internazionale. In questa intervista, condotta da Fareed Zakaria di Newsweek International in occasione del World Economic Forum di Davos di qualche giorno fa, Abd’Allah non si è risparmiato, parlando per oltre mezz’ora sui grandi temi della politica interna e regionale del suo Paese: la questione palestinese, le relazioni regionali e internazionali con l’Iran, la promozione di riforme economico-sociali in Giordania e lo stato del processo democratico nel suo Paese. Dimostrando anche doti di eccellente comunicatore.
I temi dell'intervista
La Questione Palestinese
Abd’Allah è da tempo un convinto sostenitore della soluzione dei due Stati, secondo le linee guida della Arab Peace Iniative formulata dalla Lega Araba nel Summit di Beirut del 2002. Le ipotesi circolanti su un possibile impegno politico o militare del suo Paese in Cisgiordania, alimentate da alcuni politici israeliani, vengono invece smentite con forza: è lo stesso re a riconoscere che i territori sulle due rive del Giordano sono ormai due entità politico-nazionali ben distinte, e gli stessi palestinesi rimasti in Cisgiordania non sarebbero favorevoli a un ritorno di fiamma pre-1988. Senza contare che il suo Paese, già in difficoltà sotto la pressione di oltre 3 milioni di palestinesi (tra rifugiati e non) e di 400mila rifugiati iracheni, non sarebbe in grado di farsi carico di un territorio economicamente e socialmente devastato.
Il re ha sottolineato la scarsa credibilità di cui godono gli USA in questo momento presso gli stati arabi. Anni di politiche scriteriate da parte dell’amministrazione Bush, così come un’azione ancora timida e inefficace da parte del governo Obama hanno suscitato seri dubbi sulla capacità degli Americani di favorire un processo di pace duraturo tra Israele e Palestina. Abd’Allah è però ben cosciente che rinnovati negoziati di pace senza il sostegno attivo degli Stati Uniti sono semplicemente impraticabili. L’auspicio è che Obama cominci finalmente a esercitare una leadership forte e illuminata, e che i primi progressi possano già vedersi in occasione del prossimo summit della Lega Araba (in programma in Libia nel mese di marzo). Altrimenti anche la soluzione dei due Stati diventerà presto un miraggio, condannando la regione mediorientale alla perenne instabilità.
Questione iraniana e lotta al terrorismo
Il re è convinto che il conflitto israelo-palestinese sia la principale causa delle relazioni tumultuose tra il mondo arabo e il mondo musulmano da una parte, e il mondo occidentale, di cui Israele rappresenta una sorta di avamposto, dall’altra. Come sottolineava già in una precendente intervista, sono infatti ben 57 gli Stati che ancora oggi non riconoscono Israele (quasi un terzo delle Nazioni Unite), più di quelli che non riconoscono la Corea del Nord. Da questo peccato originale, secondo Abd’Allah, discenderebbero anche le tensioni tra l’Occidente e l’Iran – quest’ultimo fattosi protettore dei diritti dei palestinesi e dei libanesi sciiti in chiave anti-israeliana – oltre che la diffusione del terrorismo di matrice islamica in diversi Paesi, tra cui la Giordania.
La lotta al terrorismo rappresenta una priorità del Paese da parecchi anni, addirittura da prima degli eventi del 11/9. La necessità di garantire la sicurezza interna - anche questo angolo di Medio Oriente ha avuto il suo 11 settembre di sangue, rappresentato dagli attentati di Amman nel novembre 2005 – è il presupposto che legittima il governo giordano a intervenire in diverse aree del mondo per combattere Al-Qaeda. Spesso lavorando in stretta collaborazione con gli americani, come rivelato di recente dalla morte di un agente dell’intelligence giordana, impegnato in Afghanistan a fianco di alcuni agenti CIA.
La Giordania, la modernità e il processo democratico*
Il re tenta in ogni modo di accreditare l’immagine di una Giordania lanciata verso la modernità, stabile ago della bilancia in Medio Oriente. Un Paese musulmano “moderato”, di mentalità aperta e tollerante, che condanna apertamente l’estremismo islamico e gli atti terroristici, che si spende per il dialogo interreligioso - come sottolineato dall’iniziativa “A Common Word” e dalla recente visita del Papa ad Amman – che cerca di incoraggiare un ambizioso programma di riforme interne per favorire la partecipazione democratica. Abd’Allah è convinto che un sistema non possa diventare democratico solo grazie a riforme istituzionali calate dall’alto, quanto piuttosto in ragione di un maggiore coinvolgimento dal basso delle forze progressiste della Giordania. Per questo è necessario incoraggiare la creazione di una middle class attenta ai problemi del Paese, rispettosa degli interessi della collettività e competente nella gestione della cosa pubblica. Per questo è necessario coinvolgere le comunità locali nel processo decisionale, secondo una strategia di decentralizzazione dei poteri che si vorrebbe maggiormente rispettosa delle diverse tessere identitarie che compongono il mosaico giordano (la divisione del Paese in governatorati va in questa direzione).
Abd’Allah è da tempo un convinto sostenitore della soluzione dei due Stati, secondo le linee guida della Arab Peace Iniative formulata dalla Lega Araba nel Summit di Beirut del 2002. Le ipotesi circolanti su un possibile impegno politico o militare del suo Paese in Cisgiordania, alimentate da alcuni politici israeliani, vengono invece smentite con forza: è lo stesso re a riconoscere che i territori sulle due rive del Giordano sono ormai due entità politico-nazionali ben distinte, e gli stessi palestinesi rimasti in Cisgiordania non sarebbero favorevoli a un ritorno di fiamma pre-1988. Senza contare che il suo Paese, già in difficoltà sotto la pressione di oltre 3 milioni di palestinesi (tra rifugiati e non) e di 400mila rifugiati iracheni, non sarebbe in grado di farsi carico di un territorio economicamente e socialmente devastato.
Il re ha sottolineato la scarsa credibilità di cui godono gli USA in questo momento presso gli stati arabi. Anni di politiche scriteriate da parte dell’amministrazione Bush, così come un’azione ancora timida e inefficace da parte del governo Obama hanno suscitato seri dubbi sulla capacità degli Americani di favorire un processo di pace duraturo tra Israele e Palestina. Abd’Allah è però ben cosciente che rinnovati negoziati di pace senza il sostegno attivo degli Stati Uniti sono semplicemente impraticabili. L’auspicio è che Obama cominci finalmente a esercitare una leadership forte e illuminata, e che i primi progressi possano già vedersi in occasione del prossimo summit della Lega Araba (in programma in Libia nel mese di marzo). Altrimenti anche la soluzione dei due Stati diventerà presto un miraggio, condannando la regione mediorientale alla perenne instabilità.
Questione iraniana e lotta al terrorismo
Il re è convinto che il conflitto israelo-palestinese sia la principale causa delle relazioni tumultuose tra il mondo arabo e il mondo musulmano da una parte, e il mondo occidentale, di cui Israele rappresenta una sorta di avamposto, dall’altra. Come sottolineava già in una precendente intervista, sono infatti ben 57 gli Stati che ancora oggi non riconoscono Israele (quasi un terzo delle Nazioni Unite), più di quelli che non riconoscono la Corea del Nord. Da questo peccato originale, secondo Abd’Allah, discenderebbero anche le tensioni tra l’Occidente e l’Iran – quest’ultimo fattosi protettore dei diritti dei palestinesi e dei libanesi sciiti in chiave anti-israeliana – oltre che la diffusione del terrorismo di matrice islamica in diversi Paesi, tra cui la Giordania.
La lotta al terrorismo rappresenta una priorità del Paese da parecchi anni, addirittura da prima degli eventi del 11/9. La necessità di garantire la sicurezza interna - anche questo angolo di Medio Oriente ha avuto il suo 11 settembre di sangue, rappresentato dagli attentati di Amman nel novembre 2005 – è il presupposto che legittima il governo giordano a intervenire in diverse aree del mondo per combattere Al-Qaeda. Spesso lavorando in stretta collaborazione con gli americani, come rivelato di recente dalla morte di un agente dell’intelligence giordana, impegnato in Afghanistan a fianco di alcuni agenti CIA.
La Giordania, la modernità e il processo democratico*
Il re tenta in ogni modo di accreditare l’immagine di una Giordania lanciata verso la modernità, stabile ago della bilancia in Medio Oriente. Un Paese musulmano “moderato”, di mentalità aperta e tollerante, che condanna apertamente l’estremismo islamico e gli atti terroristici, che si spende per il dialogo interreligioso - come sottolineato dall’iniziativa “A Common Word” e dalla recente visita del Papa ad Amman – che cerca di incoraggiare un ambizioso programma di riforme interne per favorire la partecipazione democratica. Abd’Allah è convinto che un sistema non possa diventare democratico solo grazie a riforme istituzionali calate dall’alto, quanto piuttosto in ragione di un maggiore coinvolgimento dal basso delle forze progressiste della Giordania. Per questo è necessario incoraggiare la creazione di una middle class attenta ai problemi del Paese, rispettosa degli interessi della collettività e competente nella gestione della cosa pubblica. Per questo è necessario coinvolgere le comunità locali nel processo decisionale, secondo una strategia di decentralizzazione dei poteri che si vorrebbe maggiormente rispettosa delle diverse tessere identitarie che compongono il mosaico giordano (la divisione del Paese in governatorati va in questa direzione).
*Gli analisti politici non sono concordi nel giudicare l’azione riformatrice della monarchia, soprattutto a livello politico. In particolar modo, il recente scioglimento del Parlamento e la decisione di posticipare le elezioni alla fine del 2010 sembrano mettere in dubbio la veridicità dell'attuale processo di democratizzazione.
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