domenica 18 aprile 2010

La Rivoluzione

Siria, deserto orientale. Sei ore di viaggio in un pullman di linea puzzolente degli anni settanta, senza spazio per le gambe e con l’intrattenimento di ben DUE film egiziani. Arriviamo a Raqqa, una polverosa cittadina che da’ il nome a tutta la provincia settentrionale sull’Eufrate. Il letto del fiume si trova appena prima della città, placido e melmoso. Un paesaggio surreale, dove un corridoio verde di campi coltivati interrompe una distesa sconfinata di sabbia.

Decidiamo di proseguire, la nostra meta finale è il lago al-Assad poco più a Nord. Riusciamo a farci portare alla stazione degli autobus, e con 25 centesimi a testa prendiamo la strada per la città di ath-Thaura, fiduciosi di poter trovare un ostello di un qualche tipo. Il pullmino sgangherato corre sulla strada piena di buche. Siamo dentro in dodici e mi tengo lo zaino sulle ginocchia, mentre una litania coranica ci tiene compagnia durante il viaggio.

Ath-Thaura, in arabo rivoluzione. Una città nata e cresciuta tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo, quando si è trovata ad ospitare le migliaia di operai reclutati per costruire la diga più grande del Paese, la diga Tabqa. Una città costruita sul sogno del partito Ba’ath – il partito siriano di orientamento socialista ancora oggi al potere – di poter trasformare questo pezzo di deserto nel granaio del Paese, sviluppando un’agricoltura moderna e meccanizzata (con ancora poco successo, in realtà). Una città che si è sviluppata sulle rive di uno dei più grandi laghi artificiali del mondo, alla cui creazione hanno contribuito quasi 13mila persone, tra manodopera locale e ingegneri sovietici - erano gli anni della cooperazione economica tra Mosca e Damasco.


Ad ath-Thaura non ci sono alberghi, e non sembra una città particolarmente accogliente. Sono le dieci di sera, il conducente ci da’ dei pazzi per esserci avventurati in questa zona senza avere nessun contatto. Stiamo quasi pensando di tornare a Raqqa quando Mahmud - carnagione scura, tunica blu lunga fino ai piedi e sandali – dal fondo del pulmino si offre di ospitarci a casa sua. Ospitare tre sconosciuti (io, mio fratello e un suo amico) in zaino da campeggio che balbettano due frasi in arabo. Qui pare la cosa più naturale del mondo. Facciamo i kilometrici controlli di rito, ci registriamo alla stazione di polizia dando fotocopie fronte e retro, e poi ancora fronte del nostro passaporto. Ora siamo ufficialmente sotto la responsabilità e la protezione di Mahmud, ci dice il poliziotto, si scusa per i controlli ma questa zona è sotto un controllo particolare per via della diga.

Casette bianche col tetto piatto, con un cortiletto interno pavimentato e il bagno all'esterno (così uno può sopportare i disturbi intestinali contando le stelle nel cielo); bambini e giovani che corrono scalzi per strada e che ci guardano incuriositi; donne velate che ci osservano dalle piccole finestre delle loro abitazioni. Il quartiere a un certo punto sembra quasi fermarsi al nostro passaggio. I tradizionali “Welcome, welcome!” – ormai un marchio di fabbrica in qualunque area turistica mediorientale – qui non sono ancora arrivati e lasciano spazio a uno stupore e a una curiosità sorprendenti nella loro semplicità.


La notizia del nostro arrivo deve averci preceduto, a casa del nostro ospite tutta la famiglia ci sta aspettando. Ci sono almeno altri otto fratelli (sicuramente me ne son dimenticato qualcuno), ci sono i figli di un paio di questi che ci scorrazzano attorno. C'è la capofamiglia - un personaggio che sembra uscito direttamente da qualche epopea beduina di altri tempi, se non fosse per la sigaretta che tiene tra le dita - con un vestito nero che la copre dalla testa ai piedi e che lascia intravedere solo le rughe del viso. Ci togliamo le scarpe e le calze, ci portano in cortile dove c'è una bacinella e del sapone. Sempre sotto gli occhi del quartiere, ci laviamo faccia e piedi - addirittura una donna ci porta via le calze per lavarcele a mano - e torniamo dentro.


Il pavimento della stanza è ricoperto di tappeti, la gente siede per terra. Si parla di tante cose. Di quello che facciamo noi, del loro lavoro - sono quasi tutti muratori e stuccatori che girano per lavoro, vanno e vengono da Giordania, Libano, Damasco - di religione – sono musulmani sunniti praticanti - della famiglia. Far capire che ho studiato storia mediorientale e che lavoro per una organizzazione non-profit risulta piuttosto semplice, anche se non riescono a spiegarsi cosa ci faccia un italiano così lontano da casa. Però quando dico loro che ho quasi 26 anni e non son ancora sposato non ci crede nessuno, e per rafforzare il concetto mi presentano i bambini di uno di loro, ormai sposato e padre di famiglia a 25 anni. Dell’Italia non sanno niente, se non che ha una squadra di calcio dove giocano “Totti, Del Piero, Baggio”, e che sicuramente le ragazze là sono bellissime. Non ce n'è uno che parli una parola di inglese - è molto divertente vedere i miei compagni di viaggio destreggiarsi in grandi conversazioni gestuali mentre io cerco di tradurre almeno il senso di quello della loro comunicazione. Mi sto così crogiolando nel mio terzomondismo quando uno dei fratelli più grandi, sui 35-40 anni mi allunga il suo telefono per farmi vedere un paio di foto sul cellulare: Jean-Claude Van Damme e Jackie Chan, i suoi due attori preferiti. Non mi ero proprio accorto della televisione con tanto di decoder per il satellite.

E poi arriva la cena. Pollo con riso speziato, hommos (la crema di ceci), verdure, pane arabo, e naturalmente tanto tè. Un classico dell’ospitalità araba, ma sempre gradito. Hanno preparato tutto le donne di casa ma non si fanno vedere: in quanto maschi e in quanto non appartenenti alla famiglia (essere stranieri poco importa), ci è consentito mangiare solo con gli uomini della famiglia. Solo quando mi alzo per andare a lavarmi le mani nel cortile le vedo, sorridenti ne sedute in cerchio a discutere e mangiare tra di loro. Alcune di loro fumano sigarette, cosa che nella cultura beduina non viene considerata sconveniente.

Ci preparano i letti per la notte e ci lasciano tutto il salotto, dove presumibilmente di solito deve dormire tutta la metà maschile della famiglia. Questa sera dormiranno fuori nel cortile o in corridoio, e ovviamente non possiamo farci niente. Così come non potremo rifiutare la colazione del giorno dopo a base di falafel, crema di yogurt, aglio, carne, e ceci, patate fritte, uova, olive e formaggio. E una visita al lago con il loro camioncino.

In una zona del genere, dove la popolazione è da secoli abituata a convivere col deserto e le sue durezze, l’ospitalità finisce per essere la base della vita sociale comunitaria. Ospitalità vuol dire mettere a disposizione dell’ospite tutto, vuol dire offrire le cose migliori che si hanno senza chiedere niente o quasi in cambio. Non sempre è facile per un occidentale accettare pienamente questo tipo di ospitalità, che significa anche essere completamente in balia dell’ospitante e dei suoi programmi (e al quale non ci potrà sottrarre). Significa anche condividere una socialità intensa e totalizzante al quale forse non siamo più avvezzi, abituati a una distinzione tra pubblico e privato che assume confini molto diversi.
N.B.: Ringrazio Dimitris per le belle foto che potete vedere, è stato lui a documentare il viaggio

1 commento:

  1. che brividi questo racconto mediorientale al 100 % .. mi manca tutto questo!!

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