martedì 6 dicembre 2016

Matone ya maji

Matone ya maji.
Gocce d'acqua.

Gocce d'acqua che scendono incessanti dagli occhi stanchi di questa donna.
Occhi di chi ne ha vissute molte e viste di più.

Occhi che ti guardano e sembrano dire: io non so più cosa fare, aiutatemi.

Una donna, una nonna. Disarmata di fronte all'ennesimo guaio del nipote, disarmata di fronte alla vita che l'ha vista crescere in una baraccopoli, che ha visto morire sua figlia per avere in eredità un nipote arrabbiato con se stesso e col mondo.

K. è una di quelle persone che ti prendono a pugni in pancia ancora prima di conoscerlo.
K. non ha nemmeno 17 anni e ha visto e fatto talmente tante cose, belle e brutte, che ne potrebbe avere sessanta.


K. viveva in baraccopoli con i nonni, anziani, poveri, stancati da una vita di stenti al limite della sopravvivenza.
K. lo cercano in tanti, per fargliela pagare. Per questo la sicurezza ha dato un po' di soldi ai suoi nonni, per tenerlo lontano dallo slum. Altrimenti, dicono, we shoot, spariamo.

K. non voleva uscire dal carcere minorile, perché temeva per la sua vita.
E le ha provate tutte. Ha rubato prima al maestro e poi al catechista, stando ben attento a farsi beccare, per prolungare la sua permanenza fra le sbarre.

Quando K. ha capito che lo avrebbero comunque liberato, ha implorato di venire in Cafasso. Ne abbiamo parlato. Sembrava una situazione troppo difficile per una struttura come Cafasso.
Che si fa?

Arriva la notizia: K. ha provato a togliersi la vita in carcere.
La differenza di sensibilità fa sì che io veda le foto scattategli subito dopo.
Quella notte non riesco a chiudere occhio, figuriamoci lui.

K. arriva in Cafasso. E' un bambino nel corpo di un uomo. Ha un sorriso luminoso e fa sempre delle facce sciocche.
K. è grande, è alto. I pantaloni sono troppo corti, le ciabatte almeno un centimetro più piccole dei suoi piedoni, le maglie una taglia in meno.
Sembra che chi doveva provvedere a lui non si sia accorto che è cresciuto. Forse non se n'è accorto nemmeno lui.

Venerdì mattina Joseph, il coordinatore, mi scrive: vieni appena puoi, abbiamo un problema con tre ragazzi.
Volo in Cafasso. M., J. e K. hanno comprato della droga e ne hanno fatto uso la sera prima.
Sono incredula. Sono stata sempre con loro il giorno prima, come cavolo hanno fatto ad acquistare la sostanza?
Comunque ormai la frittata è fatta. Arriva la mamma di M., lui l'ha materialmente comprata, non ci sono alternative, la sicurezza non ne vuole sapere. E' fuori.
J. viene ripreso, ma lui è tanto tempo che è qui, lo conoscono bene, sanno della sua fragilità e scelgono di dargli una seconda chance.

E' il turno di K.
Arrivano i suoi nonni. Scarpe bucate e occhi lucidi.

Matone ya maji. Gocce d'acqua dagli occhi mentre raccontano di come K. minacciava i vicini per avere i soldi per bere e fumare.
Vediamo le foto della loro casa. Una stanza con le pareti di lamiera.

Piange questa nonna affranta. Non ha le forze per affrontare anche questa, non ha le forze per provvedere a se stessa, figuriamoci al nipote.
Piange forte, ma con dignità.

Piange anche K.

Piange il bambino restato senza mamma.
Piange il ragazzo che ha dovuto imparare a cavarsela da solo.
Piange il nipote che ha ferito i nonni per l'ennesima volta.
Piange K. perché sa che comunque quelle due persone, anziane e povere, sono tutto ciò che gli è rimasto.

La vita non è stata gentile con te, K.
Spero che tu riesca ad essere gentile con te stesso, e ti prometto che farò di tutto per far sì che questo accada.

Se vuoi sostenere la Cafasso House...

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