Fare i Cantieri non vuol dire
solo tornare a casa entusiasti e cento volte più ricchi grazie alle persone che
si sono incontrate e alle esperienze che si sono vissute. Fare i Cantieri
significa che, passati mesi dal tuo ritorno a casa, quando tutto ormai segue il
flusso della normalità e l’entusiasmo si è un po’ smorzato, basta una situazione
qualunque per farti leggere la realtà con uno sguardo diverso e riportare
davanti agli occhi scene lontane di mesi. Ti accorgi che la vera forza di esperienze
così non è la bufera di sentimenti, emozioni, idee, reazioni che provocano in
te, ma quel lavoro lento e nascosto che attivano dentro di te. E dopo mesi ti
guardi dentro e ti accorgi di essere cambiata al passo del “mormorio di un
vento leggero”...
Lo scenario è quello di un
qualunque lunedì sera di metà gennaio, ore 18, quando il lavoro finisce e hai
voglia di raggomitolarti al calduccio sul primo treno che ti porterà il più velocemente
possibile a casa. Ma il pendolare medio
sa che l’imprevisto sulle ferrovie è sempre in agguato, e così succede che,
arrivata in stazione, ti accorgi che un guasto ha bloccato totalmente tutti i
treni della tua linea: non tornerai a casa almeno per le prossime 3 o 4 ore.
Ti ritrovi così a dover attendere
un treno che non sai se e quando passerà, senza la possibilità di fare progetti
per la tua serata e di poter comunicare a casa quando e come arriverai. Nulla
di grave, viene da pensare, a parte il disagio del freddo sulle banchine, la
stanchezza della giornata sulle spalle, la calca delle persone arrabbiate e
nervose.
All’improvviso, dal nulla, un
pensiero ti passa per la testa come una stella cometa, come un lampo che
illumina la vera realtà delle cose: Rayfoun. Il Libano, l’attesa.
Mentre noi fortunati brianzoli ci
lamentiamo per un guasto che ci blocca per qualche ora, allo Shelter di Rayfoun
circa ottanta donne non hanno neanche più la forza e i diritti per ribellarsi a
chi si è preso la loro libertà. Mentre noi fremiamo per percorrere quei 30 km che
ci riporteranno a casa, a Rayfoun si disperano nel pensare quante migliaia di chilometri
è lontana la loro casa e quanto difficile sarà tornarvi. Mentre noi andiamo
urlando che “abbiamo lavorato tutto il giorno”, a Rayfoun ci sono donne che
scompaiono agli occhi del mondo e di loro stesse perché non possono lavorare né
fare null’altro, o perché di lavoro stanno morendo o moriranno. Noi ci sentiamo
lontani da casa perché fermi in attesa sui binari di una stazione da cui
passiamo tutti i giorni, e nel frattempo allo Shelter
il mondo intero è confinato nei pochi metri quadri di solidarietà di un paese
straniero e ostile. Mentre noi ammazziamo l’attesa tenendo lo sguardo fisso
sugli schermi dei nostri cellulari e mantenendo contatti costanti ma virtuali
col resto del mondo, le donne di Rayfoun hanno lo sguardo perso nel vuoto dei
loro ricordi così cari ma così dolorosi, così lontani ma così vivi, come una
ferita ancora aperta: ma quello è l’unico modo di portare lì con loro la propria
famiglia e la propria casa, e di mantenere un contatto con esse.
E’ incredibile come il disagio ferroviario
di un lunedì sera di gennaio possa trasformarsi, da motivo di rabbia che era, a
una nuova perla sulla collana iniziata mesi fa in Libano. Una collana che,
anche quando pensi di poter chiudere, ti accorgi che non è finita.
E’ meraviglioso che pochi giorni
in Libano sappiano ridimensionare così tanto le attese del nostro quotidiano
tran tran occidentale.
Chi pensa che l’attesa della
felicità sia meglio della felicità stessa, non è mai stato allo Shelter di Rayfoun.
Elena
Nessun commento:
Posta un commento