venerdì 23 febbraio 2018

Haiti. Vade quo vis?




Sono le sette di sera e il blu si è già mangiato il vermiglio delle case. Il profumo del pane abbrustolito ha appena lasciato spazio al tintinnio delle bottiglie mentre i fanali di un autobus anni sessanta fanno luce sul tram tram del sabato sera. Un timido abbraccio, un saluto. Qualcuno si trascina appresso uno zaino. Un sacco di riso, una gallina, o quella che dovrebbe somigliare a una valigia. Si parte. Haiti ti strappa il cuore, me lo avevano detto. 

Haiti profuma di Antica Roma. 
Perché lo schiavo, per essere liberato, veniva condotto per mano. Vade quo vis, gli diceva il padrone, Vai dove vuoi. E gli lasciava le dita. Per modo di dire, perché uno schiavo manomesso – così si chiamava - non era poi così libero di andare dove voleva. Era guastato. Un asinello sciolto sorvegliato a vista per drizzargli la via. 
Anche tu sei un po' come quello schiavo, nemmeno tu puoi andare dove vuoi. Il tuo passaporto te lo impedisce. Io, col mio bel documento rosso Borgogna, potrei andare ovunque senza chiedere un visto. Tu no. Haiti mi fa pensare all’Antica Roma, non te l’ho mai detto...

Qualcuno dice che il creolo sia una lingua povera, scarna di parole. Io credo piuttosto sia una lingua ricca, che ti fa andare al cuore. Ti fa vedere se hai capito, se sai andare all'essenziale. Anche con le persone.
Ecco, tu me lo hai insegnato.
Da amica, ti lascio la mano. 
“Viaggi da solo?” “No. Con tutti gli haitiani che se ne vanno in Cile.” Più di centomila solo nel 2017, si dice.
Mi hai preso in giro, come al solito. I migliori se ne vanno da qui. I migliori amici. Le teste migliori. È questa la povertà: Canada, Stati Uniti, Brasile. Qualcuno tenta persino per Guantanamo, infilandosi in una barca, sperando che La Isla Grande gli regali il lasciapassare per Miami. Caronti occasionali che regalano speranze low cost. Ma più che Caronte, il nulla osta per gli Usa pare piuttosto una chimera. 
Ti sei infilato il mio bracciale al polso e sei sgusciato su, su quell’autobus anni sessanta che spruzza kompa e vapore da tutte le parti. Proprio tu te ne vai in autobus per prendere l’aereo, tu che mi hai insegnato a stare in moto come si cavalca un puledro. Tu che mi hai detto che ad andare in moto per le strade di Haiti si impara a vivere, perché è salire almeno in tre che è la strategia per non cadere. Tu che mi hai detto che è cambiato il mio modo di stare in moto da quando sono qui. O forse sono cambiata io, mentre guadavamo pozzanghere che parevano fiumi e ci arrampicavamo per montagne talmente increspate da sembrare un presepe. Forse si dovrebbero pregiare le persone da come sanno stare in moto, mi hai detto, da come sanno incastrarsi agli altri per tenersi su. Bisognerebbe vederle prima insieme su una moto, le persone, e solo poi decidere se ne vale la pena. Anche questo me lo hai insegnato tu.

Tutti ti hanno detto che non è giusto.
“Non perdo un autista, con te perdo molta più gente” ti ha detto qualcuno.
È vero.
Senza di te Mare Rouge sarà più povera. 
Senza le tue storielle, i tuoi proverbi, il tuo sorriso da pubblicità da dentifricio stampato sempre sulle labbra. Senza le tue idee, la tua inventiva. Ma ognuno, dopotutto, ha il suo mar Rosso da attraversare e bisogna pur lasciarti la mano per dirti di andare. Sì, anche se quest’impresa ci sembra assurda. Dopotutto, ogni mar Rosso lo è. 
Che questa possa essere davvero la tua traversata, amico mio.
Che possano sul serio aprirsi sentieri inaspettati per portarti altrove, verso la tua Casa. Verso chi sei. La Casa è la prima cosa che Dio promette all’Uomo, direbbe un mio amico ebreo. Perché "bet", casa, è anche la prima lettera con cui si apre la Torah, la seconda dell'alfabeto. Come a dire che la prima,  invece - il primo passo- appartiene a Dio: è Lui che apre il mare. E allora corri, corri verso la tua Casa promessa, amico mio. Perché si può essere tanto schiavi anche da uomini liberi. Chi non realizza il tesoro che ha dentro non può essere libero, diventa pesante. E allora, non può andare dove vuole.  

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