martedì 8 maggio 2018

Viaggio all'interno del campo di Tal Abbas


Incontro con i volontari di Operazione Colomba, presente dal 2014 in un campo profughi nel nord del Libano. 


Tal Abbas, novembre 2017. Al nostro arrivo un folto gruppi di bambini e bambine di diverse età, incuriositi dai volti nuovi, ci corre subito incontro, alcuni si avvinghiano alle nostre gambe chiedendo “shu ismak??”, poi ognuno di loro prende uno di noi per mano e ci accompagna all'interno del campo. Insieme a loro c’è Alessandro, che ci accoglie calorosamente e ci presenta alle varie persone che ci stanno aspettando. Il loro benvenuto è altrettanto caloroso, diverse famiglie ci invitano a mangiare o a bere un tè nella propria tenda mentre i bambini ci corrono attorno reclamando attenzioni.

Siamo a Tel Abbas, un piccolo paesino libanese situato nella regione settentrionale dell’Akkar, in uno dei tanti campi profughi sorti in Libano con l'arrivo di centinaia di migliaia di persone siriane, in fuga dalla guerra che dal 2011 strazia il loro paese. Da dove ci troviamo, la Siria dista infatti pochi chilometri e le sue terre si vedono nitide all'orizzonte. Siamo vicinissimi al confine, quel confine da cui, dall'inizio della guerra ad oggi, più di 1 milione e mezzo di uomini, donne e bambini è passato per cercare salvezza dagli orrori della guerra. Lo stesso confine che negli ultimi anni, ed in particolare dal 2015, è sempre più chiuso ed uccide al pari di bombe e proiettili (di questo inverno è la notizia di diverse persone trovate morte congelate mentre tentavano di attraversare il confine).

Il campo è formato da una dozzina di tende rettangolari coperte da teli di plastica, una struttura in legno utilizzata per varie attività, uno spazio per bambini malmesso, alcune stanze in muratura di un edificio trasandato. Le famiglie sono numerose ed i bambini tanti – anche dieci per famiglia – ma lo spazio è poco ed ognuna di esse deve vivere in tende di pochi metri quadrati. Anche lo spazio esterno è ristretto, una striscia di terreno ghiaiato delimitato da una parte dalle tende stesse e dall'altra da alcuni edifici in muratura. Dietro alla prima fila sorgono altre due file di tende adiacente ad essa che però, come ci verrà poi spiegato, fanno parte di un campo distinto.  









Edificio in legno usato come scuola e per altre attività, prima che un incendio doloso ne distruggesse una parte. 

Il campo di Tal Abbas è simile a tanti altri insediamenti informali sorti in Libano dall'inizio del conflitto in Siria (informali, perché fin dall'inizio della guerra il governo libanese si è opposto alla creazione di campi formalmente riconosciuti sullo stampo di quelli palestinesi, esistenti nel paese da più di sessant'anni).  Eppure, esso possiede al tempo stesso una peculiarità che lo rende differente dagli altri: a fianco delle varie famiglie siriane che lo popolano, in una tenda del tutto uguale alle altre vivono, condividendo con le persone del campo una quotidianità faticosa e piena di ostacoli, alcune ragazze e ragazzi italiani. Essi fanno parte di Operazione Colomba, organizzazione nata come corpo non violento di pace della Comunità Papa Giovanni XXIII e presente da più di vent'anni in zone di conflitto. Tra loro, alcuni sono volontari e volontarie di corto periodo e si fermeranno solo alcuni mesi, mentre Alessandro è il volontario di lungo periodo e vive nel campo da quasi due anni.


Alessandro, al centro, insieme a due dei ragazzi del campo. 

Poco dopo il nostro arrivo, una delle famiglie insiste per averci ospiti a pranzo e ci accoglie nella propria abitazione. Essi sono tra i pochi del campo a vivere in una struttura in muratura, una stanza buia di pochi metri quadrati ricavata in un edificio di blocchi grigi, sicuramente più simile ad una cantina o a un magazzino per gli attrezzi che a una casa. A Tel Abbas come nel resto del Libano, le famiglie siriane che non possono permettersi l'affitto di un appartamento – la stragrande maggioranza - non hanno grandi alternative, una parte di esse vive in vecchi garage e magazzini convertiti in abitazioni di fortuna, in edifici abbandonati o incompleti situati nelle zone e nei quartieri più poveri delle città (spesso pagandone comunque l'affitto ai padroni di casa), i rimanenti nelle tende dei campi profughi sorti con l'inizio della guerra. La stanza, che funge da sala da pranzo durante il giorno e diventa camera da letto durante la notte – ospitando coricati l'uno accanto all'altro sui materassi stesi al suolo padre, madre ed i numerosi figli – è spoglia e fornita di pochissime cose: alcuni materassi ed un tappeto sul pavimento di cemento, una vecchia tv di pochi pollici in un angolo, una caldaia arrugginita al centro della stanza. Separato da una tenda un secondo spazio usato come cucina, vicino ad essa uno stanzino con una turca per i bisogni corporali. Nonostante la situazione di estrema vulnerabilità e povertà, l'accoglienza di Abu Mohammed, Umm Mohammed ed i loro figli è sorprendente: dopo esserci seduti lungo le pareti della stanza, ci viene portato un largo vassoio di ferro pieno di cibo squisito, tra cui falafel, hummus, laban, melanzane grigliate e ripiene, zatar, olive. Finito lo spuntino, Umm Mohammed ci offre prima tè zuccheratissimo e poi caffè turco, mentre Abu Mohammed insiste affinché fumiamo una delle sue sigarette. Malgrado le barriere linguistiche e l'imbarazzo del primo incontro, l'atmosfera è rilassata ed accogliente, alcune di noi giocano con i bambini e le bambine più piccole mentre altri chiacchierano con gli adulti ed i ragazzi più grandi.   








Dopo pranzo, Alessandro ci porta sul tetto di uno degli edifici in muratura delimitanti il campo e lì ci parla a lungo di come esso è organizzato, della vita al suo interno, delle difficoltà e dei pericoli quotidiani, e di ciò che Operazione Colomba fa per stare accanto ed aiutare  - quando possibile - le persone del campo e delle zone limitrofi. Ci viene così spiegato che le tre file di tende che vediamo dall'alto fanno in realtà parte di due campi distinti. Nel primo, quello dove ci troviamo, le varie famiglie pagano l’affitto della terra – tra le 30’000 e le 40'000 lire al mese per tenda – al proprietario terriero libanese. Le due file posteriori invece costituiscono un campo distinto, dove vivono famiglie ancora più povere e dove l’affitto della terra è pagato dalla carità di un saudita. Alessandro ci spiega come questo comporti però la presenza di regole molto più rigide e di un clima di tensione e di costante minaccia per le oltre 300 persone che vivono al suo interno.


I due campi visti dall'alto: le due file di tende più lontane costituiscono un campo distinto. 

Anche se la situazione del campo dove ci troviamo è relativamente migliore, essa è comunque precaria e piena di problemi. Le persone del campo, come la maggior parte dei siriani presenti in Libano, vivono in una situazione di vulnerabilità estrema e devono affrontare una quotidianità ricca di difficoltà e rischi. Le condizioni abitative sono inadeguate e le persone sono esposte alle intemperie ed al freddo durante l’inverno ed al caldo durante l’estate, in una regione dove le temperature sono molto alte durante i mesi estivi e molto basse durante i mesi invernali. Anche la gestione di servizi minimi come l'acqua – prelevata da alcuni pozzi presenti nel campo o acquistata e stoccata in cisterne – e l'elettricità è problematica, ed aggiunge ulteriori rischi alla già fragile situazione del campo. Gli impianti elettrici sono scoperti ed i fili vengono collegati e tirati da una parte all'altra come possibile, aumentando il rischio di cortocircuiti e di incidenti, soprattutto per i più piccoli. I bambini, numerosissimi, vivono infatti in un ambiente poco sicuro e pieno di pericoli, dove a volte si muore per un passo falso o per un eccesso di curiosità.  “I campi profughi non dovrebbero esistere, tolgono la dignità alla persona,” ci dice Alessandro mentre parla di due dei bambini che hanno perso la vita nel campo, una cadendo in uno dei pozzi d’acqua e l’altro rimanendo fulminato al contatto di un cavo elettrico. 






Ai problemi abitativi si aggiunge poi la sfida quotidiana della sussistenza. Secondo le stime ufficiali dell’UNHCR, la situazione economica dei siriani in Libano ha continuato a peggiorare negli ultimi anni: stando alle stime del 2017, 76% delle famiglie vive oggi sotto la soglia di povertà, mentre il 58% vive in una condizione di povertà estrema. A Tel Abbas come nel resto del Libano, alcune delle famiglie più vulnerabili ricevono su carta di credito un’assistenza monetaria minima da parte dell’UNHCR, che negli ultimi anni ha però ridotto il numero di famiglie assistite per mancanza di fondi. Inoltre, chi riesce lavora in maniera irregolare nelle zone limitrofe al campo, soprattutto nell'agricoltura e nelle costruzioni, ma è esposto allo sfruttamento e ad una totale mancanza di tutele e diritti per la sua condizione di irregolarità. La mancanza di risorse economiche si ripercuote sulla difficoltà d’accesso alle cure sanitarie, in un paese dove i servizi pubblici sono praticamente inesistenti ed il sistema sanitario risulta caro anche per la popolazione locale. Esempio della criticità della situazione è la storia di Ahmed, bambino siriano di un villaggio vicino che ha avuto un incidente ed è rimasto parecchi giorni con una gamba rotta, perché gli ospedali si rifiutavano di operarlo in mancanza di 1000 dollari, e solo dopo aver fatto una colletta e aver racimolato la cifra richiesta i ragazzi di Operazione Colomba sono riusciti a garantire l’operazione. Alle difficoltà di accesso al sistema sanitario si sommano le difficoltà nel garantire ai bambini un’educazione continuativa: malgrado gli aiuti internazionali, barriere economiche, logistiche e linguistiche continuano a impedire a buona parte dei bambini di ricevere un’educazione continuativa e completa. 




Le sfide quotidiane sono accompagnate ed amplificate dai problemi legati alla situazione legale delle persone residenti nel campo e alla difficile relazione tra esse e la popolazione libanese locale. La stragrande maggioranza dei siriani di Tal Abbas, come nel resto del Libano, non è in possesso di un permesso di soggiorno e risulta quindi illegale, anche se in possesso della registrazione con l’UNHCR. Questa situazione pone i siriani in una condizione di estrema vulnerabilità nei confronti delle autorità, che possono arrestarli ed incarcerarli in qualsiasi momento – spesso usando metodi violenti –  e ne limita notevolmente la libertà di spostamento, visti i numerosi check point e controlli disseminati lungo le strade libanesi, limitando la vita di molti adulti e bambini agli spazi ristretti che il campo offre. Un secondo problema riguarda la relazione tra gli ospiti del campo e la comunità locale libanese, una relazione che, come nel resto del Libano, è spesso tesa e conflittuale. Alessandro ci racconta come, nel caso di Tel Abbas, la presenza di Operazione Colomba sia iniziata proprio poiché gli abitanti del campo avevano ricevuto minacce dall'esterno. Alessandro non usa mezze parole e definisce come “mafiosi” i metodi utilizzati da alcune famiglie libanesi nei confronti delle persone siriane del campo, metodi fatti di minacce, intimidazioni e violenza. Per farci un esempio, Alessandro ci spiega come le persone del campo fossero costrette ad acquistare cibo e prodotti dal negozio di proprietà della famiglia che possiede i terreni dove le tende sorgono. Altra manifestazione palese della situazione conflittuale con l’esterno e dell’estrema vulnerabilità delle famiglie siriane è l’incendio che pochi mesi fa è scoppiato all'interno del campo bruciando parte della scuola, incendio che probabilmente ha avuto origine dolosa ed avrebbe potuto trasformarsi in una tragedia se solo ci fosse stato vento o se le persone del campo non se ne fossero accorte in tempo. 




Fronte a tutte queste difficoltà, la presenza ed il lavoro di Operazione Colomba risultano di fondamentale importanza per tutelare quanto possibile la dignità delle persone che vivono nel campo, per aiutarle ad affrontare le sfide ed i problemi quotidiani e per ridurre i rischi nel rapporto tra il campo e l’esterno.  Alessandro ci spiega come il lavoro di Operazione Colomba in Libano si articoli principalmente in tre parti. La prima consiste nella presenza diretta sul terreno, nella vicinanza alle famiglie e nella condivisione della quotidianità all'interno e all'esterno del campo. La presenza di ragazzi e ragazze italiane, che decidono volontariamente e gratuitamente di rinunciare temporaneamente ai propri privilegi per vivere temporaneamente accanto a persone che hanno perso tutto, non ha solamente un forte valore umano. In un mondo dove la nazionalità ed il colore del passaporto contano, la presenza di persone europee all'interno del campo svolge di per sé un ruolo di garanzia, protezione e deterrenza dalla violenza. I volontari di Operazione Colomba si pongono come mediatori quando sorgono situazioni di conflitto con l’esterno, sia con le autorità o con la popolazione locale. Recentemente, essi sono ad esempio riusciti ad impedire che una delle tende del campo costruita al bordo della strada fosse distrutta dall'esercito. La loro azione non è però limitata all'interno del campo. Con i cosiddetti “accompagnamenti”, essi scortano le persone negli spostamenti all'esterno del campo, a volte necessari ad esempio per ragioni mediche. Come già riportato sopra, la condizione di irregolarità della maggior parte delle persone siriane le espone ad arresti arbitrari e a violenze verbali e fisiche da parte delle autorità. La presenza di persone europee svolge anche in questo caso una funzione deterrente e di mediazione nel caso di controlli e durante il passaggio – spesso obbligato – attraverso i check point disseminati lungo le strade del Libano.

Il secondo campo d’azione di Operazione Colomba è la collaborazione con varie organizzazioni locali ed internazionali, e lo svolgimento di un ruolo di ponte e contatto tra esse e le persone del campo e delle zone limitrofi. Tra queste organizzazioni, la collaborazione con il progetto dei corridoi umanitari promosso dalle chiese valdesi e dalla comunità di Sant'Egidio merita una menzione speciale. Grazie a questo progetto varie famiglie del campo, alcune in grave necessità di cure mediche, hanno infatti potuto viaggiare verso l’Europa in maniera legale, e sono state accolte dalle varie comunità disseminate sul territorio italiano e francese. Malgrado il progetto riguardi purtroppo numeri molto limitati (anche considerando la partecipazione futura di altri stati Europei), esso rappresenta spesso l’unica speranza per le persone del campo, che hanno rinunciato da tempo all'idea – presente durante i primi anni di conflitto – di tornare in Siria nel breve periodo e vivono in uno stato che non li vuole e dove non vi è possibilità di alcun tipo di futuro.




Vista la situazione di limbo permanente in cui queste persone vivono, e visto il desiderio diffuso che esisterebbe tra i profughi siriani di tornare in Siria, se le condizioni fossero diverse da quelle attuali che rendono il ritorno impossibile, il terzo punto ancora più ambizioso sul quale Operazione Colomba lavora è la presentazione di una proposta di pace per la Siria. La proposta, scritta insieme ai profughi siriani stessi e presentata il 3 maggio al Parlamento Europeo, prevede la creazione di zone umanitarie sicure in Siria, neutrali rispetto al conflitto e sottoposte a protezione internazionale, dove i siriani scappati dalla guerra possano tornare a vivere in pace e sicurezza. Essa rimane per il momento solo una proposta e la sua realizzazione presenterebbe una serie di sfide ed ostacoli difficilmente superabili, ma rappresenterebbe al tempo stesso l’unica soluzione per centinaia di migliaia di persone, bloccate in un paese che non vuole e non può offrir loro un futuro e a cui l’accesso ad altri paesi, tra cui quelli Europei, è generalmente precluso. Secondo i volontari di Operazione Colomba è quindi necessario immaginare vie e soluzioni mai pensate prima, di cui la proposta di pace è esempio. 

Alessandro ci parla di tutto questo in piedi sul tetto di uno degli edifici delimitanti il campo, mentre la vita tra le tende continua come suo solito: i bambini giocano tra fili, tubi e cisterne, i più grandi si rincorrono, i più piccoli esplorano quella piccola porzione di mondo a loro disposizione. Alcuni adulti sono indaffarati, altri siedono su sedie di plastica, chi chiacchiera, chi fuma una sigaretta pensieroso. Abu Mohammed è sul tetto con noi ed anche lui fuma poco distante, tiene una mano appoggiata al fianco e con l’altra porta la sigaretta alla bocca ad intervalli regolari, con uno sguardo serio sorvola il campo che da lì sopra appare nella sua interezza. Per un attimo, smetto di ascoltare Alessandro e mi concentro sul suo sguardo, che mi colpisce come un pugno nello stomaco, di quelli che ti lasciano per alcuni secondi senza fiato. Vedendolo così, lo sguardo serio e pensieroso che mi appare velato di tristezza, mi chiedo cosa possa provare un padre nel vedere i propri figli crescere in un posto del genere, nel saperli in uno stato che non li vuole, mi chiedo da dove queste persone prendano la forza per continuare quotidianamente a vivere, a lottare, per sopportare una situazione che invece di migliorare di anno in anno peggiora peggiora, una situazione su cui non hanno alcun controllo, mi chiedo da dove arrivi la speranza, se ancora ce n’è. Ricomincio ad ascoltare Alessandro senza trovare risposte a queste domande che pesano come macigni, che porto a Beirut con me, quando con la gente del campo ci salutiamo con la promessa di tornare presto a trovarli. 

“I campi profughi non dovrebbero esistere, tolgono la dignità alla persona. È un posto che fa schifo, ma dove c’è tanta bellezza umana,” ci dice Alessandro, e questa è l’unica conclusione che riesco per il momento a raggiungere, mentre le stesse domande mi pesano addosso senza risposta e lo sguardo di Abu Mohammed mi rimane inciso come una cicatrice nella memoria e nel cuore. 





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